n. 1 gennaio 2001

 

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Insieme per… la grazia dell’apostolato
Le sette arcate dello stare insieme

di Grazia Le Mura
 

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Lo stare insieme per è un edificio che, come tutti gli edifici, richiede una costruzione lenta e progressiva. Richiede un cantiere di lavoro.

Per prima cosa è necessario individuare il terreno su cui edificare la costruzione dello stare insieme per. Il terreno, per questa speciale costruzione che coinvolge ogni interessato in prima persona e in modo totale, è dato dalla somma degli «appezzamenti di terra» che ognuno è e che ognuno porta con sé. Si costruisce, infatti, su ciò che siamo individualmente (come persone) e comunitariamente (come famiglia religiosa).

Oltre al terreno occorre, prima di iniziare materialmente l’edificazione, un buon ingegnere per dirigere i lavori e un bravo architetto per progettare l’uso degli spazi. Dio Padre è l’ingegnere di ogni stare insieme: da lui deriva il senso dello stare insieme, con lui si costruisce lo stare insieme, per lui si sta insieme. Il Signore Gesù è l’architetto: da lui deriva lo stile dello stare insieme e con lui si apprende il modo di stare insieme. La sua è una scuola impegnativa e coinvolgente: non ci sono mezzi termini. L’ascolto della sua Parola, lo stare davanti a lui e con lui, il rimanere nel suo amore e nell’amore del Padre sono condizioni fondamentali per poter comprendere il senso dell’edificio.

Non c’è cantiere di lavoro senza il suo manovale, senza lo scugnizzo tutto fare. Non appare, non prende decisioni, non assegna ruoli e funzioni, non comanda. Ma è lì, sempre pronto a impastare calce e cemento o porgere la cazzuola. Il manovale del cantiere comunità è lo Spirito Santo. È lui il collante di ogni stare insieme. È lui che ricorda ai cuori di ognuno l’antico progetto di comunione e di servizio. È lui che appiana difficoltà ponendo al centro dello stare insieme la comunione trinitaria.

Individuato il terreno e il progetto è necessario procedere nella costruzione di salde e massicce fondamenta: il perché dello stare insieme, le motivazioni, le ragioni. Poi si comincia ad innalzare i diversi piani: il come stare insieme, le modalità, lo stile.

La costruzione dello stare insieme per avviene nel tempo ed esige fatica e pazienza quotidiana. Richiede capacità di ricominciare ogni giorno e disponibilità a sognare.

Per edificare un solido e stabile edificio dello stare insieme occorre progettare la presenza di sette arcate[1]. Esse reggono l’edificio, lo rendono stabile e lo proteggono dai terremoti improvvisi.

La prima arcata è la comunione. È dalla comunione trinitaria che nasce incessantemente la comunione ecclesiale. La comunione non è appiattimento. E’ unità nella diversità: un solo corpo ma molte membra con caratteristiche diverse. La comunione, non quella ideale e teorica, ma quella tangibile e concreta si fa quotidianamente compresenza (esserci), si fa costantemente corresponsabilità (impegno), si fa creativamente complementarità (incontro).

La seconda arcata è, dunque, la compresenza, la terza è la corresponsabilità e la quarta è la complementarità. Nella famiglia religiosa (comunione ecclesiale) la comunione è presenza: stare ed esserci. È rischiare in prima persona. È occupare posti di trincea e di prima fila: non nascondersi in luoghi fortificati! È capacità di stare nel cuore dell’altro e di comprendere il cuore all’altro: abbracciare ciò che sta a cuore all’altro. Nella famiglia religiosa la responsabilità dello stare insieme è sulle spalle di tutti: nessuno escluso! È corresponsabilità: nessuno è dispensato! Non ci sono ospiti o disoccupati in comunità. Non è previsto il part time. Non è consentito lo stare sistematicamente in panchina. Non è possibile fare la zavorra. Ognuno è complementare all’altro: integra e perfeziona l’altro. La complementarità richiede contatto, incontro, scambio. Richiede la semplicità e la disponibilità di farsi completare.

Le tre arcate della compresenza, della corresponsabilità e della complementarità rischiano l’instabilità e la disarmonia senza l’arcata della comunicazione. La comunicazione vera, quella di vita e nella vita avviene nel momento presente; raggiunge il momento presente dell’altro –coinvolgente – e si carica del peso vitale dell’uno e dell’altro. La comunicazione esistenziale crea reciprocità e sfocia naturalmente nella condivisione, ossia nella capacità di dividere con l’altro pensieri e idee, problemi e difficoltà, ma anche emozioni e stati d’animo, sofferenze e gioie, sogni e progetti… È capacità di «stare con». È impegno a superare la tentazione di «stare tra». La condivisione, quando è vera e profonda, si fa capacità di patire-con.

La settima e ultima arcata è la com-passione. È la capacità di vivere con pathos tutto ciò che si è, si ha e si fa e tutto ciò che l’altro è, ha e fa. È capacità di vivere con amore «ciò che si è»: accettarsi e volersi bene per quello che si è e per come si è; stimarsi, valorizzarsi, avere fiducia in sé. È capacità di vivere con amore «ogni cosa che si ha»: essere grati per le cose che si hanno e accostarsi ad esse con rispetto. È capacità di vivere con amore «ogni cosa che si fa»: saper gioire di ogni piccola-grande cosa che si fa. È coinvolgimento pieno e totale in ogni cosa che si fa. La compassione fa vivere implicati nella propria vita e nella propria storia, ma soprattutto fa vivere coinvolti nella vita e nella storia dell’altro. La compassione vera assume il volto dell’empatia: capacità di immedesimarsi nell’altro, di «camminare con le scarpe dell’altro».

 

Prima arcata: stile di comunione

Dio creando l’uomo «a sua immagine e somiglianza» (cf Gn 1,27) lo destina alla comunione: Dio (Trinità, Amore, Comunione) chiama gli uomini e le donne a entrare in intimo rapporto con lui, ma anche a vivere un’intensa comunione interpersonale e a sperimentare una concreta fraternità universale. La vocazione prima e ultima di ogni uomo e di ogni donna è, dunque, l’entrare e lo stare nella comunione con Dio e con gli uomini.

La comunione è un mistero che va contemplato. È un dono che va richiesto in ginocchio e accolto con cuore riconoscente in una dimensione di fede e di speranza. Quando si smarrisce la dimensione teologica e ascetica della «comunione» e, di conseguenza, della «comunità» e della «vita comune» si rischia di dimenticare le ragioni profonde dell’«essere comunità» e del «fare comunità» e tutto diventa difficile, impossibile, pesante. Si smarrisce la voglia di costruire e ricostruire ogni giorno, con pazienza e docilità, lo stare insieme.

La comunità «senza mistica non ha anima, ma senza ascesi non ha corpo. Si richiede “sinergia” tra il dono di Dio e l’impegno personale per costruire una comunione incarnata, per dare cioè carne e concretezza alla grazia e al dono della comunione fraterna»[2].

La comunione è dono che impegna a «vedere» l’altro, ad «incontrare» e ad «accogliere» l’altro, a «servire» l’altro.

Il Nuovo Testamento è un continuo richiamo alla comunione tra i dodici, alla reciprocità degli «uni verso gli altri». La reciprocità degli «uni gli altri» è espressa quasi sempre in termini positivi (amatevi, servitevi, abbiate gli stessi sentimenti, accoglietevi…), ma a volte anche in termini negativi per mettere in guardia (vi divorerete, vi invidierete…). Per 51 volte è ripetuta l’espressione «gli uni gli altri»[3].

Gesù è chiaro in termini di reciprocità: «amatevi gli uni gli altri» (Gv 13,34) e «lavatevi i piedi gli uni gli altri» (Gv 13,14). Continuano Paolo, Giovanni, Giacomo, Pietro… siate solidali gli uni gli altri (cf Rm 12,5; 1Cor 11,33; Gal 6,2; Ef. 4,25), amorevoli (cf Rm 12,10; 1Tess 5,11; 1Pt 1,22; 1Gv 1,7), servitevi reciprocamente (cf Gal 5,13; Ef 5,21), non distruggetevi (cf Gal 5,15), non invidiatevi (cf Gal 5,26), non giudicatevi (cf Rm 14,13), confessatevi i peccati (cf Gc 5,16), salutatevi (cf Rm 16,16, 2Cor 13,12; 1 Pt 5,14).

La comunione è unità nella diversità. La ricchezza, ma anche l’impegno della comunità religiosa è vivere la diversità nella gioia della comunione vera.

 
Seconda arcata: stile di compresenza

Una comunità religiosa è una comunità sentinella nella notte: presente nella storia degli uomini e protagonista di storia. Sempre pronta a stare dalla parte dei piccoli.

L’annuncio del Vangelo richiede la centralità di una comunità che testimoni vivamente e in modo tangibile una fede pensata e pensante[4]. Richiede, in altri termini, una comunità religiosa che non si colloca «fuori» dalla storia, quasi estranea ai dinamismi dell’esistenza concreta. Neanche «contro» il contesto sociale, quasi in atteggiamento di rifiuto pregiudiziale della cultura e della società. Neanche «catturata» dal momento storico e dalla culturale contemporanea, quasi prigioniera del presente e rinunciataria del suo ruolo profetico.

Lo stile della compresenza fa stare nell’oggi e nel qui, pienamente inseriti nell’adesso storico. Questo stile spinge a stare con i piedi per terra e le mani affondate nella storia degli uomini, ma spinge anche a stare con lo sguardo rivolto verso nuovi orizzonti, verso quel Regno di Dio che non è di questo mondo, ma che si costruisce a partite dall’oggi e dal qui della storia di questo mondo.

Lo stile della compresenza richiede, dunque, una comunità che abbia il coraggio di analizzare le situazioni concrete[5] e la lungimiranza di andare oltre, per sognare e costruire la civiltà dell’amore. Se questo è richiesto alla comunità religiosa nel suo complesso, è naturale che ogni membro che compone la comunità è chiamato ad essere presente, in modo creativo, nella notte e nel giorno della storia particolare (il contesto di vita) e universale (il mondo intero).

È importante sentire di «far parte» di una realtà, di una storia, di una cultura. Ma non basta il «far parte» (l’esserci e lo stare) è necessario «prendere parte» (agire e costruire). È necessario essere «parte attiva». A volte si rischia di stare «in» casa, senza però essere «di» casa[6]. Si rischia di «occupare» la casa, senza «abitare» il focolare domestico. Si rischia, per essere ancora più concreti, di «occupare» con forza gli spazi comunitari, gli incarichi, i servizi, i ruoli… invece di «abitarli» con amore.

 

Terza arcata: stile di corresponsabilità

Una caratteristica della comunità religiosa è la fraternità. Nella vita fraterna ognuno si sente ed è responsabile dell’altro, della vita e della fedeltà dell’altro. Ognuno è chiamato a offrire con disponibilità e libertà il proprio contributo. E ognuno sa che può offrire qualcosa di importante per far crescere e sviluppare il clima di serena condivisione, di gioiosa comprensione, di sincero aiuto reciproco.

La vita fraterna sollecita dolcemente ognuno a «prendersi cura» della vita dell’altro. A prestare attenzione ai momenti di stanchezza, sofferenza, isolamento, demotivazione del fratello e della sorella che ci vive accanto. A offrire senza riserve, senza blocchi e senza caparre il proprio sostegno a chi è rattristato dalle difficoltà e dalle prove.

La comunità si costruisce con e attraverso l’umanità di ciascuno: attraverso la debolezza umana condivisa e donata.

Ritorna l’invito di Gesù alla reciprocità degli «uni gli altri». Paolo, Giacomo, Giovanni, Pietro… esperti in «vita comune» e in «stile di fraternità» offrono consigli intramontabili:

  •      «amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda» (Rm 12,10);

  •     «abbiate i medesimi sentimenti gli uni verso gli altri» (Rm 12,16);

  •     «accoglietevi gli uni gli altri come Cristo accolse voi» (Rm 15,7);

  •     «correggetevi gli uni gli altri con dolcezza» (Rm 15,14; Gal 6,1);

  •     «aspettatevi gli uni gli altri» (1Cor 11,33);

  •     «mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri» (Gal 5,13);

  •     «sopportatevi a vicenda con amore» (Ef 4,2);

  •     «pregate gli uni per gli altri» (Gc 5,16);

  •     «siate benevoli gli uni gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda»   (Ef 4,32);

  •     «abbiate riguardo per quelli che faticano per voi, che vi sono preposti nel Signore e vi ammoniscono; trattatali con molto rispetto e carità» (1Tes 5,12-13);

  •     «siate sottomessi gli uni gli altri nel timore di Cristo» (Ef 5,21) e «correggete gli indisciplinati, confortate i pusillanimi, sostenete i deboli, siate pazienti con tutti…. Cercate sempre il bene tra voi e con tutti» (1Tes 5,14-15);

  •     «non stancatevi di fare il bene… operate il bene verso tutti, soprattutto verso i fratelli nella fede» (Gal 6,9-10):

  •     «rivestitevi tutti di umiltà gli uni verso gli altri» (1Pt 5,5).

Ogni versetto va meditato con disponibilità e apertura mentale. Va cullato nel cuore e incarnato nelle mani.

Quarta arcata: stile di complementarità

Se nella vita comunitaria la comunione, la compresenza e la corresponsabilità sono «di casa», è automatico vivere lo «stupore dell’incastro»: la meraviglia dell’essere complementari l’uno all’altro. La comunione, la compresenza e la corresponsabilità bandiscono la «concorrenza» e la «competizione» ed esaltano la reciprocità, l’integrazione, la complementarità.

Nel sereno e libero completarsi si esperimenta la gioia di vedere le mie idee, le mie capacità, i miei pensieri, le mie riflessioni, la mia creatività… incastrarsi in un gioco armonico con le idee, le capacità, i pensieri, le riflessioni, la creatività degli altri.

La complementarità è disponibilità a completare e a farsi completare: l’uno completa l’altro per il «bene comune».

La complementarità non è teorica. Essa è concreta: è incontro e dialogo nella diversità di idee e culture, di attitudini e caratteri, di abitudini e tradizioni, di percorsi e sensibilità…

La complementarità rifugge l’antagonismo e cerca il contatto, lo scambio, la relazione, l’incontro, la collaborazione.

Quinta arcata: stile di comunicazione

L’arcata della comunicazione è fondamentale in una comunità religiosa: per essere davvero «fratelli nella fede» e «nella vocazione» è necessario conoscersi e per conoscersi è indispensabile entrare in relazione profonda con l’altro. Quest’arcata è centrale, insieme alla prima e alla sesta.

La comunicazione non è «a senso unico»: solo andata» o solo ritorno. Non è semplice espressione di qualcosa, né tanto meno pura trasmissione di un contenuto o mero travaso d’informazioni. È un processo dialogico che impegna in un continuo confronto-scambio.

La comunicazione che incontra l’altro e cammina con l’altro è «a doppio senso di marcia»: io-tu-io-tu… fino a diventare noi. Il noi si costruisce nel feed-back, in quell’incessante «risposta di ritorno» che viaggia ininterrottamente tra emittente e destinatario.

Nella comunicazione «a doppio senso di marcia» l’emittente di un messaggio e il destinatario non sono parti isolate e distinte, ma fortemente legate tra loro.

La comunicazione implica l’impegno a seguire il percorso del messaggio comunicato. Comporta l’osservazione attenta del «modo» con cui l’altro lo accoglie. Impegna a custodire i cambiamenti che provoca. Si è padri e madri di un contenuto comunicato. La trasmissione, invece, libera da ogni responsabilità: non è necessario seguire il percorso del messaggio. Ci si sente fornitori, non genitori di un contenuto trasmesso.

Comunicare significa ascoltare se stessi e gli altri. Significa partecipare i propri pensieri e accogliere quelli altrui, rivedere il percorso compiuto, pensare e progettare insieme. La mancanza o la povertà di comunicazione «genera di solito un indebolimento della fraternità, per la non conoscenza del vissuto altrui che rende estraneo il fratello e anonimo il rapporto, oltre che creare delle vere e proprie situazioni d’isolamento e di solitudine. In alcune comunità si lamenta la scarsa qualità della fondamentale comunicazione dei beni spirituali: si comunica su temi e problemi marginali, ma raramente si condivide ciò che è vitale e centrale nel cammino di consacrazione»[7]. Le forme della comunicazione dei doni spirituali possono essere diverse[8]: condivisione della Parola e dell’esperienza di Dio, discernimento comunitario, progetto comunitario, correzione fraterna, revisione di vita… «sono modi concreti di porre al servizio degli altri e di far riversare nella comunità i doni che lo Spirito abbondantemente elargisce per la sua edificazione e per la sua missione nel mondo»[9].

Esistono tre livelli di comunicazione umana[10].

Il primo strato è quello della comunicazione sociale: una comunicazione poco coinvolgente, che avviene a livello di ruoli e di funzioni (con il preside della mia scuola o con il benzinaio che mi fa il pieno).

Il secondo strato è quello della comunicazione personale esterna: una comunicazione che, pur coinvolgendo maggiormente, si ferma agli aspetti esteriori, ai bordi della propria esistenza. È una comunicazione che non fa correre rischi perché consente di rimanere nel generico: non si parla di sé, ma del tempo, della politica, dello sport… Essa può avvenire con chiunque, sia con persone con cui si condivide una forte esperienza (colleghi di lavoro, amici, membri di comunità…) sia con persone che s’incontrano sporadicamente (compagni occasionali di viaggi in treno o in aereo…). È una comunicazione «scientifica» che si guarda bene dal condividere qualcosa di sé: si parla per ore senza condividere nulla del proprio travaglio umano, senza partecipare la benché minima emozione.

Il terzo strato è quello della comunicazione personale interna: una comunicazione decisamente coinvolgente e impegnativo che parte da sé, raggiunge l’altro e ritorna a sé. È una comunicazione che a cerchi concentrici porta l’altro dentro di sé: si parte dalla circonferenza della sfera intima (comunicazione di esperienze di lavoro o di apostolato, interessi e gusti, rapporti amicali e fraterni…) fino a raggiungere il centro, il nucleo.

Questa comunicazione bandisce la periferia e l’unico posto occupabile è il cuore. Nel cuore la comunicazione si fa condivisione di sentimenti ed emozioni: comunicare ciò che si sente e si percepisce di se stessi e degli altri. Si fa dono di ideali e principi: comunicare le priorità esistenziali e la propria scala di valori. Si fa reciprocità: comunicare successi e drammi, desideri e speranze, progetti e sogni… comunicare quei lineamenti che caratterizzano la personalità, motivano gli atteggiamenti di vita, spiegano le reazioni.

A questa comunicazione si arriva nel tempo: non è un punto di partenza! Attenzione al tutto e subito: «brucia la comunicazione»! La comunicazione comunitaria e amicale ha bisogno di tempo: è un processo, un cammino, una storia di sedimentazione reciproca.

Attenzione alla fretta, alla superficialità, alla disattenzione nelle relazioni fraterne.

La fretta si manifesta quando si fa intuire all’altro che deve sbrigarsi a dire quello che deve dire, perché non si ha tempo da perdere. Quando, durante un dialogo, si guarda spesso l’orologio o si punta lo sguardo altrove. Quando si fa i preziosi rimandando sempre a dopo e a poi. Quando si ascolta per necessità, per abitudine, per dovere.

La superficialità si manifesta quando non si prende sul serio la situazione dell’altro. Quando si ridicolizza il dramma altrui. Quando non si va al cuore dei problemi, ma ci si ferma in periferia e ci si accomoda ai bordi. Quando si vuol «capire», senza varcare il campo sconfinato della com-prensione e del prendere con sé col cuore.

La disattenzione si manifesta quando il pensiero sfiora appena la situazione dell’altro, non si ferma ma continua la sua corsa verso i propri interessi, le proprie preoccupazioni, i propri problemi. Quando si ascolta senza coinvolgimento, senza pathos, senza sentimento. Quando ci si limita ad «udire» suoni e voci, senza passare ad «auscultare», a scendere in profondità. Quando le problematiche altrui non c’inchiodano alle nostre responsabilità, non ci spingono all’azione concreta, non chiamano in causa le nostre scelte

Bisogna avere il coraggio della verifica: è la fretta, la superficialità, il disinteresse a contrassegnare la mia vita o la scelta di «stare in profondità»? Vivo all’insegna della fretta e in fretta o nel segno del dono del tempo? Consumo con avidità le relazioni amicali e fraterne o le assaporate con gusto? Occupo gli affetti o li abito dolcemente?

Nelle comunità religiose a volte accade qualcosa di strano: si ha tempo per tutto e per tutti, ma si ha fretta e poco tempo per i membri della propria comunità. È facile e pericoloso camuffare la fretta e la scarsa attenzione con gli abiti eleganti del «noi ci conosciamo da tempo: non è necessario fermarsi a parlare, sorridere, scherzare, dialogare…» o peggio del «noi ci vogliamo bene, abbiamo fiducia l’uno dell’altro, condividiamo una grande scelta… non facciamo i bambini che vogliano sempre discutere tra noi».

È importante impegnarsi perché all’interno delle comunità religiose si qualifichi il dialogo e si faccia uscire sempre più la comunicazione dai meandri dei problemi marginali.

Due problemi vanno affrontati: la scarsa qualità della comunicazione e l’incapacità di condividere i beni spirituali. Alcune comunità lamentano «la scarsa qualità della fondamentale comunicazione dei beni spirituali: si comunica su temi e problemi marginali, ma raramente si condivide ciò che è vitale e centrale nel cammino di consacrazione»[11].

La mancanza di dialogo profondo e di ascolto sincero rischia di far «condurre esistenze giustapposte o parallele, il che è ben lontano dall’ideale di fraternità»[12].

Le conseguenze di un dialogo alla periferia dell’essenzialità e lungo il perimetro delle cose che contano sono drammatiche perché l’esperienza spirituale può acquisire connotazioni individualistiche e «favorire la mentalità di autogestione unita all’insensibilità per l’altro, mentre lentamente si vanno ricercando rapporti significativi al di fuori della comunità. Il problema va affrontato esplicitamente: con tatto e attenzione, senz’alcuna forzatura; ma anche con coraggio e creatività, cercando forme e strumenti che possono consentire a tutti d’imparare progressivamente a condividere, in semplicità e fraternità, i doni dello Spirito perché diventino davvero di tutti e servano per l’edificazione di tutti (cf 1 Cor 12,7»[13].

Il rischio è relegare la spiritualità a qualcosa di privato, da gestire «a porte chiuse» nella cella della propria interiorità. Qualcosa da confidare nel segreto della direzione spirituale o sussurrata all’amico/a. Qualcosa che può essere «testimoniata, magari in modo un po’ altisonante e artificioso, nell’incontro di preghiera del gruppo o del movimento che si frequenta, con persone che non sono i propri confratelli o consorelle, ma che sono chissà perché, migliori di loro o con le quali, ed è facile capire il perché, è più semplice e spontaneo questo tipo di operazione»[14].

Amedeo Cencini afferma che il vero problema è la mancanza di convinzione sulla necessità di condividere i beni spirituali: questo tipo di condivisione è ritenuta da molti facoltativa, non fattore qualificante. E così avanzano gli «individualisti dello spirito» e i «secessionisti del legame fraterno», cioè coloro che non credono nella necessità di questa condivisione e che la ritengono un «sentimentalismo»[15].

Spesso nelle comunità religiose si sente un’espressione di questo tipo: «per me gli altri sono tutti uguali, non c’è differenza tra un membro e l’altro». Questa espressione è davvero pericolosa: le relazioni amicali «dovrebbero essere sempre “particolari”, ovvero mai generiche e anonime, ma su misura, fin dove si può, dell’altro e della sua realtà»[16]. Il «fino a dove si può» non va definito a priori e per principio teorico: è l’esperienza concreta vissuta in modo intelligente che indica il confine e pone lo stop.

Sesta arcata: stile di condivisione

Le due arcate della comunione e della comunicazione sono strettamente legate all’ar-cata della condivisione.

Lo stile della condivisione fa vivere l’avventura dello «stare con» e allontana la tentazione di «stare tra». L’essere «tra» impoverisce e sminuisce: «si è tra le cose e gli oggetti dove non si realizza interazioni né reciprocità, essi sono presenti a noi ma non noi a loro. Possiamo anche amare gli oggetti, accarezzarli, portarli a casa per vestire la nudità della nostra abitazione, ma essi non vestono la nudità della vita; non c’è dialogo con loro. Per quanto preziosi e affascinanti siano, noi non viviamo con, ma solo tra gli oggetti. L’essere tra è una forma di relazione frequente e diffusa; si vive questa relazione quando ci si pone tra le persone come tra oggetti, con neutralità emotiva; le persone vengono, in un certo senso, oggettivate, cosificate. La relazione non è del tipo “io-tu”, ma del tipo “io-esso”, “io-cosa”... Essere tra è la forma di relazione che si vive andando per strada, nei supermercati, sui mezzi di trasporto, negli affollamenti in genere; ma spesso anche nei condomini, negli ambienti di lavoro, perfino nelle famiglie e nelle comunità»[17].

L’essere «con» è una forma relazionale che esprime comunione e partecipazione. L’essere «tra» è indice di una relazione umana povera, provvisoria, poco coinvolgente.

L’essere «con» implica l’essere «per»: donare il massimo di sé per il tu e per il noi.

La condivisione vera chiama in causa la com-passione: la passione del cuore.

Settima arcata: stile di com-passione

L’arcata della compassione spinge a vivere ogni cosa con pathos: fa vivere coinvolti nella vita e nella storia dell’altro.

La compassione spinge a vivere con pathos (con passione) ciò che si è, ogni cosa che si ha e tutto ciò che si fa.

La compassione si concretizza nell’empatia: nella capacità di ascolto dell’altro fino a immedesimarsi nell’altro; nella capacità di comprendere ciò che l’altro vive, sente, prova; nella capacità di distaccarsi dal proprio modo di vedere per immergersi nel mondo soggettivo dell’altro. È la capacità di mettersi al posto dell’altro per vedere il mondo con i suoi occhi. È la capacità di partecipare all’esperienza dell’altro e di intuire il suo mondo affettivo. È la capacità di cogliere le emozioni che l’altro ci comunica attraverso i contenuti oggettivi e il linguaggio non-verbale.

L’empatia non va confusa con la simpatia: nel rapporto simpatico si è sullo stesso piano e si gioca insieme; nel rapporto empatico l’altro occupa un posto di primo piano, si è concentrati sull’altro facendo tacere le proprie tendenze e le proprie preoccupazioni.

L’atteggiamento empatico è graduale: comunicare gradualmente all’altro quanto si sta percependo di lui, servendosi sia del linguaggio verbale sia di quello non-verbale.

La strada dell’empatia, la strada del lasciarsi coinvolgere e del coinvolgere, la strada del soffrire e del gioire «con», è la strada che costruisce la vera comunione e l’autentica convivialità fraterna.

 

Il cemento delle sette arcate

Le arcate vanno cementate. Il cemento è l’intimità con il Signore: è la preghiera personale e comunitaria. È lo stare davanti al Signore e con il Signore, è il meditare costantemente la sua Parola, è il fermarsi per vivere momenti di deserto.

Per costruire in modo solido nella propria vita queste sette arcate è necessario, inoltre, coltivare le qualità umane richieste in tutte le relazioni: educazione, gentilezza, sensibilità, sincerità, controllo di sé, senso della misura, lealtà, apertura all’altro, delicatezza, senso dell’umorismo, spirito di condivisione…

Le sette arcate esigono semplicità e profondità: una vita fraterna sobria è una vita che fa stare «in profondità», fa immergere nella propria e altrui vita, nella propria e altrui storia. È una vita che non permette di stare in superficie o ai bordi!

Le sette arcate esigono adesione sincera alla disciplina comunitaria: un’adesione libera che rende liberi. Non ha senso un’adesione subita. È necessaria un’adesione che punti «al massimo» e non «al minimo indispensabile»: alla regola. Un’adesione in grado di andare sempre un po’ più in là: supera le cose visibili o le cose congeniali.

Le sette arcate esigono chiarezza e fiducia relazionale: apertura al dialogo e capacità di confronto. Non c’è comunione, compresenza, corresponsabilità, complementarità, comunicazione, condivisione, com-passione senza dialogo. Bisogna verificare costantemente la quantità e soprattutto la qualità del dialogo nelle nostre comunità[18].

Le sette arcate esigono il far festa e il gioire insieme. Saper «fare festa insieme» significa avere la capacità di concedersi momenti di distensione personale e comunitaria; saper prendere le distanze dal lavoro eccessivo; saper gioire delle gioie del fratello; avere attenzione ed essere premurosi nei confronti delle necessità dei fratelli e delle sorelle; avere sempre fiducia nel lavoro apostolico e nei suoi frutti; saper affrontare con misericordia e serenità le situazioni difficili e complesse; saper andare incontro al domani con la speranza d’incontrare sempre e comunque il Signore[19].

Tutto questo si traduce concretamente in una vita piena e colma di serenità, pace, gioia. La serenità, la pace e la gioia diventano la «forza» dell’apostolato.

La comunità religiosa evangelizza con la sua gioia e la gioia è la testimonianza del suo essere evangelizzatrice. La gioia è una conquista: il punto di arrivo di un cammino. La gioia invade tutta la vita ed è possibile solo se sorretta costantemente dalla preghiera personale e comunitaria: «Lieti nella speranza, forti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera» (Rm 12,12).

Il coraggio di vivere decisi per…

Il fil rouge del vivere decisi per… rappresenta l’orizzonte in cui collocare la quotidianità della vita.

Nella decisione per… è inclusa la maturazione della persona: il cammino verso la maturità umana non conosce limiti e comporta un continuo arricchimento di valori spirituali, ma anche psicologici, culturali e sociali.

Il cammino verso la maturità richiede, innanzi tutto, l’impegno a trovare un buon (proprio!) equilibrio affettivo… una libertà affettiva che non significa neutralità affettiva.

Il consacrato ama la sua vocazione e ama secondo la sua vocazione[20].

Amare la propria vocazione significa sentire che davvero la vocazione affidata da Dio costituisce una buona ragione di vita. Significa cogliere, percepire e vivere la propria vocazione come una realtà vera, bella e buona che dona verità, bellezza e bontà alla propria esistenza e che rende veri, belli e buono.

Questa convinzione rende forti e autonomi: fa essere sicuri della propria vocazione e libera dal bisogno di compensazioni, sia a livello affettivo sia a livello di realizzazione personale (professionale e apostolica…).

Questa convinzione rafforza il vincolo del consacrato con il suo Signore, ma ancor più rafforza il vincolo tra i consacrati, tra coloro che condividono la stessa avventura di abbandono totale al Signore Gesù.

«Amare la propria vocazione è amare la Chiesa, è amare il proprio Istituto e sentire la comunità come la propria famiglia. Amare secondo la propria vocazione è amare con lo stile di chi in ogni rapporto umano desidera essere segno limpido dell’amore di Dio, non invade e non possiede, ma vuole bene e vuole il bene dell’altro con la stessa benevolenza di Dio»[21].

Note:

[1]    Sette è un numero denso di significato e carico di spessore simbolico: è il numero della pienezza e della perfezione, della salvezza e del divino. È l’espressione della totalità voluta da Dio: è il numero della redenzione (il bene) e del peccato (il male).

[2]              Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le societa’ di vita apostolica, La vita fraterna in comunità, 1994, n. 23.

[3]              L’espressione si trova 10 volte nei Vangeli (ben sette in Giovanni). L’espressione «a vicenda» ricorre 24 volte.

[4]    Cf L. Chiarinelli. Orientamenti pastorali per il prossimo decennio: scelta del tema e modalità di proposta, odg. n. 3, relazione alla 47ma Assemblea CEI (Collevalenza, 22-26 maggio 2000).

[5]    Cf Presidenza del comitato preparatorio al II Convegno Ecclesiale, La forza della riconciliazione, Sussidio per lavorare insieme in preparazione al II Convegno della Chiesa Italiana, 1984, n. 2.33; Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica postsinodale Pastores dabo vobis, La formazione dei sacerdoti nelle circostanze attuali, 1992, n. 10.

[6]    È l’esperienza del figlio maggiore della parabola del padre buono e dei suoi due figli raccontata da Gesù e registrata nel Vangelo di Luca (15,11-32). Il figlio maggiore era «in» casa, era fedele servitore del padre… ma non aveva capito nulla dello «stile» del padre: non era «di» casa nelle abitudini relazionali e misericordiose del Padre.

[7]    La vita fraterna in comunità, n. 32.

[8]    cf Ibidem.

[9]    Ibidem.

[10]  Cf G. Le Mura, Comunicare: dal cuore alle mani, op. cit., pp. 32-34.

[11]  La vita fraterna in comunità, n. 32.

[12]  Ibidem.

[13]  Ibidem.

[14]  A. Cencini, Com’è bello stare insieme... La vita fraterna nella stagione della nuova evangelizzazione, Paoline, Milano 1996, p, 176.

[15]  Cf Ib., pp. 170-171.

[16]  Ibidem.

[17]  G. Colombero, Dalle parole al dialogo. Aspetti psicologici della comunicazione interpersonale, San Paolo, Cinisello Balsamo 1988, pp. 24-26.

[18]  Cf G. Le Mura, Comunicare: dal cuore alle mani, op. cit., pp. 179-183.

[19]  Cf La vita fraterna in comunità, 1994, n. 28.

[20]  Cf Ib. n. 37.

[21]  Ibidem.

 

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