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supplemento
n. 2 del 2003

 

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Diventare madre e padre nello Spirito
di Don Nico Dal Molin
 

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A. Il tempo dell’adulto maturo:
    la stagione della fecondità e dell’interiorizzazione

Con il tempo della vita adulta, quella delle scelte definitive compiute, la vita stessa sembra veramente stabilizzarsi: l’adulto ha una propria famiglia, dei figli, una professione, delle responsabilità sociali. Oppure ha compiuto la sua scelta vocazionale, impegnandosi totalmente per Dio e per gli altri, con passione e intensità.

Dall’idealismo della fase precedente e del tempo giovanile egli passa al realismo delle sue valutazioni. Si accorge che il tempo della giovinezza è passato, che la vita sta scorrendo veloce e che il tempo che gli sta dietro è forse maggiore di quello che ancora gli resta dinanzi.

Egli ha acquisito esperienza, competenza e consapevolezza delle proprie forze; in lui si è fatta strada la preoccupazione per qualcun altro di cui prendersi cura: vuole essere responsabile di qualcuno e desidera che si provi bisogno di lui. Tuttavia, questo movimento dinamico verso l’esterno, ha un suo equivalente nel bisogno di ritrovare spazi, tempi e modi di interiorità. E’ un’esigenza di concentrarsi sui bisogni personali, di sottoporre a verifica gli impegni e di rivalutare i valori scelti come perno della propria vita. In lui coesistono due tendenze: la spinta al ristagno e a chiudersi nel proprio mondo «acquisito» e la sfida verso una nuova «fecondità».

Erikson definisce questa «sollecitudine per l’altro» … generatività o fecondità! E’ una preoccupazione per quanto egli ha prodotto o generato. E’ una attenzione che deve coniugarsi con il distacco, per permettere, ad esempio ai figli, di camminare per la propria via, di sentirsi incoraggiati in questo cammino, di dare loro fiducia perché i loro progetti crescano e maturino al di fuori delle proprie pretese di possessività e realizzazione; la persona generativa e feconda è capace di rinunciare al controllo, spesso manipolatore, esercitato anche inconsciamente nel passato…

L’adulto maturo è anche portato a tornare dentro se stesso, a vivere la via del «ritorno», che il Talmud ebraico chiamano la «Teshuvàh», la via dell’interiorità: per fare un bilancio, per riequilibrare le proprie energie e forse anche per spostare le proprie prospettive. Questa può essere una fase di crisi matrimoniali, di divorzi, di nuovi matrimoni e anche di crisi per chi si è impegnato nella vita religiosa o sacerdotale. In essa sono possibili tre vie di fuga:

  • nel divertimento;

  • nell’attivismo frenetico e senza pausa;

  • o nella depressione; e quest’ultima sta diventando, purtroppo, una via di fuga sempre più seguita…

L’esito positivo della «Teshuvàh» è il raggiungimento di un maggiore livello di interiorità, cioè di capacità di recuperare l’unità di se stessi, con un senso di equilibrio e nuova consapevolezza delle scelte fatte.

Anche in questa fase di vita si aprono delle interessanti prospettive di esperienza religiosa.

All’interno di una comunità è importante che un adulto acceda a delle concrete responsabilità, senza che queste siano riservate solo alla gerarchia, affidando agli adulti stessi soli compiti esecutivi. Questo blocca la crescita di una esperienza religiosa e di una fede adulta e allontana dalla comunità gli adulti stessi.

E’ un tempo in cui offrire delle opportunità per favorire una nuova riconsiderazione della propria fede, in sintonia con il bisogno di interiorità e in termini di vera riconciliazione. E’ un investimento in tempi e persone, per aiutare gli adulti a riformulare il proprio messaggio religioso.

Due categorie specifiche della vita cristiana possono aiutare questa riformulazione: esse sono la Diaconia e il Mistero.

 a. Diaconia: è una categoria tipicamente evangelica e ha in Gesù stesso (Gv 13) il suo punto esplicito di riferimento. E’ la dimensione del potere che si fa servizio e della responsabilità che diviene sollecitudine.

 b. Mistero: in questa fase della vita l’adulto sperimenta tutte le sue possibilità, ma anche tutti i suoi limiti; la realtà è più grande di quella che egli riesce a concepire e a controllare. E’ la stagione opportuna per passare da una fede di tipo razionalistico a una fede che sa integrare il limite, la complessità, la contraddizione e il mistero. Una fede fatta di interiorizzazione, che porta alla riconciliazione con il reale, che si rivela lontano dall’ideale intravisto e sognato1.

 

B. Diventare madre nello Spirito…2

C’è un racconto orientale che narra di un giovane che esce da casa per andare in giro, conoscere il mondo e capire la vita. Dopo anni ritorna a casa e al padre che gli chiede che cosa ha imparato risponde: «Ho scoperto che Dio è mio padre». Al che il padre commenta: «Non c’era bisogno di perderci tanto tempo e fatica. Lo sappiamo che tutti siamo figli di Dio». E il figlio incalza: «Una cosa è saperlo, altra cosa è scoprirlo». Una cosa, potremmo dire, è sapere per sentito dire, un’altra è sapere per scoperta. Giobbe dirà: «Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono» (Gb 42,5). E il saggio Confucio commenta: «Io sento e dimentico, vedo e ricordo, faccio e capisco».

Questo suona come invito a non darci subito delle risposte, a non chiudere la nostra ricerca, ma abituarci a masticare, per assimilare e non scadere in frasi fatte o in un parlare vuoto e senza senso.

Attraverso il gioco dei contrasti di ombre e di luci, tipico ad esempio dei quadri di Rembrandt Van Ryn o del Caravaggio o del Giorgione, vorrei qui presentare la figura del padre e della madre. Dico chi non è vero padre e madre, per poi proporre alcuni brani di una pagina evangelica a tutti noi nota: la parabola del padre misericordioso.

1. Non è vera madre chi crea dipendenza. Il dipendere del figlio o il dipendere dal figlio, è non offrire all’altro uno spazio in cui si è se stessi nella libertà.

Ognuno di noi desidera essere utile a qualcosa e più ancora a qualcuno. In realtà, viviamo per spendere bene la nostra vita. Ma quando questo bisogno supera certi limiti e diventa molto forte, si può correre il rischio, anche con le intenzioni e le motivazioni più spirituali, di creare disfunzioni e manipolazioni nei rapporti con l’altro. E gli esempi non mancano. Esempi eclatanti sono quelli di colui che si prende cura dell’altro, ma lo fa in modo che resti alle sue dipendenze, privandolo della possibilità di maturare e di fare delle scelte responsabili; di colui che vede più richieste di quelle che l’altro manifesta subissandolo di domande, di consigli, di esortazioni; di colui che si preoccupa in modo eccessivo della felice soluzione di una situazione; o di colui che si deprime quando non può essere utile come vorrebbe o quando deve prendere coscienza, per necessità di cose, della propria impotenza ad aiutare.

In quelle circostanze può fare da cartina al tornasole il modo in cui gestiamo le nostre reazioni di fronte ai fedeli che non si interessano delle nostre cure pastorali e non colgono il significato di quanto facciamo o diciamo loro.

Come ci sentiamo? Cosa sperimentiamo?

E’ importante per noi apprendere la capacità di sentirci ugualmente testimoni di Dio, anche quando abbiamo la sensazione di essere inadeguati. Accettiamo di stare accanto alle persone, di sentirci inutili, ma presenti nella loro vita.

Questo è il mistero salvifico della croce. Ai piedi della croce c’è gente che dice: se non scende vuol dire che non è Figlio di Dio, perché se è Dio deve avere la potenza di scendere dalla croce. Ma c’è anche chi dice: proprio perché rimane sulla croce … io ci credo, perché vedo la forza dell’amore e non la forza della potenza.

Ci piaccia o no: lo scandalo più grave è che Cristo non ha risolto i nostri problemi, li ha condivisi. E questa è la novità cristiana, questo è il vero miracolo. La nostra impotenza che diventa potenza di Dio. La nostra debolezza che si trasforma nella forza di Dio. Il nostro condividere che diviene speranza e salvezza per l’altro3.

2. Non è vera madre chi, per esistere e sentirsi viva… progetta, organizza, fa tante cose, usa le attività quasi come una coazione a ripetere.

Non ci diciamo forse «cosa faccio?». Non cerchiamo forse di vivacizzare la nostra vita, facendo e operando? Non diciamo forse «Valgo perché opero, perché faccio, perché agisco, perché incontro quel tale, perché le cose che organizzo riescono, perché tanta gente mi segue?».

Questa è una forma di… teomania: illusione di essere come Dio. E’ follia pura e onnipotenza infantile. Noi esistiamo e siamo non perché facciamo e operiamo, non perché le cose ci riescono o gli altri rispondono alle nostre iniziative e abbiamo successo. Noi esistiamo e siamo anche quando non riusciamo, non abbiamo successo e gli altri non rispondono ai nostri progetti.

Non dobbiamo colpevolizzarci né dobbiamo cercare di fare, di escogitare chissà che cosa. Potrà dispiacerci per la cura che abbiamo delle persone, perché ci accorgiamo di loro e questo è positivo, ma non possiamo diventare rigidi, aggressivi, coattivi, ossessivi e quasi offenderci. Non possiamo accollarci le scelte degli altri. Prenderci cura non equivale a colpevolizzarci, a sentirci dei falliti, perché non riusciamo nel nostro intento. L’altro ha il diritto di esistere in quanto si esprime ed agisce diversamente da noi.

3. Non è vera madre chi si crede onnipotente e, come novello Re Sole, stabilisce tutto, o con strategie e furbizia impone o si sostituisce all’altro nelle attività pastorali.

Noi probabilmente non accettiamo l’altro! Quando dobbiamo lavorare insieme, scattano in noi paure, meccanismi di difesa o di rifiuto che ci fanno vedere nell’altro uno che può competere con noi. Rifiutiamo l’altro perché vogliamo essere appagati dal nostro lavoro, dal nostro personale progetto.

Dell’altro vogliamo servirci e lo accettiamo nella misura in cui si accetta (ma bisogna vedere fino a dove!) il nostro progetto. Insomma, sì all’altro se si lascia strumentalizzare. Crediamo poco nella complementarietà, nel mettere i propri carismi in relazione.

4. Non è vera madre chi vede dovunque pericoli, errori, insidie, difficoltà. Questa sarà una madre iperprotettiva, che crea figli incapaci di staccarsi completamente da lei, o alla ricerca di sostituti o di persone alle quali appoggiarsi.

5. Non è vera madre chi gestisce il rapporto con l’altro con una corazza valutativa, fredda, distaccata, giuridica, facendo riferimento a leggi, regole, disposizioni (anche se a volte necessari), che passano sopra le teste degli altri e a volte le decapitano. Vera madre non è chi impedisce a colui/colei che si accompagna, di ascoltarsi e di ascoltare il Maestro interiore che abita dentro di lui, caricandolo di principi astratti e pie esortazioni.

 

E’ vera madre chi…

1. Vera madre è chi, pure stando in silenzio e non invadendo, fa sentire la sua vicinanza, il suo sostegno, il suo amore nei momenti di dolore.

2. Vera madre è colei che, invece di dirci cosa dobbiamo fare o dove dobbiamo andare, ci ascolta, ci aiuta a esplorare le nostre ferite, ci offre l’occasione per stare da soli e di affrontare il rischio di penetrare nei sentimenti spesso imbarazzanti e disonorevoli, rintracciandone le radici.

Suggestive a riguardo risultano le parole di Diadoco di Fotico sulla paternità spirituale.

Secondo lui, dobbiamo mantenere calma la superficie per vedere bene fino in fondo all’anima: «Quando il mare è calmo, gli occhi del pescatore possono penetrare fino al punto dove potrà distinguere i vari movimenti nella profondità delle acque e nessuna delle creature che si muovono per i sentieri marini gli può sfuggire. Ma il mare, quando è increspato dal vento, nasconde nella buia agitazione ciò che mostra nel sorriso di una giornata serena»4.

Qual è l’importanza di tutto questo? Diadoco dice che a mente serena possiamo distinguere le ispirazioni buone da quelle cattive, in modo da custodire gelosamente le prime e allontanare le altre.

3. E’ vera madre colei che non cerca di cambiare l’altro. Ed è forte in noi la tentazione di cambiare gli altri. E’ un diritto e una pretesa che inconsapevolmente rivendichiamo. A che cosa serve la vita se non ci adoperiamo ad aiutare gli altri? A plasmarli secondo i nostri progetti (che naturalmente chiamiamo di Dio)? A farli pensare come la pensiamo noi?

Non ci passa neppure per la testa che tanti nostri atteggiamenti sono dettati dalla voglia di avere tante persone che ci attorniano, di fare proseliti e non invece di stabilire una relazione fraterna e paterna.

Illuminante è una storia di A. De Mello: «Per anni sono stato un nevrotico. Ero ansioso, depresso ed egoista. E tutti continuavano a dirmi di cambiare. E tutti continuavano a dirmi quanto fossi nevrotico. E io mi risentivo con loro, ed ero d’accordo con loro e volevo cambiare, ma non ci riuscivo, per quanto mi sforzassi. Ciò che mi faceva più male era che anche il mio migliore amico continuava a dirmi quanto fossi nevrotico. Anche lui continuava a insistere che cambiassi. E io ero d’accordo anche con lui, e non riuscivo ad avercela con lui. E mi sentivo così impotente e intrappolato. Poi, un giorno, mi disse: “Non cambiare. Rimani come sei. Non importa se cambi o no. Io ti amo così come sei; non posso fare a meno di amarti”. Quelle parole suonarono come una musica per le mie orecchie: “Non cambiare. Non cambiare. Non cambiare... Ti amo”. Allora mi rilassai. E mi sentii vivo. E, oh meraviglia delle meraviglie, cambiai »5.

Solo accettando la persona come è, la aiutiamo a migliorarla e a diventare come vuole essere.

4. E’ vera madre colei che non ha un’idea astratta del figlio/a, perché l’idea distorce la realtà e non fa vedere. Non lo vive come oggetto del proprio desiderio, volendolo migliore. E’ un pieno amore nella concretezza…

5. E’ vera madre, ancora, colei che ama vedendo realmente l’altro. Vedere è morire al proprio io, alle proprie categorie mentali, ai pregiudizi, alle etichette, alle aspettative, ai giudizi e alle esperienze passate.

Dopo questa carrellata di «identikit materni», a chi fare riferimento? Dove trovare una risposta? Il Vangelo di Luca, al capitolo 15, ci presenta un modello.

«Quando era ancora lontano, il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo, mettetegli l’anello al dito e i calzari ai piedi. Portate il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a fare festa» (Lc 15,20b-24).

In questi pochi versetti, ciò che è più divino viene espresso con ciò che c’è di più umano. Sono evidenziati quattro movimenti che Dio compie nel suo essere padre: vedere - accogliere - prendersi cura - fare festa.

Sono i movimenti che siamo chiamati a compiere anche noi, se vogliamo diventare padri e madri.

Questo padre non ha un’idea astratta del figlio, proprio perché l’idea distorce la realtà, e non fa vedere. Così ad esempio l’idea del vino non è il vino e nessuno si è mai ubriacato per aver compreso intellettualmente la parola vino.

Questo padre non ha l’idea del figlio che deve corrispondere a determinati canoni e modelli. Non lo etichetta come figlio degenere e scapestrato. Non lo vive come un oggetto del proprio desiderio, volendolo migliore.

Piuttosto, questo padre ama suo figlio, quale realmente è, qui e ora nella sua concretezza, nella sua unicità, nella sua vitalità, nella sua povertà e non come è nei suoi ricordi, nelle sue aspettative, nella sua immaginazione.

Amare è vedere realmente l’altro e vedere è morire al proprio io, cioè alle proprie categorie mentali, ai pregiudizi, alle etichette, alle aspettative, ai giudizi, ai legami derivati dai condizionamenti subiti e dalle esperienze passate. Questo implica una severa disciplina: mettere a tacere i nostri desideri, i nostri pregiudizi, i nostri ricordi, le nostre proiezioni, la nostra maniera faziosa di guardare, i nostri ostinati punti di vista.

«Commosso, gli corse incontro». C’è un dipinto di Rembrandt, risalente al 1668-1669 (è stato lo spunto per H. J. M. Nouwen (1932-1996) nello scrivere il libro L’abbraccio benedicente), che mostra con una maestria particolare l’accoglienza che il padre riserva al figlio. E’ un dipinto, ora all’Ermitage di San Pietroburgo, che affascina e commuove. C’è un padre con la mano sinistra forte e muscolosa, mano tipicamente maschile, che si posa sul figlio con una certa delicatezza e lo stringe a sé con energia e nello stesso tempo lo sorregge.

La mano destra, raffinata, delicata e tenera, si posa dolcemente sulla spalla del figlio. E’ una mano che vuole accarezzare, calmare, offrire conforto e consolazione. E’ una mano di madre. Questo padre tocca il figlio con una mano maschile e femminile. Lui sorregge, lei accarezza. Lui rafforza e lei consola. Il nostro Dio è un Dio Padre e Madre. «Si dimentica forse una madre del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se ci fosse una donna che si dimenticasse, io non ti dimenticherò mai. Ecco, io ti ho disegnato sulle palme delle mie mani, le tue mura sono sempre davanti a me» (Is 49,15-16).

Inoltre questo padre cerca il figlio da lontano, vuole trovarlo e desidera portarlo a casa. Ha bisogno del figlio quanto lui ha bisogno del padre.

Dio non è il patriarca che se ne sta a casa e aspetta che suo figlio vada da lui, si scusi per il suo comportamento, chieda perdono e prometta di essere migliore. Al contrario, lascia la casa, corre verso di lui, incurante della propria dignità, non bada a scuse e promesse di cambiamento, anzi sembra che non lo ascolti nemmeno quando dice: «Padre ho peccato contro il cielo e contro di te...», e lo porta alla tavola riccamente imbandita per lui.

Signore, voglio rivolgerti solo una preghiera. «Fammi sentire una profonda nostalgia di Te. Fammi sentire padre e madre».

Essere padre e madre è avere lo stesso cuore di Dio.

Questo padre si prende cura personalmente e concretamente del figlio. «Portate subito il vestito più bello, mettetegli l’anello al dito e i calzari ai piedi». Sono attenzioni personali, concrete, delicate - si noti «il vestito più bello», che rivelano il volto del padre.

Compito del padre è armonizzare i conflitti dei figli, è esortare con interesse perché la vita tutta intera sia vissuta nel segno dell’unità: non professata a parole, ma testimoniata con i fatti.

«Portate il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa». Questo padre si rallegra, non perché i problemi del mondo sono stati risolti, non perché milioni di persone si sono convertite. No, questo padre si rallegra perché uno dei suoi figli, che era perduto, è stato ritrovato.

Statisticamente non è rilevante. Ma sembra che a questo padre i numeri non interessino.

Noi siamo abituati a sentire storie dolorose, problematiche, difficili e ingarbugliate. Siamo preparati a ricevere cattive notizie, a leggere di violenze, crimini e a essere testimoni di conflitti.

Dobbiamo imparare a fare festa e ad assaporare le gioie semplici e concrete di ogni giorno… Piccole gioie che ci tolgono dalla tensione, dalla frustrazione e serietà nella quale ci immergiamo, come se tutto il mondo poggiasse sulle nostre spalle.

Piccole gioie che dobbiamo prenderci e non sentirci assolutamente in colpa, pensando che ciò significhi sottrarre tempo alle attività pastorali.

Chi ci osserva e chi ci cerca ha tutto il diritto di trovarci sereni, rinfrancati e armonici. Se fossimo più pieni della gioia di Dio e più integrati con noi stessi renderemmo di più e saremmo ricercati di più dai nostri fedeli proprio per quel pizzico di gioia che facciamo trasparire dai nostri volti e non trovano nelle caricature di tanti padri.

C’è una via per questa paternità e maternità spirituale? Oppure siamo condannati a ricorrere all’autorità del potere anziché all’autorità della misericordia?

Le vie che portano ad una vera paternità e maternità di misericordia sono: il dolore, il perdono, la generosità.

Per diventare padre la cui unica autorità è la misericordia, siamo chiamati a ricevere chiunque, qualunque itinerario abbia percorso, a versare lacrime e a sentirci a volte svuotati dalla sofferenza. Essere padre e madre è generare alla vita e generare è soffrire. Forse è per questo che ci sono poche persone disposte a rivendicare di essere padri e madri nella contrazione da grembo.

La seconda via che conduce alla paternità spirituale è il perdono che viene dal cuore. Anche se abbiamo detto: «Ti perdono», il nostro cuore può rimanere chiuso nella rabbia, nel risentimento, nella sfiducia.

La terza via è la generosità. Essere generosi è agire in base alla verità che coloro, ai quali ci si chiede di perdonare, appartengono alla nostra stessa famiglia. Non a caso la parola generosità ha in comune con le altre parole quali «genere», «generazione», «generatività», la radice «gen».

«La verità è misericordia pura, dalla quale dobbiamo essere rivestiti da capo a fondo per poterci dire cristiani».

Termino con le parole di un grande scrittore contemporaneo H. J. M. Nouwen, che ha incontrato il volto mite e festoso del Salvatore: «C’è un vuoto terribile in questa paternità/maternità spirituale. Niente potere, niente successo, nessuna popolarità, nessuna facile soddisfazione. Ma questo terribile vuoto è anche il luogo della vera libertà. Il luogo dove “non c’è niente da perdere”, dove l’amore non è costretto da legami e dove si può trovare la vera forza spirituale»6.

  

C. Per capire meglio la dimensione della «Madre»…
    in quanto donna

 Sono alcuni spunti, a flash, che possono coniugare meglio la dimensione della maternità e della femminilità anche nella vita consacrata.

a. La madre è colei che ha il senso dell’offerta e non del trattenere per sé… Sono altamente significative le figure di Maria al tempio e di Anna con il figlio Samuele…

Questo va contro la tendenza diffusa alla iperprotezione e alla possessività affettiva.

b. La madre nelle decisioni non agisce da sola, ma è unita al padre.

Il rischio, altrimenti, è di una figura gigantesca, quella materna, e di una figura nana, quella paterna. Quando Maria e Giuseppe non trovano Gesù nella loro carovana che ritorna da Gerusalemme, Maria dice: «Tuo padre ed io ti cercavamo…».

c. Anche fisicamente la madre è molto attaccata al figlio, perché il suo corpo biologico è configurato e proteso verso la maternità.

Questo evidenzia il senso di un cuore di madre che dona la vita, che è capace di dimenticarsi per far crescere la propria creatura…

d. La madre piange il figlio di un dolore diverso da ogni altra creatura.

Nessuno, come la madre, sente il dolore del figlio perduto o il distacco da lui…

e. Mano a mano che passano le varie età della vita, la madre dovrebbe imparare a farsi piccola, perché il suo figlio cresca; è un imparare a guardarlo, sempre, con indicibile affetto, da lontano.

f. La madre vive il rapporto con quella emotività-sensibilità che non è un limite, ma la capacità di ascoltare fino in fondo le ragioni del cuore.

g. La madre, proprio perché donna, è allenata a una certa sofferenza, e per questo vive con più compassione i momenti difficili della vita, ma anche con quel coraggio che ha fatto la forza e la propositività di tante … madri coraggio!

h. La madre, ancora perché donna, è capace di una grande forza intuitiva; è quell’acutezza che non si impara sui libri né sui testi di psicologia, ma che aiuta a leggere tra le righe, a cogliere il senso di un silenzio o di una pausa di un discorso, o di un imbarazzo che è altamente comunicativo.

In questo senso, proprio perché donna, può aiutare o distruggere, perché più dell’uomo sa cogliere i punti deboli dell’altro…

i. La madre, perché donna, ha una grande capacità di conservare nel cuore quello che è accaduto; il senso degli eventi forma in lei quella che possiamo chiamare la forza della «memoria affettiva».

l. Da ultimo, non dimentichiamo che la madre è sempre il perno di ogni relazione familiare. Il legame con lei è particolarmente forte, senza andare a scomodare il complesso di Edipo, e senza di lei una casa perde tanta della sua vitalità e spesso diventa … morta!

 

D. Diversità e complementarietà di padre e madre

Molto brevemente, vorrei cercare di riflettere sulla figura del padre e della madre spirituale, per vedere se si può parlare di una diversità fra di essi perlomeno di accenti, in una sostanziale unità di compito, ma in una diversità e complementarietà di doni e di funzioni rispetto al figlio/discepolo. In effetti la Scrittura parla molto spesso di Dio-Padre e solo qualche volta di Dio-Madre (cf Is 66,1213; 49,15), e tuttavia anche quando parla della paternità di Dio utilizza a volte immagini della vita materna, come le «viscere di misericordia» (sono le viscere dell’utero materno).

A partire dal modo in cui la Scrittura ci annuncia questa paternità-maternità di Dio è possibile cogliere una diversità fra la figura del padre spirituale e quella della madre spirituale, anche a livello antropologico?

Anzitutto, cerchiamo di leggere con attenzione i testi.

Dt 1,30-33: «Il Signore stesso, il vostro Dio, cammina davanti a voi e combatterà per voi, proprio come ha fatto tante volte sotto i vostri occhi in Egitto e nel deserto. Insomma, avete visto quel che ha fatto il Signore, il vostro Dio: per tutta la strada percorsa fin qui, vi ha portati come un padre porta il proprio figlio. Nonostante le mie parole, voi continuaste a non aver fiducia nel Signore, vostro Dio: lui che camminava davanti a voi lungo la strada, per cercarvi un posto per l’accampamento: di notte vi indicava la via da percorrere con la colonna di fuoco e di giorno con la colonna di nubi».

Il Signore ha guidato Israele nel deserto come un uomo, cioè un padre, porta, guida il proprio figlio! Il compito del padre, dunque, è quello di guidare il figlio, di camminargli davanti, di precederlo e aprirgli la via, affinché egli possa vedere la strada e sapere dove andare e vada su cammini di vita e non di morte. La Scrittura ritorna molto spesso su questa azione di guida-pastore di Dio nei confronti del suo popolo Israele (cf Es 15,13; Dt 32,12; Ne 9,12; Sal 72,21; 78,52 ... ). E il Signore guidava Israele con una nube di giorno e con una colonna di fuoco di notte (Es 13,21-22), e dunque in un modo in certa misura visibile per Israele, di una visibilità non totale, ma parziale e mediata sì. E anche questo mi pare importante per il nostro discorso.

Ma l’A.T. parla anche, in modo estremamente più sobrio, ma tuttavia molto presente, di un altro atteggiamento del Signore verso Israele durante il cammino nel deserto: il Signore, cioè, non solo precedeva e guidava il popolo, ma anche lo seguiva: «Il Signore tuo Dio ti ha benedetto in ogni lavoro delle tue mani, ti ha seguito nel tuo viaggio attraverso questo grande deserto; il Signore tuo Dio è stato con te in questi quaranta anni e non ti è mancato nulla» (Dt 2,7). Il Signore segue il popolo e non gli fa mancare nulla per il suo sostentamento: gli dona la manna quando ha bisogno di pane, le quaglie quando vuole la carne, l’acqua quando ha sete.

E’, questa, la dimensione materna di Dio: il nutrire, il proteggere durante il cammino, l’assistere il figlio nei suoi bisogni vitali affinché non venga meno per via. E’ infatti compito proprio della madre, la quale dunque non precede il figlio, ma lo segue, gli sta dietro, cammina dietro a lui e gli protegge le spalle, cioè lo custodisce prendendosi cura della sua parte più indifesa, delle sue debolezze, affinché nulla sia trascurato durante la via e le forze del figlio consentano di camminare dietro al padre, le sue debolezze siano ignorate e non prendano il sopravvento.

Ma la madre resta invisibile al figlio, la sua presenza e la sua mano restano nascoste: Israele vede la manna e le quaglie, ma non ha nessun segno visibile di questa presenza di Dio, come invece erano la nube di giorno e la colonna di fuoco di notte: il volto materno di Dio è, cioè, totalmente inaccessibile all’uomo su questa terra, mentre quello paterno è parzialmente visibile (cf anche Es 33,20-23).

Il volto materno di Dio è il non-detto della sua rivelazione all’uomo e ci sarà svelato pienamente solo nel Regno. Mentre dunque la paternità di Dio può avere per il credente una mediazione che la rende visibile, la maternità di Dio no, perché questo vorrebbe dire arrestare il cammino del credente verso il Regno, vorrebbe dire pensare di poter vedere su questa terra il volto di Dio, di possedere Dio, di averlo in mano. Invece no, il Signore resta colui verso il quale camminare e dietro a cui camminare fino alle sue dimore (cf nel NT Gv 14).

Quale è, dunque, il compito del padre? Quello di valorizzare le capacità del figlio, la sua forza, di farlo crescere secondo tutti i suoi doni, guidandolo sulla via di una libertà e maturità sempre più piena: cf 1Cor 3,l; 10,15; 14,20; 2Cor 13,9; Col 1,28.

E il compito della madre? Quello di far vivere il figlio prendendosi cura non tanto della sua forza, ma della sua debolezza, aiutando il figlio ad assumere le proprie debolezze e a vederle non come un limite, ma come una possibilità di relazione con l’altro da sé, e dunque come una privilegiata via di comunione. La madre cammina dietro al figlio affinché questi non cada.

Il padre sprona il figlio a non attardarsi sulle proprie debolezze, a non ripiegarsi su di esse accettando anche la sofferenza di rinunce e separazioni per crescere, per continuare a camminare (e dunque a vivere) e dispiegare in pienezza le proprie forze, le proprie energie vitali e di relazione. La madre vigila che questo processo di crescita non sia troppo veloce e non produca, invece di separazioni e rinunce salutari, strappi e lacerazioni che uccidono il figlio invece di farlo vivere. Cosa dice Ez 34 a proposito del Signore che pasce il suo popolo: «Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita; fascerò quella ferita e curerò quella malata, avrò cura della grassa e della forte; la pascerò con giustizia» (Ez 34,16). E anche Benedetto nella sua regola per i monaci dice dell’abate: «Agisca con misura in tutto, in modo che anche i forti desiderino qualcosa e che i deboli non si scoraggino» (RB 64,19).

Il padre dunque ha cura che la debolezza del figlio non lo blocchi; la madre che il cammino che egli fa non lo schiacci. Il padre insegna a camminare al figlio standogli davanti e il figlio lo vede (seppur in modo parziale, si è detto), come qualcuno diverso da lui e più grande di lui, dal quale imparare. La madre, invece, insegna al figlio a camminare standogli dietro, e il figlio non la vede, ma ne è custodito e protetto; la madre gli cammina dietro come qualcuno che si fa piccolo davanti a lui, che scompare e che lo fa vivere proprio nella misura in cui accetta di camminargli alle spalle, non davanti, non guidandolo, ma seguendolo. La madre ha il compito di insegnare a camminare, a vivere al figlio facendosi piccola davanti a lui, come qualcuno che da lui ascolta e deve imparare, facendo parlare il figlio e facendo sì, dunque, che il figlio si conosca e si abbia in mano sempre di più, che veda uscire da sé una vita che non conosceva grazie all’altro (la madre) che si pone in condizione di bisogno davanti a lui, ma che così facendo continua a generarlo come figlio, proprio nella misura in cui il figlio cresce e diventa sempre più autonomo da lei. Nei confronti del figlio, dunque, il padre appare come maestro, mentre la madre come discepola. Il rischio della relazione è che allora il padre venga come adorato e la madre come disprezzata; ma se questo avviene è da stolti e il figlio forse solo troppo tardi si accorgerà di aver ignorato la grandezza di sua madre proprio in questo suo farsi piccola davanti a lui per farlo continuamente nascere a se stesso (è l’arte della maieutica, della «ostetricia» che già i filosofi della Grecia antica conoscevano), e di aver troppo enfatizzato e ingrandito la figura del padre, misconoscendone i limiti e le debolezze, l’umanità, la creaturalità.

Ma se questo cammino avviene in modo equilibrato e maturo, il figlio piano piano cresce e raggiunge la statura del padre e si trova ad essere suo simile, cioè suo fratello (sta al padre - e non è facile scoprire e accettare questa crescita del figlio e dunque questo suo diminuire davanti a lui, mentre fino a quel momento era grande ai suoi occhi, era «il più grande»). Ma allora il figlio, proprio in proporzione alla sua crescita scopre pian piano la grandezza - prima non conosciuta - della madre, fino a sentirla, come minimo, pari a se stesso, come sorella, ma anche percependo che in lei c’è una capacità di ammaestramento, di insegnamento reale, ma nascosta e che forse ha molto da imparare da lei, ancora; certo in modo diverso da come fino a quel momento è stato, in modo più cosciente e più autonomo. Allora l’uomo maturo imparerà dal suo rapporto con la madre ad accogliere in sé quell’elemento femminile che ha e a farlo crescere secondo la sua personalità e mentre nella prima parte della sua vita gli era sembrato di dover imparare soprattutto dal padre a diventare un uomo, adesso scoprirà che per essere completo ha da imparare molte cose dalla madre, seppur diversamente, per poter abitare in pace con se stesso. E la figura della madre allora cresce ai suoi occhi, gli si pone davanti, come all’inizio era stata per lui quella del padre e diventa la meta del cammino, la pienezza della conoscenza di sé, che incontrerà però solo dopo la morte.

E il padre, nella misura in cui con maturità compie questo cammino, non solo deve accettare di vedere suo figlio pari a lui, ma addirittura di vederlo crescere più di lui, perché mentre fino ad allora come padre lo ha fatto crescere per ciò che aveva di simile a lui, da questo momento lo avrà davanti e lo vedrà crescere (se accetta questa relazione, se accetta la sua diminuzione e il suo morire, se veramente gioisce della vita del figlio) per ciò che di diverso da lui e, dunque, in tale misura, continua a generarlo come figlio solo se accetta di non conoscerlo a fondo, di non possederlo, ma di imparare a scoprirlo continuamente come una novità, se accetta il mistero in lui e dunque se accetta di poter imparare molte cose da lui, mentre fino a quel momento lui stesso era stato il suo maestro. Che un uomo giunga fino a questa maturità della relazione con il figlio è molto raro e anche nei detti dei «Padri del deserto», di un solo «abba» si dice che a un certo punto della relazione con il suo discepolo questo abba gli disse: «Da questo momento tu sarai l’abba, il padre e io discepolo»; e così egli ne fu veramente il padre, generandolo non solo in ciò che di comune aveva con lui, ma anche in ciò che aveva di altro, di diverso, di nuovo rispetto a lui! Questo è anche quanto faceva Giovanni Battista con Gesù. Per una donna l’itinerario sembra essere lo stesso, ma il processo di identificazione deve avvenire non con il padre, ma con la madre.

Il padre, dunque, inizialmente genera il figlio mediante la parola e la madre mediante l’ascolto. In un secondo momento, poi, la madre genera non più attraverso l’ascolto, ma anche attraverso la parola, ma con un insegnamento silenzioso: con la propria stessa vita, con l’esempio, con ciò che essa stessa è, mentre il padre è chiamato a generare non più con la parola, ma neanche attraverso l’ascolto, ma mediante l’accoglienza come viscerale, come materna, del figlio nella sua diversità da lui, nella sua sconosciuta alterità.

Ecco, dunque, che il padre e la madre spirituale abbiano in sé questa diversità e questo diverso potere generante. E un padre è chiamato in certa misura ad essere anche un po’ (non troppo!) madre e una madre anche un po’ (non troppo!) padre.

 

In sintesi…

E’ vero che la Scrittura parla molto di Dio padre e meno di Dio madre (Is 66,12-13;49,15). Tuttavia anche la paternità di Dio è chiamata ad avere viscere di misericordia.

Deut 1,30-33: «Il compito del padre è quello di guidare il figlio, di stargli davanti, di precederlo e aprirli la via in maniera visibile» (nube e colonna di fuoco…).

Deut 2,7: «Ma il Signore segue anche il figlio nel suo viaggio, perché non gli manchi nulla…». La madre cammina dietro il figlio, lo protegge alle spalle, vigila su di lui, si prende cura della sua parte più indifesa, perché le sue debolezze non prendano il sopravvento su di lui. Il volto materno resta invisibile al figlio… quello del padre parzialmente visibile. Il padre ha cura che la debolezza del figlio non lo blocchi, la madre che il cammino non lo schiacci. Una madre che si fa piccola, prima discepola per generarlo, poi sorella, poi maestra sulla via della diversità dal padre… Il padre genera il figlio attraverso la parola, la madre attraverso l’ascolto, l’accoglienza e l’insegnamento silenzioso: un potere generante, diverso e complementare.

  

SUGGERIMENTO BIBLIOGRAFICO

H.J.M. Nouwen, L’abbraccio benedicente, Queriniana, Brescia 1994.

 

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