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n. 12  2008

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La vita religiosa risponde oggi

alla sensibilità dei giovani?

BEPPE ROGGIA

 

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ULISSE E IL FASCINO DELLE SIRENE

Per rispondere alla domanda vorrei iniziare con una parabola. Tutti conosciamo i racconti omerici di Ulisse, il quale, per non cedere al canto delle sirene, si fa legare strettamente all’albero della nave, mentre fa tappare le orecchie dei marinai con la cera.

I Padri della Chiesa erano giunti a fare un commento coraggioso a questo mito di Ulisse. Clemente Alessandrino, per esempio, con una lettura allegorica destinata ad avere molto seguito, considera le sirene, con i loro dolci e fatali incantesimi, come il segno della sapienza di questo mondo. I marinai poi sono coloro che, senza alcuna comprensione per la buona cultura, essendosi tu-rate le orecchie, rifiutano qualsiasi confronto, perché sanno che non troverebbero più la via di casa, una volta che avessero prestato ascolto alla sapienza di questo mondo. Ulisse invece è il cristiano sapiente che sa di dover passare in mezzo alle insidie della cultura del tempo, non però con le orecchie tappate, ma ascoltando e valutando ogni realtà con il giusto discernimento, per trovare nelle cose della cultura quelle che favoriscono la fede. Ma, per fare questo, egli deve legarsi con fortissimi lacci al suo albero, che è l’albero della croce. Legato così al suo legno, sarà immune da qualsiasi inganno. La sapienza di Dio guiderà la sua nave ed il Santo Spirito la farà giungere al porto del cielo.

Anche oggi la vita consacrata, legata tenacemente alla croce e senza vergognarsi del suo scandalo, può affrontare coraggiosamente tutte le difficoltà e le insidie del nostro tempo e superare lo splendido ma fatale pericolo di questo mondo, sicuro di sé ma fragilissimo, e discernere così tra le muse e le sirene, per essere in grado di portare nel cuore delle nostre culture l’annuncio che esiste un porto di pace che dà significato a tutta l’umana navigazione.

Occorre che ci aiutiamo tutti a prendere coscienza che il problema nodale - quello che stentiamo ad accettare fino in fondo - è che ci troviamo davvero in presenza di grandi trasformazioni epocali, il che significa trovarci dinanzi a situazioni che mai si sono presentate fino ad oggi. Anche la vita consacrata, e la formazione in essa, deve accettare di confrontarsi con una strada diversa, poiché oggi sussiste in contesti realmente diversi e deve rispondere a bisogni che forse sono profondamente comuni ad ogni generazione, ma che oggi non sono confrontabili e quindi sono diversi per linguaggi, radici emotive in cui affondano e orizzonti verso cui si proiettano. I dati ci dicono che ogni proposta ed ogni formazione, che alimenta illusioni sulla vita consacrata, non è solo una cattiva educazione, ma produce quel drammatico infantilismo, che tutti abbiamo conosciuto oppure che, magari più avanti negli anni, si trasforma in rifiuto ed abbandono.

Libertà e felicità nel futuro della vita religiosa

Abbiamo certo tanti elementi problematici ma, per fortuna, abbiamo altrettante realtà positive, che sono grandi risorse per il futuro. Il dramma è che alcuni princípi positivi e validi delle culture corrono il rischio di deteriorarsi per il fatto di essere affermati, specie in questi ultimi decenni, in maniera unilaterale. E così ciò che è un valore positivo, che ha contribuito a costruire un modo di vivere altamente civile, rischia di diventare, proprio per la sua assolutizzazione, un elemento di disgregazione della stessa civiltà.

Si pensi solo al principio della libertà, conseguente all’importanza che oggi si dà alla soggettività: assolutizzato e sganciato dal riferimento ad altri princípi (come ad es. quello della solidarietà) rischia di condurre all’atomizzazione del nostro sistema di vita. Una libertà rivendicata come valore assoluto rischia infatti di distruggere quella società che aveva contribuito a costruire. Così può accadere anche nella vita consacrata: alcuni valori evange

lici introdotti in questi anni in forma talvolta unilaterale, senza un adeguato riferimento ad altri valori ugualmente evangelici, possono contribuire ad inne-scare quel terremoto, che sta destabilizzando la vita degli istituti religiosi.

E così dalla giusta e santa ma unilaterale sottolineatura del valore della persona e del rispetto della coscienza si è passati insensibilmente a molte forme di individualismo. Dalla nuova visione dell’autorità come servizio alla comunità, anche come contrapposizione alle varie forme di autoritarismo della società civile, si è passati all’indebolimento dell’autorità stessa e ad una scarsa stima per l’obbedienza. Dalla necessità missionaria di leggere i segni dei tempi, si è passati, quasi inavvertitamente, alla diminuita coscienza della necessità di rispondere con l’ansia del Regno di Dio, limitandosi soprattutto a problemi di efficienza. Dall’apertura alle esigenze della società, per meglio conoscerla e quindi per meglio servirla, si è stati condotti talvolta a subire il fascino di forme poco evangeliche presenti nella società, traducen-dole in stili di vita borghese di stampo consumista. Dalla necessità e urgenza di comprendere i macrofenomeni delle nostre società si è stati insensibilmente distolti dalla più modesta ma non meno essenziale attenzione all’interiorità e ai problemi personali del cammino spirituale, in una parola, all’uomo interiore, al classico habitare secum.

Come conseguenza, l’acquisita sensibilità per il cambiamento della società ha messo in secondo piano la sensibilità verso il cambiare se stessi. E ancora: l’importanza data alla creatività ha messo inevitabilmente in ombra la regolarità, il riferimento alla regola, vista come ripetitività o giudicata insufficiente per affrontare le nuove situazioni.

La felice e feconda riscoperta della Bibbia, come fonte primaria della vita spirituale nella vita consacrata, ha avuto come contraccolpo il pratico abbandono, da parte di molti religiosi, della letteratura spirituale tipica della vita religiosa e del proprio carisma, letteratura che nel passato ha mediato la parola di Dio per questo nostro peculiare genere di vita.

E si potrebbe continuare, mostrando come la vita consacrata, soprattutto in Europa, non sfugge al processo di complessità, tipico della nostra società, ma comincia pure a sentire il bisogno di tendere più consapevolmente ed energicamente ad una sintesi che sia più rispondente alla realtà delle cose. Tanto più che la società europea sta diventando in modo paradossale sempre più complessa ed atomizzata attorno a tante aggregazioni settoriali e a diversi interessi, spesso in difficile comunicazione tra di loro e poco accordabili.

Quali suggerimenti si possono offrire in una situazione di questo genere?

Ormai si avverte indilazionabile la necessità, che emerge ovunque, di fare una sintesi dentro la vita consacrata, una sintesi che riequilibri i diversi valori, perché, da una parte, il novum di questi anni non disperda la saggezza della tradizione e dall’altra, la scusa della tradizione non sia usata come pretesto per uccidere il nuovo e per rimanere bloccati nell’antico. Si tratta, in definitiva, di procedere con il senso sapienziale di tutte le realtà, che interagiscono nel campo vasto e variegato della vita consacrata. È un’operazione evangelica questa, dello scriba saggio, che sa trarre dal suo tesoro le cose nuove e le cose antiche. È un’operazione che richiede molta maturità umana e spirituale, che procede da una visione vasta e complessiva dei molti elementi in gioco e che va condotta assieme al popolo di Dio di tutta la Chiesa.

In questa prospettiva è giunto il momento per la vita consacrata di passare dal fare all’essere, a liberarsi cioè dalle molte opere, per concentrarsi maggiormente sulla vita nello Spirito e lasciare spazio al Signore, perché possa agire lui.

Contrasto tra modelli e dinamiche

Approfondendo ed allargando il discorso, possiamo costatare che fino al Vaticano II, e anche dopo, il modello più forte della vita consacrata era il cosiddetto modello classico, che sottolineava soprattutto gli aspetti disciplinari, l’osservanza regolare, l’uniformità, l’ascesi… Un modello che ha prodotto numerosi frutti di santità e di zelo apostolico ma che, al contempo, ha corso molto il pericolo di formalismo. Poi, quasi in alternativa opposta, ha preso il sopravvento il modello liberale, che ha relativizzato di brutto gli elementi fondamentali del precedente modello, soprattutto la disciplina e l’ascesi, per concentrarsi sulla persona del consacrato/a, sulla sua realizzazione, sui suoi desideri e sui numerosi impegni di efficienza apostolica. Il rischio, più che teorico, è stato l’abbandono o lo svuotamento degli aspetti contemplativi e, di conseguenza, la perdita o lo smarrimento dell’identità religiosa e del senso della consacrazione, ridotto per lo più ai suoi aspetti più funzionali.

Sono questi due modelli, che, pur con gli innegabili apporti utili, ci hanno lasciato alle porte di una crisi profonda, nella quale tuttora siamo immersi e ci dibattiamo. Per fortuna, però, stiamo assistendo anche ad un cambio di model-lo, soprattutto grazie e sotto la spinta dei giovani consacrati. Un modello, in verità, ancora molto incipiente ma che, tuttavia, si potrebbe già chiamare model-lo radicale o di sequela radicale del Signore Gesù; un modello che si collega con la ormai conosciuta categoria della rifondazione. Una radicalità di sequela, che chiede di ripartire da Cristo e dalla centralità di lui nell’esistenza dei consacrati ed insieme rilancia la specificità escatologica della stessa vita consacrata.

Infatti, tutta la radicalità della vita consacrata irradia l’attesa della venuta del Regno in mezzo ad un mondo dimentico del fatto che la morte non ha l’ultima parola e che il Padre sta attendendo tutti, affinché, risuscitati nel Signore, tutti possano vivere per sempre con lui ed in lui. Il più grande servizio che il Signore ci chiede ed il miglior servizio che possiamo rendere agli uomini del nostro tempo è quello di essere testimoni dell’escatologia, della grande Pasqua del Signore. Vivere senza figli, senza cercare di fare carriera e senza denaro in proprio, condividere una comunione di fraternità senza altro legame che quello carismatico, questo non è per condurre un’esistenza cupa e per condannare il vivere comune, ma, al contrario, per illuminare il senso e compiere la vita umana con una forte tensione verso quel Regno, che solo può colmare l’amore umano e che è la sola grande ricchezza intramontabile.

Inoltre bisogna dire che dopo gli entusiasmi del rinnovamento conciliare, a causa delle difficoltà sempre più forti subite dalla vita consacrata (invecchiamento, scarsità vocazionale, emarginazione da parte della società [un po’ anche dalla Chiesa] abbandoni e fragilità vocazionale, secolarizzazione di vita, gestione sempre più difficile delle opere….) le tre dinamiche, sognate e programmate dai documenti della Chiesa e degli Istituti come una perfetta sintonia di coinvolgimento e di rinnovamento della vita consacrata, in realtà, dopo 40 anni, costatiamo che girano a velocità contrastata e contrastantesi a vicenda.

L’istituzione si è sempre più centralizzata e sovraccaricata di impegni per far fronte alle difficoltà sempre più grandi e spesso si è trasformata in istituzionalismo a scapito delle persone. D’altra parte, dopo il crollo dei grandi sistemi (al valico degli anni ‘80 /’90) tutte le istituzioni sono andate in crisi. Le strutture troppo sovente diventano un problema per la realizzazione della missione.

La persona, sia per contrastare le ideologie totalitarie, sia per liberarsi dall’omogeneizzazione e dall’anonimato della società dei consumi, sia per salvarsi dalle pressioni dell’istituzionalismo (presente anche nella Chiesa e nella vita consacrata) rivendica con forza un forte soggettivismo, che arriva fino alla gestione privata della vocazione e del carisma. In particolare si è surriscaldato o, se vogliamo, raffreddato il rapporto tra istituzione e persona. Prendiamo per esempio il problema del rapporto fra le esigenze del ruolo e la vita/crescita personale nella maturità (umana, di fede, carismatica, apostolica…), il rapporto tra la personalità e la professionalità, che il ruolo comporta. In passato c’era una specie di natural fitness (armonia naturale) dello status del prete in parrocchia o del frate, religioso, religiosa in genere.

Oggi siamo alla crisi del rapporto. Abbiamo una specie di ponte spezzato tra le esigenze della persona, le sue domande di vita, di esistenza e le esigenze, le risposte dell’istituzione. Pensiamo al superlavoro, ai problemi, alle richieste più grosse di quelle che si è in grado di affrontare (se ti adatti, sei bravo; se contesti o non ce la fai, sei inadeguato…); pensiamo alle aspettative eccessive e persistenti, che via via massacrano fisicamente e psicologicamente; pensiamo al fatto che troppo sovente si è impossibilitati e non abilitati a conciliare l’ideale (= entusiasmo vocazionale, motivazioni di dedizione…) con la situazione reale.

La conseguenza è che subentra la sfiducia nell’istituzione (la denuncia che non sa rinnovarsi; che pretende cose impossibili; che considera le persone solo una forza lavoro…) e ci si rifugia nel privato con varie forme di sindrome di burnout (= sentirsi fusi): depressione, ambiguità di identità per angoscia e senso di fallimento; cose che normalmente vanno a parare in varie fughe: alcool, sesso, ricerca di successo ed interessi personali extra. Da

contemplativi nell’azione a bruciati dall’azione con tutta l’energia spesa solo nel fare. Tutto questo per di più è aggravato dalla situazione delle comunità, in cui la relazione fra le generazioni vive un momento discretamente difficile. Riassumendo, potremmo racchiudere tutto nella parola mentalità.

Il carisma, dopo il tornado conciliare degli anni ‘60; il ritorno entusiasta alle sorgenti del Vangelo e del fondatore degli anni ‘70; la raccolta dei frutti con le nuove Costituzioni negli anni ‘80; si è trovato negli anni ‘90 a far fronte al rinnovamento incompiuto e sospeso (tuttora perdurante) e così ri-mane come un capolavoro sospeso a mezz’aria, e perciò non è diventato vita rinnovata. La difficoltà a tradurre in concreto le grandi linee conciliari, mantenendo lo status quo, sta tranciando le radici vive del carisma ridotto per lo più a standart per non dire fossile.

IL DISAGIO COME OPPORTUNITÀ

Stiamo, dunque, vivendo nel disagio di questo postmoderno, in cui, non purtroppo, ma per grazia di Dio, siamo chiamati ad esistere. E che cosa sia disagio nelle nostre comunità, oltre il già detto, si può rilevare dai seguenti sintomi:

a. normalmente ci sono difficoltà a trovare persone che siano disponibili per ruoli di autorità;

b. c’è un diffuso individualismo comunitario non solo come fenomeno ma addirittura come atteggiamento esigito;

c. molti consacrati/e fuggono nel loro ruolo, assolutizzando i loro compiti apostolici e professionali o si buttano a cercare un accumulo di specializzazioni;

d. c’è una diffusa ricerca di spiritualità extra il proprio carisma;

e. predomina come clima generale una visione negativa sul mondo contemporaneo; (diversità tra visione negativa come documentazione dei fatti e come sensazione generale)

f. sono accresciute le lacerazioni interne alla comunità fra generazioni, fra i diversi ruoli e fra le culture.

Di fronte a questa sintomologia, che respiriamo a pieni polmoni, è scat-tata una serie di percorsi devianti:

1. la negazione o la rimozione dei problemi. Al massimo il lamento come sfogo o il buttarsi nel lavoro/compensazioni per non guardare in faccia la realtà;

2. tentare di risolvere i problemi rimuovendone i sintomi (es. non ci sono vocazioni. Andiamo a prenderle nel 3° mondo; non funziona più un’opera apostolica: ne facciamo un albergo…);

3. cercare dei colpevoli: i superiori, gli anziani, i giovani, la mezza età, la diocesi e la parrocchia, lo Stato, le famiglie, le culture diverse…

Tutto questo è una specie di cortocircuito, che ha alla base la sensazione che gli altri rappresentano un pericolo; e il voler uscire in fretta e furia dal disagio, che stiamo vivendo.

Mentre la strategia giusta è tutta da un’altra parte. I momenti di crisi contengono grandi opportunità, come ci dimostra la storia. Il salmo 48 recita: <<L’uomo nella prosperità non comprende, è come gli animali che periscono...>>. Ci vuole il coraggio del cambiamento, valutando bene il presente. Anche i fenomeni che vi ho snocciolato possono essere visti in modo sbagliato: o solo come un punto di arrivo di un glorioso passato, ricco di soddisfazioni carismatiche e pastorali, che, volere o no, sta andando in bancarotta; oppure come un futuro, che pretende di cominciare da zero, come se non avessimo addosso i cromosomi di un carisma che ha già tutta una storia. Invece c’è un presente che deve andare all’essenziale e al genuino del passato, da cui partire per il futuro, anche se rimane pieno di incognite e di incertezze.

Questo allora è possibile solo se l’Istituto si mette tutto in stato di formazione (basta con la formazione riservata ai giovani) e con la ristrutturazione generale delle comunità e delle cosiddette opere. Attenzione però: formazione e ristrutturazione devono procedere insieme. Una formazione senza contemporanea ristrutturazione delude e viene abbandonata in fretta, perché la si vede inutile ed accademica, non ha un risvolto pratico dove attivarsi. Una ristrutturazione senza contemporanea formazione si riduce a far crescere il disagio ed il malcontento: si chiudono opere, si resiste, si lotta fra partiti opposti all’interno dello stesso Istituto...

Le provocazioni e il cambiamento vanno ad ancorare sostanzialmente due ambiti, che, per primi, devono muoversi.

L’identità personale e il gruppo carismatico

Dall’Ottocento ad oggi la vita consacrata si è definita per lo più per il tipo di opere che portava avanti (nel campo educativo, ospedaliero, della carità nella prima accoglienza….). Oggi quel sistema di opere sta crollando per chiusura, riduzione, cambio di destinazione di uso, reimpostazione di presenza… Allora la posta in gioco è se dobbiamo davvero identificarci con questi apostolati o c’è qualcosa di più profondo a cui ancorarsi. In fin dei conti una delle più grandi ragioni di contrasto ed incomprensione nella vita comunitaria è qui. Dobbiamo preoccuparci soprattutto di rispondere alle sfide di oggi con un impegno sempre più forte ed esigente sul piano dell’efficienza, per quanto è possibile stare dietro alla corsa travolgente della nostra epoca, oppure cercare di posizionarci sul piano della sapienza?

Se noi guardiamo alla storia della Chiesa e della stessa vita consacrata, ci accorgiamo che nei momenti più difficili si è riusciti ad andare oltre e a rinascere rinnovati, perché, invece di correre all’impazzata a tappare buchi e falle del momento storico e culturale, ci si è dati da fare per cercare dei punti fermi, ciò che è stabile, per superare le logiche del proprio tempo, andando sempre più in profondità. È quello che intendiamo fare anche con questi incontri. Insomma, tutto si riassume nel dilemma: essere religiosi per… fare questo, quest’altro, o esclusivamente a causa di Gesù Cristo? Oggi deve emergere fortemente che nella vita consacrata si entra e si rimane per essere la memoria vivente del modo di vivere e di esistere di Gesù di fronte al Padre e ai fratelli (VC 22 ), non tanto e/o solo per fare delle cose, fossero pure importanti opere apostoliche. Ci si deve cioè preoccupare essenzialmente delle persone consacrate e della loro qualità di vita, prima che del mandare avanti le cosiddette opere. E questo, come dice il documento Ripartire da Cristo al n. 20, richiede che si dia il primato alla vita spirituale e si rinsaldino le radici della spiritualità carismatica, in modo da poter esprimere la vera sapienza, essere cioè adulti nella fede, attraverso questa via evangelica, con discernimento storico sull’oggi.

Comunità di rapporti autentici

Dobbiamo dire subito che è importante smontare il sistema, con cui abbiamo per lo più motivato e costruito la vita di comunità. A parte che sul piano della spiritualità noi adulti ed anziani siamo stati formati ad una spiritualità molto individuale, che soprattutto dalla devotio moderna ad oggi è stata la linea vincente, con una gelosa tendenza a tenere per noi le esperienze ed i cammini spirituali di vita. Oggi la Chiesa ci chiede la capacità di una comunione spirituale fraterna, che - bisogna ammetterlo - è per lo più inedita. Fino ad oggi troppo sovente la comunità è stata sentita o come luogo dell’apostolato (dove s’identifica l’opera con la comunità) oppure solo come strumento di apostolato.

Tutto questo naturalmente è servito a creare il punto più debole di ogni comunità consacrata oggi, da cui deriva poi la maggior parte delle crisi e cioè il tipo di rapporti interpersonali che vige, troppo sovente molto formali per non dire inesistenti, con un parallelismo marcato fra le generazioni. Ci viene chiesto d’impostare in comunità rapporti umani veri, in cui possa scorrere e circolare bene il comandamento dell'amore reciproco. E questo perché la comunità consacrata non sia o resti una comunità chiusa, ma diventi una comunità aperta dentro la storia e la nostra casa sia la casa di tutti, aperta ai quattro venti. Una diaconia di servizio nata e fondata sulla koinonia, senza cui non ci può essere una vera diaconia. Ma per questo occorre che la comunità ritorni ad essere, come diceva già Benedetto ai suoi tempi, <<scuola del divino servizio>>.

Ci chiediamo come è possibile tradurre tutto questo in stile comunitario. Indico due percorsi:

1. la vita concreta comunitaria, tempi, incontri… deve essere impostata in modo tale che chi la sceglie sa che non è per una ragione di maggior efficienza apostolica o per assicurare dei servizi logistici per la persona (come sarebbe un pensionato o un albergo), ma per un’autentica testimonianza vocazionale;

2. occorre rifare i patti tra i fratelli/sorelle della comunità, dandosi una regola condivisa da tutti, per assimilare ciò che si è maturato in questi 40 anni. Su quale base? L’amore per Cristo ed il suo Vangelo; l’aver colto l’essenza del carisma; il saper discernere i segni dei tempi. Insomma una comunità di persone che sentono di aver ricevuto un mandato chiaro – ci credono - lo vogliono portare avanti insieme.

Di qui un derivato, frutto dei due punti precedenti: la missione più importante della vita consacrata è quella di condurre alla maturità della fede gli altri membri del popolo di Dio. Occorre rimettere il Cristo al centro, perché la vita consacrata è troppo dispersa in tante cose, dimenticando o trascurando l’essenziale.

LE NUOVE REALTÀ DELLA VITA CONSACRATA

Interessante, anche se drammatica e discutibile, è la riflessione che José Maria Vigil, clarettiano, ha scritto su Adista (14 maggio 2005). Egli sostiene che la vita consacrata europea è al collasso di una crisi irreversibile e non basta una rifondazione per risolvere od ovviare alla situazione. Oltre al fatto delle vocazioni scarsissime, la vita consacrata è praticamente scomparsa dal suo ruolo di protagonista vigorosa e rilevante nella società e nella Chiesa. Egli denuncia il suo stato di cattività istituzionale che la rende priva di libertà profetica. Per cui, quella che stiamo vivendo, non sarebbe più l’ora della profezia ma della cultura e della semplice professionalità; non l’ora dell’esodo ma dell’esilio; non l’ora della rivoluzione ma delle piccole riforme. Questo proprio perché si è ridotti ad un collettivo marginale strutturato da una gigantesca indifferenza all’esterno e da una grande apatia all’interno. E conclude che non resterebbe altro che salvare il salvabile e abbandonare il resto.

Si tratta, a mio parere, di una veduta aerea, che non coglie il sottobosco e i particolari della vita, che pur tuttavia si muove in dimensione micro. Certo, la situazione è preoccupante, ma… Se camminiamo con i piedi per terra, lasciando la veduta aerea, ci accorgiamo che la vita consacrata esiste e si sta muovendo anche un’altra realtà.

Infatti, in questi 40 anni, dal Concilio ad oggi, sono nate nuove piante di vita consacrata. Sono soprattutto di forma monastica, però rinnovata e desiderosa di coniugare insieme i valori tradizionali e le prospettive del Vaticano II con gli stimoli culturali del post-sessantotto e del cambio culturale in pieno svolgimento. Ricordiamo solo le più famose: Bose; Piccola Famiglia dell’Annunziata di Dossetti in Emilia Romagna; Comunità dei Figli di Dio di Barsotti in Toscana. Le caratteristiche principali di queste <<piante>>:

a  forte dinamica spirituale che gira attorno alla centralità della Parola di Dio;

a  forte componente fraterna (comunità miste - condivisione con laici, soprattutto famiglie), senza sottolineature clericali ma piuttosto laicali, centrata sulla valorizzazione della consacrazione battesimale comune e con una grande sensibilità ecclesiale locale e sul territorio;

a  spiccata missione al servizio della maturazione nella fede verso tutte le componenti del popolo di Dio (accoglienza, lectio, condivisione di vita …).

In Italia queste forme nuove si aggirano su una tipologia simile per un totale di almeno una trentina. Non parliamo degli altri continenti, soprattutto dell’America Latina, in cui questo pullulare nuovo è ormai traboccante (es. in Brasile più di 180 forme nuove di vita consacrata inserite in movimenti carismatici…).

Ma non ci sono solo piante nuove. Abbiamo anche un certo numero di germogli spuntati sul tronco vecchio delle antiche fondazioni e carismi. Credo che la maggioranza degli Istituti potrebbe testimoniare qualche piccolo germoglio di questo genere, anche nella maggior parte dei casi tollerati, per non dire contestati. Certo, non integrati, anzi piuttosto marginali rispetto all’insieme dell’Istituto classico di riferimento. Una sorta di piccoli fuochi sparsi. Tuttavia, al di là della tolleranza/accettazione, la cosa interessante è che questi germogli nuovi hanno le stesse o la maggior parte delle caratteristiche delle comunità nuove di cui dicevamo, ossia: - centralità preponderante della parola di Dio; - fraternità particolarmente sottolineata. Se, magari, non sono comunità miste, tuttavia sono comunità realmente condivise con laici e famiglie, per partecipare insieme ad esperienze carismatiche molto strette; - presenza significativa sul territorio e nella realtà ecclesiale locale, non tanto vista come produzione dei classici servizi della carità, quanto piuttosto di accoglienza ed attenzione alle nuove povertà; - recupero delle sorgenti e della freschezza carismatica a servizio della maturazione della fede del popolo di Dio (accoglienza, lectio divina, condivisone di vita e di cammino di fede…).

Sarebbe interessante passarle in rassegna. Sia alle nuove piante che ai nuovi germogli c’è da guardare con molta attenzione ed apertura, anche se non bisogna peccare di ingenuità. Ciò che è molto interessante è che gli elementi e le caratteristiche tornano quasi dappertutto. Ci sono fra loro anche molti problemi. Qualcuna di queste farà semplicemente un’exploit e poi morirà. Altre, credo, segneranno il futuro.

Tre sfide

Oggi nella vita consacrata abbiamo soprattutto una crisi d’identità e, di conseguenza, di visibilità e, di conseguenza ancora, di credibilità.

Il rilancio della santità come fine e preoccupazione fondamentale della vita consacrata diventa urgente e fondamentale. Nel passato la vita consacrata si fregiava della santità come di un suo privilegio, rispetto al resto del popolo di Dio. Ricordiamo la famosa distinzione plurisecolare della via dei comandamenti aperta a tutti e la via dei consigli aperta solo ad alcuni privilegiati del club elitario della vita consacrata. Oggi, grazie anche all’impostazione teologica ed ecclesiologica del Vaticano II, questa visuale è stata fatta bellamente saltare.

La santità non è più monopolio di un gruppo particolare di credenti, ma è chiamata e dovere di tutti. Il rischio però per la vita consacrata è stato ed è quello di demordere dall’impegno primario e fondamentale della santità e di concentrarsi invece su altre dinamiche immediatamente più produttive, come l’attivismo secolarizzato, riducendosi a produrre dei servizi magari benemeriti ma essenzialmente funzionali. Oppure, ci si esprime nello spiritualismo disincarnato, visto che oggi, come moda e come rifugio c’è tutto un rilancio di esperienze di tipo mistico molto emozionali, come cura, guarigione dei travagli interiori dell’uomo contemporaneo, in concorrenza con le fughe a Oriente o il dilagare delle sette e della New Age, senza compromettere sul serio le persone nei cammini di fede e nella conversione della vita.

Ancora, si cerca una propria identità nel perseguire un ruolo professionale stimato e considerato a livello di società e si presenta così il proprio biglietto da visita: prima professore, parroco, sindacalista, infermiere, psicologo, giornalista, promotore sociale; poi consacrato, suora, prete. Tutto questo intacca fortemente l’identità della vita consacrata sia a livello delle singole persone che a quello di gruppo carismatico, di istituto. Non si capisce più chi si è veramente, dal momento che si vive sbilanciati sia nel proprio progetto personale di vita sia nelle proposte stesse di vita comunitaria e di congregazione. Dio diventa un pretesto non la causa delle proprie scelte e la vita consacrata non è più esistenza concentrata su Dio, ma un usare i suoi percorsi per altre finalità simili e parallele a quelle della società.

Nel Medioevo e nell’età moderna c’era il fenomeno raccapricciante della vita consacrata secolarizzata per costrizione indotta (= persone obbligate alla vita consacrata per salvaguardare la solidità e la compattezza del patrimonio familiare a tutto vantaggio del primogenito). Oggi abbiamo fenomeni preoccupanti di vita consacrata secolarizzata a causa di servizi utili alla società e per ricavarne l’immagine di sentirsi accettati, stimati e valorizzati da essa. Naturalmente da questa crisi d’identità deriva la crisi di visibilità (mettiamo in vetrina una schizofrenia di vita: affermiamo cioè una vita pienamente consacrata, insieme con ritmi, mentalità e scelte quotidiane praticamente sulla linea dell’andazzo e degli stili di vita della società). Scatta allora l’altra grave crisi sia per noi stessi sia per chi ci vede e ci vive a fianco: non siamo più credibili a noi stessi e tanto meno per gli altri (credenti e non), che ci considerano moneta falsa e gente inutile o semplicemente apprezzano il servizio che facciamo, ne usufruiscono molto ma poi, per trovare e avere un senso alla loro vita, se ne vanno altrove. In tutto questo l’unica alternativa è tornare al nodo fondamentale, cioè a prendere sul serio la vita consacrata, andando all’essenziale, perché solo qui si giocano l’identità, la visibilità e la credibilità e si diventa quel sale e quel lievito che Dio e la Chiesa si aspettano da essa.

In linea con questo c’è tutto il discorso della riscoperta del carisma. La domanda è: tornare alle origini e/o aprire nuove frontiere? Cosa significa tornare alle origini? Un ritornare semplice, oppure una riforma, che comporti di aggiornare ed inculturare lo spirito e le intuizioni delle origini, dando così una forma rinnovata al carisma?

Ogni esperienza fondativa è una parola di Dio infuocata, che scende e nasce sulla terra attraverso 4 elementi (4 pro):

a  provocazione contestuale, che sfida il Fondatore Santo e lo fa reagire e convertire al progetto del Signore su di lui;

a progetto evangelico. La reazione provocata dallo Spirito spinge a vivere qui e ora il Vangelo con una particolare sfaccettatura: siamo alla nascita del carisma vero e proprio;

a  processo attuativo: sono i diversi passi concreti ed ufficiali, che fanno prendere forma al progetto, che comportano più di qualche volta delle vere fatiche da Ercole;

a prodotto definitivo: è l’immagine concreta del carisma nello srotolarsi del tempo, attraverso l’istituzione, le varie persone, gli adattamenti...

Rinnovare i carismi. È dunque possibile e come? Ogni carisma, dono dello Spirito, contiene un insieme di elementi fondamentali, che sono immutabili nello scorrere dei tempi e nella varietà delle culture. Questi elementi fondamentali immutabili sono posti nel contenitore mutevole legato al tempo ed alle culture stesse. La prima dimensione importante è allora la capacità di discernimento, per riuscire a cogliere gli elementi essenziali e perenni del carisma rispetto a quelli transeunti. Dunque il contenuto fondamentale e il contenuto mutevole della cultura del tempo. La seconda dimensione è vedere i diversi contenitori, che si sono succeduti lungo le epoche, controllando sempre che gli elementi essenziali siano stati salvaguardati. La terza è lasciarsi provocare dall’oggi sociale, culturale ed ecclesiale, per formare il nuovo contenitore dei valori perenni. In base a questi elementi ricostruire il nuovo contenitore di oggi, soprattutto nella direzione della spiritualità, della relazione fraterna e della missione.

CONSAPEVOLEZZE, SPERANZE, INTERROGATIVI

Siamo al punto dei giovani. Partiamo da una prima costatazione: in questi 50 anni in ambito ecclesiale sono sorte nuove proposte per vivere il Vangelo nella vita reale contemporanea, nonostante le tante comunità spente che ci sono in giro. Nella vita consacrata, ricca di principi di storia millenaria a livello di santi, c’è stata, a livello teorico, un impegno straordinario nel ritrovare le radici carismatiche e nel riaggiornare le Costituzioni ma, insieme, una notevole povertà di prospettive circa il futuro, per il sogno chime-rico di un ritorno veloce della prosperità di un tempo - cosa che non ritornerà più -; per il freno di tanta inerzia ricondotta a sistema e per il peso di strutture diventate ingombranti ed intralcianti il vivere veramente in modo evangelico la spiritualità, la fraternità e la missione. Si pensi solo un momento a ciò che è capitato dalla rivoluzione francese fino ad oggi: la vita consacrata ridotta a lumicino; rinata nell’Ottocento con una prosperità ineguagliata nella storia e buttata principalmente nelle opere di carità; soffocata oggi proprio da queste stesse opere di carità attraverso lo Stato (la normativa costringente); la Chiesa che ha spostato il monopolio delle opere di carità dai consacrati a tutto il popolo di Dio; ed i giovani stessi (la loro interpellanza = essere consacrati per gestire opere oppure per essere profeti?).

Di fronte a tutto questo i giovani consacrati sentono la vita come una presenza di minoranza nella società e nella Chiesa o solo più un residuo? Si può parlare di minoranza quando c’è un rapporto proporzionato: es.: 3/10; ma se il rapporto è 3/100 si deve parlare piuttosto di residuità. Oggi molti giovani consacrati e consacrate si sentono piuttosto residuità di un qualcosa che ai loro occhi non sembra avere più molto futuro. Sentono l’attualità dei valori della vita consacrata, in particolare dei consigli evangelici, ma costatano l’incapacità ad esprimerli secondo categorie e modalità convincenti per l’oggi.

Certo, dalla crisi si può uscire solo guardando in avanti. Nello stesso tempo è fondamentale essere fedeli ai grandi valori fondanti e caratteristici della vita consacrata ma con modalità nuove. Ad es.: - una comunità evangelica con rapporti realmente di tipo familiare, che annuncia un nuovo tipo di società fraterna ed ugualitaria, che accentua la comunione prima e al di sopra della comunità giuridica; - una comunità che dà la preferenza ai cammini di fede piuttosto che alla “routine” dell’osservanza. Oggi non ci sono più tante contestazioni forti e rigidità frontali come nel ’68, ma forse perché non ci sono più ragioni chiare e definite che si confrontano; troppe volte rimane solo una nebulosa di sentimenti e risentimenti mentre non si tiene sufficientemente conto dell’esigenza di una vita felice e realizzata dal punto di vista umano, per essere pienamente uomo/donna anche nella vita consacrata.

Anche lo stesso servizio apostolico, più che preoccuparsi esclusivamente di conservare la religiosità, deve investire invece sul piano dell’annuncio dell’evangelizzazione. Molte delle nostre attività andavano bene quando la gente mancava di beni primari di cui vivere (mancanza delle condizioni base di sussistenza, salute, educazione); oggi la gente, e in particolare i giovani sono carenti del senso e del perché vivere. Oggi siamo richiesti soprattutto di essere fermento negli spazi del dinamismo ecclesiale, in esperienze che comprendono attività apostoliche di stretto intreccio tra ecclesiologia e vita consacrata. Ciò richiede attività apostoliche portate avanti insieme in maniera complementare tra istituti diversi in stretta sinergia con la pastorale diocesana. Che cos’è mancato e cosa manca oggi per tradurre in mandato la sfida attuale? È mancato finora soprattutto il fidarsi di provare qualche esperienza nuova, che sia il tentativo di ritradurre la grazia del carisma nel rinnovamento delle esigenze nuove. Tante volte si vede chiaro che bisognerebbe fare così, ma continuiamo a rimandare la realizzazione di queste esperienze, in attesa di tempi più maturi, che di fatto ci fanno perdere l’oggi di tante occasioni favorevoli.

- E la tanto celebrata tradizione? - È vero: la tradizione è quella che ha portato il carisma a portata della nostra vita. Tuttavia quante aggiunte sono state appiccicate.

TESTIMONI DI SPERANZA: A QUALI CONDIZIONI?

La Chiesa ci sta chiedendo di permettere alla perfecta caritas di Cristo di sbrigliarsi nella fantasia della carità; non rimane altro allora che dare spazio al fremito dello Spirito, che già respira e soffia in noi e che vuole tradursi in vita concreta. Questo fremito deve diventare gaudio ed esultanza di liberazione e di vita nuova. Ma come? ci chiediamo. A quali condizioni? Ci sembra importante allora individuare la strada da percorrere, soprattutto in tre direzioni.

Dal rinnovamento esteriore al rinnovamento interiore

Negli ultimi quarant’anni abbiamo fatto molte letture sociologiche, psicologiche, pedagogiche, con vari agganci teologici e filosofici del cammino compiuto dalla vita consacrata. In verità, bisogna ammetterlo, si è fatta poca lettura sapienziale, che è il cercare la parola che Dio ha da dirci per questo momento ed attraverso questi frangenti. Abbiamo lavorato molto sull’aggiornamento; abbandonato e abbandonando tante posizioni, ci siamo lanciati nella ristrutturazione delle opere, nel riqualificare il personale, versando un enorme dispendio di energie, ma avvertiamo che la risposta vera si pone ad un altro livello: bisogna andare più in profondità.

Oggi manca una sufficiente esperienza di Dio, che sostenga i diversi progetti i quali sono riempiti dalle nostre organizzazioni e dalle nostre mire di efficienza, con cui qualche volta tentiamo addirittura di programmare Dio: da quello personale a quello comunitario, da quello formativo a quello pastorale e di istituto.

Dal <<monopolio>> vocazionale alla comunione fra gli stati di vita

In questi anni in cui i paesi dell’Unione Europea vogliono rilanciare il processo della Costituzione e gli Italiani vogliono concentrarsi sul valore della Costituzione repubblicana, per ripensarsi, senza polemiche inutili e perniciose a partire degli elementi fondanti, al fine di dare un nuovo ordine all’interagire di tradizioni e di idee e creare un’armonia delle differenze; in questi stessi anni l’esigenza della profezia di comunione, lungo i tracciati della ecclesiologia del Vaticano II, si fa particolarmente sentire.

Una comunione che, da una parte, esprima con chiarezza l’identità di ogni membro, di ogni stato di vita, di ogni chiesa; dall’altra metta bene in evidenza che occorre lasciarsi creare dallo Spirito in questa armonia delle differenze. Ognuno si sentirà uno strumento nelle mani del suo Signore e si libererà dalla presunzione di potere e dovere realizzare da solo il necessario miglioramento del mondo. Quando le cose stanno così, prenderà il sopravvento allora e diventerà protagonista quella perfecta caritas del Signore, che sarà il motore di tutto: <<L’amore di Cristo ci spinge>> (2Cor 5,14). Una perfecta caritas, che, proprio col suo protagonismo, non appiattirà ed uniformerà i carismi di ogni stato di vita, ma ne esalterà le diversità nell’arcobaleno della comunione. Renderà i laici interpreti del Signore risorto in tutte le realtà secolari, con una particolare accentuazione della ricchezza e fecondità dell’amore matrimoniale e della famiglia. Darà ai ministri ordinati la stessa ansia apostolica e il fuoco della carità pastorale del cuore di Cristo, che insegue senza posa la pecorella smarrita, cioè l’umanità sofferente e perduta, per dire a tutti che Dio, col cuore squarciato in croce, è amore e vuole la salvezza del mondo intero. Infine, chiamerà i consacrati ad esprimere nella loro esistenza la sponsalità della Chiesa, tutta attratta ed intenta al Signore Gesù, in modo da essere segni e memoria vivente del suo stile di vivere e di esistere (GS 22).

Dall’informazione/istruzione alla formazione continua

Il volto autentico della persona nella struttura della sua concreta esistenza trova il fattore ultimo portante nell’iniziativa dello spirito: conoscenza, libertà e azione. È espressione creatrice, perché lo spirito trascendente entra nell’essere della natura e le dà forma, la quale non può essere altra che la forma vivente del Cristo, perché siamo creati a sua immagine e somiglianza. La forma autentica si inserisce in questa dinamica fondamentale. Queste brevi riflessioni di R. Guardini ci introducono alle considerazioni di questo ultimo punto.

Poiché le energie dell’amore sorgivo umano (eros) non si possono mai separare dall’amore discendente dall’alto (agape), è urgente educare e formare a far incontrare, dialogare e maturare vicendevolmente i due amori, in modo tale che la persona diventi sorgente dalla quale sgorgano fiumi di acqua viva (cf Gv 7,37s.). Una formazione, quindi, che deve tradursi in apporti armonici di conoscenza, appello alla libertà, itinerario progressivo di maturazione e di crescita nell’azione, perché questa saldatura tra la ricchezza limitata e fragile della persona e delle sue energie affettive e la grazia di questa perfecta caritas, mossa dallo Spirito Santo, può produrre davvero la forma vivente di ogni persona, all’interno della sua vocazione, di ogni consacrato in particolare, nel suo specifico carisma. Ma occorre un passaggio urgente: in questi anni nella formazione hanno preso il sopravvento alcuni progetti per lo più statici e alcune metodologie, che, troppo spesso, al di là delle dichiarazioni teoriche sulla personalizzazione, hanno piuttosto favorito una plasma-tura esteriore piuttosto che provocare la dinamizzazione della persona dall’interno verso questa forma vivente di vita.

Molta formazione, infatti, ha dato eccessivo spazio alle conoscenze intellettuali programmate e teoriche più che alle dinamiche interiori di crescita. Abbiamo, di conseguenza, tanta formazione da manuale e poca alla scuola dei grandi maestri di vita. Occorre perciò una vera rivoluzione formativa, che non solo si accontenti di far percorrere i sentieri indicati dalle Ratio, ma abiliti veramente a discernere in sé quella perfecta caritas di cui dicevamo, che abiliti cioé ad accoglierla in libertà e disponibilità e a lavorare alla sua saldatura con la propria ricchezza personale e con la propria storia, perché si traduca in prassi quanto è indicato dal documento Perfectae caritatis: <<Il rinnovamento degli Istituti dipende in massima parte dalla formazione dei membri […]. Per tutta la vita poi i membri si adoperino a perfezionare diligentemente questa cultura spirituale, dottrinale e tecnica>> (n. 18).

Quando un religioso/a viene chiamato/a dai fratelli/sorelle a presiedere, coordinare, aiutare la vita del gruppo carismatico, si trova a dover rappresentare e mediare la ricerca della fedeltà allo Spirito Santo, autore di quel carisma. La sua è un’autorità obbediente. Il/la superiore/a è servitore del bene comune, del bene della persona. Dopo tutto quello che abbiamo visto, quasi a sintesi dell’insieme, dovremmo dire che il/la superiore/a esplica: - il servizio della luce: ricordando a tutti le finalità ed i valori del progetto evangelico comune, attraverso una “scuola costante ed attualizzata della Regola”, per recuperare il patrimonio comune di spiritualità carismatica; - il servizio dell’incontro: gestendo le strutture, in modo tale che favoriscano l’unità del gruppo con l’animazione e le decisioni opportune, mettendo la comunità in stato di conversione continua; - il servizio della missione: aiutando tutta la comunità a dare valore missionario e di testimonianza al Vangelo, suddividendo opportunamente i servizi; mantenendo i rapporti, armonizzando le diversità, interrogandosi su che cosa vuole veramente Dio oggi.

CONCLUSIONE

Se la nostra identità è tutta nascosta e contenuta nel servizio di Cristo, che lava i piedi, la nostra riflessione si è limitata al nucleo più significativo di questo servizio, cioè la sua perfecta caritas. Un nucleo ancora da riscoprire e da rilanciare con rinnovato impegno, nonostante i 40 anni che ci separano dal Concilio.

L’avvenimento dell’intero Concilio è stato un vero momento di grazia, un’esperienza di Pentecoste, una visita dello Spirito alla sua Chiesa. La nostra ricerca ed i nostri impegni devono puntare con tutte le forze a farci camminare verso quei traguardi aperti e verso quei grandi orizzonti, che appaiono ancora incompiuti nella fatica del nostro rinnovamento.

 

Riferimento bibliografico

H. U. VON BALTHASAR, <<Il grande respiro della “Lumen Gentium”>>, in AA.VV., La Chiesa del Concilio, Istra, Milano 1985. BENEDETTO XVI, <<Discorso alla Curia Romana>>, in L’Osservatore Romano, 23 dicembre 2005. BENEDETTO XVI, Deus caritas est, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2006. BENEDETTO XVI, <<Discorso ai Superiori e alle Superiore Generali>>, in L’Osservatore Romano, 22-23 maggio 2006.

R. GUARDINI, <<Fondazione della teoria pedagogica>>, in C. FEDELI (a cura di), Persona e Libertà - Saggi di fondazione della teoria pedagogica, La Scuola, Brescia 1987.

K. RAHNER, Discepoli di Cristo, Paoline, Roma 1968. S. XERES, La Chiesa, corpo inquieto - Duemila anni di storia sotto il segno della riforma, Àncora, Milano 2006.

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Modificato domenica 16 marzo 2014
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