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n. 1 del 2003

 

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Donna e corpo
nella riflessione di Giovanni Paolo II

di Paola Moschetti
 

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Il tema del corpo – e qui in particolare della donna nella sua corporeità – ha largo spazio nell’insegnamento di Giovanni Paolo II, il quale si è trovato in un momento culturale che chiedeva di ripensare la figura femminile alla luce dei mutamenti che hanno portato a una nuova valutazione della donna in ogni ambito di vita. E lo ha fatto con una competenza e una sensibilità da lasciare stupiti. Il segreto – come egli stesso ha avuto modo di confidare – va ricercato nella sua viva relazione interiore con Maria, attraverso la quale è giunto a una più profonda comprensione della donna, della sua dignità e della sua vocazione1

.La riflessione di questo Papa tutto mariano sulla donna va dalla dimensione corporea a quella psichica e spirituale, chiarendo la funzione femminile sia nella Chiesa che nella società umana. E tutto viene fatto scaturire dall’origine della donna: un corpo che Dio plasma traendolo dall’uomo-maschio e a questi lo ridona perché non si senta più solo nell’universo. Così il discorso si intreccia con quello della creazione: un argomento particolarmente caro a Giovanni Paolo II il quale proprio agli inizi del suo pontificato, nel corso delle udienze generali del mercoledì, ha proposto una serie di catechesi sull’amore umano nel piano divino2. Un amore che parte dalla corporeità dell’uomo e della donna destinati a essere «una sola carne» (Gen 2, 24) e si esprime sempre in riferimento a questa unità originaria dei due. La presenza dell’elemento femminile, accanto e insieme a quello maschile, ha il significato di un arricchimento per la persona umana in tutta la prospettiva della sua storia, compresa la storia della salvezza.

L’approfondimento dei primi capitoli del libro della Genesi offre le basi per una vera e propria teologia del corpo. Di conseguenza, «il fatto che la teologia comprenda anche il corpo non deve meravigliare né sorprendere nessuno che sia cosciente del mistero e della realtà dell’Incarnazione. Per il fatto che il Verbo di Dio si è fatto carne, il corpo è entrato, direi, attraverso la porta principale nella teologia, cioè nella scienza che ha per oggetto la divinità»3.

Qualunque dimensione si guardi del femminile, non si può prescindere da quel corpo ricevuto dal Creatore. Anche nella Mulieris dignitatem (15 agosto 1988) Giovanni Paolo II riparte dal libro della Genesi per svolgere il discorso sullo specifico della donna, sia come madre di vita che come colei in cui meglio si esprime l’ordine dell’amore.

  

L’unità originaria uomo-donna

 

L’identità femminile viene colta attraverso le prime parole dell’uomo alla donna appena creata: «Questa volta essa è carne della mia carne e osso delle mie ossa» (Gen 2,23). Adamo, fino a quando non ha avuto al fianco Eva, si è sentito solo pur in quell’esplodere di vita vegetale e animale in cui il Creatore lo aveva posto. E il racconto della Genesi si svolge proprio sottolineando l’essenzialità per l’uomo di una creatura con cui poter comunicare: sembra che Dio prima gli faccia fare l’esperienza della solitudine, perché poi si accorga meglio del grande dono che riceve quando gli viene posta accanto la donna.

Così «l’uomo (maschio) manifesta per la prima volta gioia e perfino esaltazione, di cui prima non aveva motivo, a causa della mancanza di un essere simile a lui. La gioia per l’altro essere umano, per il secondo ‘io’, domina nelle parole dell’uomo (maschio) pronunziate alla vista della donna (femmina). Tutto ciò aiuta a stabilire il pieno significato della originaria unità»4.

 Unità e dualità ad un tempo. Questa caratteristica ontologica apre alla “comunione delle persone” e a quel concetto di “aiuto” che esprime una reciprocità nell’esistenza e che nessun altro essere vivente era in grado di offrire. «Nella creazione della donna è inscritto, fin dall’inizio, il principio dell’aiuto: aiuto – si badi bene – non unilaterale, ma reciproco. La donna è il complemento dell’uomo, come l’uomo è il complemento della donna: donna e uomo sono tra loro complementari»5.

E questo non solo dal punto di vista fisico e psichico, ma anche dell’essere: la femminilità ritrova se stessa di fronte alla mascolinità, mentre la mascolinità si conferma attraverso la femminilità. Il corpo rivela l’uomo. Così il corpo umano viene ad essere una realtà antropologica e ad un tempo teologica. «La teologia del corpo, che sin dall’inizio è legata alla creazione dell’uomo a immagine di Dio, diventa, in certo modo, anche teologia del sesso. O piuttosto teologia della mascolinità e della femminilità, che nel libro della Genesi ha il suo punto di partenza»6.

 

Proprio in quanto creati come “unità dei due”, l’uomo e la donna sono fatti per vivere una comunione d’amore tale da rispecchiare quella stessa comunione d’amore che è nella vita divina tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. «Questa unità dei due, che è segno della comunione interpersonale, indica che nella creazione dell’uomo è stata inscritta anche una certa somiglianza della comunione divina (communio). Questa somiglianza è stata inscritta come qualità dell’essere personale di tutt’e due, dell’uomo e della donna, ed insieme come una chiamata e un compito» (MD 7).

Sull’immagine e somiglianza di Dio è fondato tutto l’ethos umano, il cui vertice è il comandamento dell’amore. Quindi l’uomo e la donna sono chiamati sin dall’inizio non solo a vivere l’uno accanto all’altra, ma ad esistere reciprocamente “l’uno per l’altro”. E in questo si coglie già il carattere sponsale della relazione tra le persone.

Ma il mistero del peccato viene a turbare l’armonia originaria del rapporto tra l’uomo e la donna. Dice il testo biblico: «Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà» (Gen 3,16). E Giovanni Paolo II sottolinea come la perdita della fondamentale eguaglianza dei due è stata soprattutto a sfavore della donna. L’affermazione biblica ha in sé un riferimento diretto alla reciproca relazione dell’uomo e della donna nel matrimonio, e indirettamente raggiunge i diversi campi della convivenza sociale in cui la donna rimane svantaggiata per il solo fatto di essere donna.

Oggi, con il riconoscimento dei “diritti della donna”, si va verso il superamento di quella cattiva eredità, ma occorre che la donna sia fedele nel custodire quanto costituisce la sua essenziale bellezza. Infatti «le risorse personali della femminilità non sono certamente minori delle risorse della mascolinità, ma sono solamente diverse. La donna… deve intendere la sua realizzazione come persona, la sua dignità e vocazione sulla base di queste risorse, secondo la ricchezza della femminilità, che ella ricevette nel giorno della creazione e che eredita come espressione a lei peculiare dell’immagine e somiglianza di Dio» (MD 10).

  

Donna, madre di vita

 

Maternità e verginità sono le due dimensioni attraverso cui si realizza la personalità femminile. Nella figura di Maria coesistono e si armonizzano insieme, per questo ella rimane il modello a cui specialmente le donne sono invitate a guardare nel portare a compimento la propria vocazione, per l’una o per l’altra via.

La persona umana «non può ritrovarsi pienamente se non mediante un dono sincero di sé» (GS 24). Giovanni Paolo II afferma che questa verità apre la strada a una piena comprensione della maternità. Infatti «il reciproco dono della persona nel matrimonio si apre verso il dono di una nuova vita… La maternità implica sin dall’inizio una speciale apertura verso la nuova persona: e proprio questa è la ‘parte’ della donna. In tale apertura, nel concepire e nel dare alla luce il figlio, la donna si ritrova mediante un dono sincero di sé» (MD 18).

Attraverso la maternità la donna partecipa della potenza creatrice di Dio. Non solo il suo corpo, ma anche la sua psicologia sono strutturati in modo da comunicare vita. L’essere genitori si realizza molto più nella donna, la quale è coinvolta direttamente e “paga” impegnando anche le risorse del proprio corpo, specie nel periodo prenatale. Ella avverte il mistero di cui è strumento. «La maternità contiene in sé una speciale comunione col mistero della vita, che matura nel seno della donna: la madre ammira questo mistero, con singolare intuizione comprende quello che sta avvenendo in lei» (ivi).

 La generazione del nuovo essere umano avviene nel seno della donna con apparente passività. Poi «quando partorisce è afflitta, perché è giunta la sua ora; ma quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più dell’afflizione, per la gioia che è venuto al mondo un uomo» (Gv 16,21).

Giovanni Paolo II vede in queste parole di Cristo un legame tra la maternità e il mistero pasquale, nel quale è contenuto anche il dolore di Maria sotto la croce. E dalla sofferenza del parto lo sguardo si allarga a ogni sofferenza fisica o morale attraverso cui la donna passa trasformando la croce in vita: «In questa sofferenza ha una parte la sensibilità propria della donna; anche se essa spesso sa resistere alla sofferenza più dell’uomo. E’ difficile enumerare queste sofferenze, è difficile chiamarle tutte per nome: si possono ricordare la premura materna per i figli, specialmente quando sono ammalati o prendono una cattiva strada, la morte delle persone più care, la solitudine delle madri dimenticate dai figli adulti o quella delle vedove, le sofferenze delle donne che da sole lottano per sopravvivere e delle donne che hanno subito un torto o vengono sfruttate. Ci sono, infine, le sofferenze delle coscienze a causa del peccato, che ha colpito la dignità umana o materna della donna, le ferite delle coscienze che non si rimarginano facilmente. Anche con queste sofferenze bisogna porsi sotto la Croce di Cristo» (MD 19).

 Nel Vangelo la maternità è collegata con la verginità, come si vede dalle parole di Gesù ai discepoli che lo interrogavano sulla indissolubilità del matrimonio e la convenienza o meno di sposarsi (Mt 19,3-12). Con la venuta di Cristo la prospettiva cambia. Maria è la prima creatura umana ad intuire che «le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove» ( 2Cor 5,17). La sua maternità divina «è la risposta del tutto imprevedibile all’attesa umana della donna in Israele: essa giunge a Maria come dono di Dio stesso» (MD 20).

Così, alla luce del Vangelo, è nata la vocazione della donna anche alla verginità: «una via sulla quale, in un modo diverso dal matrimonio, essa realizza la sua personalità di donna» (ivi), sempre nella prospettiva di quel “dono sincero di sé”, che in questo caso passa attraverso un amore sponsale per Cristo.

La rinuncia alla maternità fisica, che può comportare anche sacrificio per il cuore femminile, apre alla maternità “secondo lo spirito”. La vocazione alla verginità viene vissuta in genere nelle varie forme comunitarie di vita consacrata o anche singolarmente. Comunque «è sempre vocazione di una persona, di una concreta ed irripetibile persona. Dunque, profondamente personale è anche la maternità spirituale che si fa sentire in questa vocazione» (MD 21).

Su questa base c’è un avvicinamento tra la maternità della donna sposata e quella della donna vergine. Entrambe le vocazioni trovano compimento nel “dono sincero della persona”. E come il profilo del matrimonio si ritrova spiritualmente nella verginità, così la maternità fisica è chiamata a essere, a un tempo, maternità spirituale per poter generare tutta la persona che è unità di corpo e di spirito.

E’ significativo che per illustrare la fondamentale missione della Chiesa ed esprimere la verità sul proprio servizio apostolico san Paolo non abbia trovato di meglio che il riferimento alla maternità: «Figlioli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finché non sia formato Cristo in voi» (Gal 4,19).

  

Il “femminile” e l’ordine dell’amore

 

Il carattere sponsale dell’amore tra l’uomo e la donna viene assunto nella Lettera agli Efesini (5, 21-33) per esprimere il mistero di Cristo e della Chiesa: una analogia in cui Cristo è lo Sposo e la Chiesa la Sposa. «Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei» (Ef 5,25). Della Chiesa, detta anche suo “corpo” (Ef 5,23) egli ha amato ogni singola persona. E ora essa come soggetto collettivo – fatto di tutti gli esseri umani, sia donne che uomini – è la “Sposa” di Cristo, chiamata a rispondere al suo amore. In questo modo il “femminile” diventa simbolo di tutto l’umano (cf MD 25).

Alla luce di quanto detto finora, Giovanni Paolo II individua ciò che decide della dignità della donna, sia agli occhi di Dio che agli occhi dell’uomo: «Sul fondamento del disegno eterno di Dio, la donna è colei in cui l’ordine dell’amore nel mondo creato delle persone trova un terreno per la sua prima radice» (MD 29).

Più facilmente che l’uomo ella è portata ad aprire tutto il suo essere all’amore che lo Spirito Santo vuole comunicarci. Nell’accoglierlo, esce dal proprio piccolo io limitante e diventa capace di farsi carico degli altri, coinvolgendosi totalmente nella situazione di una persona a lei cara per legami di sangue, di amicizia o di pura carità.

Ritorna alla mente quel che Caterina da Siena esprimeva con il termine “portare”: sentire anche nel proprio fisico la realtà dell’altro che assorbe energie mentre viene aiutato. Allora, l’essere posta nella dimensione dell’amore, comporta per la donna trovare anche concretamente spazio per amare, evitando di riempire la vita di troppe cose che rischiano di soffocare nella sua persona il richiamo e la possibilità di un dono di sé più profondo.

Nella Mulieris dignitatem si afferma che la dignità della donna viene misurata dall’ordine dell’amore. «Quando diciamo che la donna è colei che riceve amore per amare a sua volta, non intendiamo solo o innanzi tutto lo specifico rapporto sponsale del matrimonio. Intendiamo qualcosa di più universale, fondato sul fatto stesso di essere donna nell’insieme delle relazioni interpersonali, che nei modi più diversi strutturano la convivenza e la collaborazione tra le persone» (MD 29).

Dobbiamo riconoscere che «la forza morale della donna… si unisce con la consapevolezza che Dio le affida in un modo speciale l’uomo» (MD 30). E in un momento culturale come il nostro, in cui si rischia di perdere la sensibilità per quanto è essenzialmente umano, è più che mai attesa «la manifestazione di quel ‘genio’ della donna che assicuri la sensibilità per l’uomo in ogni circostanza: per il fatto che è uomo!» (ivi).

 La riflessione ci ha portato a scorrere soprattutto quelle pagine a cui è sottesa la corporeità della donna. Ma la figura femminile rimanda anche alla bellezza. Proprio Giovanni Paolo II vi ha fatto riferimento nel corso del 1995, anno dedicato alle donne. Rivolgendosi ai sacerdoti, li invitava ad approfondire l’immagine della donna come sorella, un titolo che «rappresenta una specifica manifestazione della bellezza spirituale della donna e a un tempo è rivelazione di una sua intangibilità»7.

Concludeva poi la Lettera alle donne con quelle qualità femminili che mettono in luce «la bellezza – non soltanto fisica, ma soprattutto spirituale – che Dio ha elargito sin dall’inizio alla creatura umana e specialmente alla donna»8.

Una bellezza di cui Dio è la fonte e che rientra nel discorso di una teologia del corpo umano: «Nell’ambito della luce che proviene da Dio, anche il corpo umano conserva il suo splendore e la sua dignità. Se lo si stacca da tale dimensione, diventa in un certo modo un oggetto, che molto facilmente viene svilito, perché soltanto dinanzi agli occhi di Dio il corpo umano può rimanere nudo e scoperto e conservare intatto il suo splendore e la sua bellezza»9.

Primizie di questa bellezza sono il corpo trasfigurato di Cristo e quello di Maria santissima assunta in cielo10.

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