Lo
stare insieme per è un
edificio che, come tutti gli edifici, richiede una costruzione lenta e
progressiva. Richiede un cantiere di lavoro.
Per
prima cosa è necessario individuare il terreno su cui edificare la
costruzione dello stare insieme
per. Il terreno, per questa speciale costruzione che coinvolge ogni
interessato in prima persona e in modo totale, è dato dalla somma degli
«appezzamenti di terra» che ognuno è e che ognuno porta con sé. Si
costruisce, infatti, su ciò che siamo individualmente (come persone) e
comunitariamente (come famiglia religiosa).
Oltre
al terreno occorre, prima di iniziare materialmente l’edificazione, un
buon ingegnere per dirigere i lavori e un bravo architetto per
progettare l’uso degli spazi. Dio Padre è l’ingegnere di ogni stare
insieme: da lui deriva il senso dello stare
insieme, con lui si costruisce lo stare
insieme, per lui si sta
insieme. Il Signore Gesù è l’architetto: da lui deriva lo stile
dello stare insieme e con lui
si apprende il modo di stare
insieme. La sua è una scuola impegnativa e coinvolgente: non ci
sono mezzi termini. L’ascolto della sua Parola, lo stare
davanti a lui e con lui, il rimanere
nel suo amore e nell’amore del Padre sono condizioni fondamentali
per poter comprendere il senso dell’edificio.
Non
c’è cantiere di lavoro senza il suo manovale, senza lo scugnizzo
tutto fare. Non appare, non prende decisioni, non assegna ruoli e
funzioni, non comanda. Ma è lì, sempre pronto a impastare calce e
cemento o porgere la cazzuola. Il manovale del cantiere comunità è lo
Spirito Santo. È lui il collante di ogni stare
insieme. È lui che ricorda ai cuori di ognuno l’antico progetto
di comunione e di servizio. È lui che appiana difficoltà ponendo al
centro dello stare insieme la
comunione trinitaria.
Individuato
il terreno e il progetto è necessario procedere nella costruzione di
salde e massicce fondamenta: il perché dello stare
insieme, le motivazioni, le ragioni. Poi si comincia ad innalzare i
diversi piani: il come stare insieme, le modalità, lo stile.
La
costruzione dello stare insieme
per avviene nel tempo ed esige fatica e pazienza quotidiana.
Richiede capacità di ricominciare ogni giorno e disponibilità a
sognare.
Per
edificare un solido e stabile edificio dello stare
insieme occorre progettare la presenza di sette arcate.
Esse reggono l’edificio, lo rendono stabile e lo proteggono dai
terremoti improvvisi.
La
prima arcata è la comunione.
È dalla comunione trinitaria che nasce incessantemente la comunione
ecclesiale. La comunione non è appiattimento. E’ unità nella
diversità: un solo corpo ma molte membra con caratteristiche diverse.
La comunione, non quella ideale e teorica, ma quella tangibile e
concreta si fa quotidianamente compresenza
(esserci), si fa costantemente corresponsabilità
(impegno), si fa creativamente complementarità
(incontro).
La
seconda arcata è, dunque, la compresenza,
la terza è la corresponsabilità
e la quarta è la complementarità.
Nella famiglia religiosa (comunione ecclesiale) la comunione è presenza: stare ed esserci. È rischiare in prima persona. È
occupare posti di trincea e di prima fila: non nascondersi in luoghi
fortificati! È capacità di stare
nel cuore dell’altro e di comprendere
il cuore all’altro: abbracciare ciò che sta a cuore all’altro.
Nella famiglia religiosa la responsabilità dello stare insieme è sulle
spalle di tutti: nessuno escluso! È corresponsabilità: nessuno è
dispensato! Non ci sono ospiti
o disoccupati in comunità. Non è previsto il part time. Non è consentito lo stare sistematicamente in panchina.
Non è possibile fare la zavorra. Ognuno è complementare all’altro:
integra e perfeziona l’altro. La complementarità richiede contatto,
incontro, scambio. Richiede la semplicità e la disponibilità di farsi
completare.
Le
tre arcate della compresenza,
della corresponsabilità e
della complementarità
rischiano l’instabilità e la disarmonia senza l’arcata della comunicazione.
La comunicazione vera, quella di
vita e nella vita avviene
nel momento presente; raggiunge il momento presente dell’altro
–coinvolgente – e si carica del peso
vitale dell’uno e dell’altro. La comunicazione esistenziale crea
reciprocità e sfocia naturalmente nella condivisione,
ossia nella capacità di dividere con l’altro pensieri e idee,
problemi e difficoltà, ma anche emozioni e stati d’animo, sofferenze
e gioie, sogni e progetti… È capacità di «stare con». È impegno a
superare la tentazione di «stare tra». La condivisione, quando è vera
e profonda, si fa capacità di patire-con.
La
settima e ultima arcata è la com-passione.
È la capacità di vivere con pathos
tutto ciò che si è, si ha e si fa e tutto ciò che l’altro è, ha e
fa. È capacità di vivere con amore
«ciò che si è»: accettarsi e volersi bene per quello che si è e
per come si è; stimarsi, valorizzarsi, avere fiducia in sé. È capacità
di vivere con amore «ogni
cosa che si ha»: essere grati per le cose che si hanno e accostarsi ad
esse con rispetto. È capacità di vivere con amore
«ogni cosa che si fa»: saper gioire di ogni piccola-grande cosa che si
fa. È coinvolgimento pieno e totale in ogni cosa che si fa. La
compassione fa vivere implicati nella propria vita e nella propria
storia, ma soprattutto fa vivere coinvolti nella vita e nella storia
dell’altro. La compassione vera assume il volto dell’empatia:
capacità di immedesimarsi nell’altro, di «camminare con le scarpe
dell’altro».
Prima
arcata: stile di comunione
Dio
creando l’uomo «a sua immagine e somiglianza» (cf Gn 1,27) lo destina alla comunione: Dio (Trinità, Amore, Comunione)
chiama gli uomini e le donne a entrare in intimo rapporto con lui, ma
anche a vivere un’intensa comunione interpersonale e a sperimentare
una concreta fraternità universale. La vocazione prima e ultima di ogni
uomo e di ogni donna è, dunque, l’entrare
e lo stare nella comunione
con Dio e con gli uomini.
La
comunione è un mistero che va contemplato. È un dono che va richiesto
in ginocchio e accolto con cuore riconoscente in una dimensione di fede
e di speranza. Quando si smarrisce la dimensione teologica e ascetica
della «comunione» e, di conseguenza, della «comunità» e della «vita
comune» si rischia di dimenticare le ragioni profonde dell’«essere
comunità» e del «fare comunità» e tutto diventa difficile,
impossibile, pesante. Si smarrisce la voglia di costruire e ricostruire
ogni giorno, con pazienza e docilità, lo stare insieme.
La
comunità «senza mistica non ha
anima, ma senza ascesi non ha corpo. Si richiede “sinergia” tra il
dono di Dio e l’impegno personale per costruire una comunione
incarnata, per dare cioè carne e concretezza alla grazia e al dono
della comunione fraterna».
La
comunione è dono che impegna a «vedere» l’altro, ad «incontrare»
e ad «accogliere» l’altro, a «servire» l’altro.
Il
Nuovo Testamento è un continuo richiamo alla comunione tra i dodici,
alla reciprocità degli «uni
verso gli altri». La reciprocità degli «uni gli altri» è espressa
quasi sempre in termini positivi (amatevi, servitevi, abbiate gli stessi
sentimenti, accoglietevi…), ma a volte anche in termini negativi per
mettere in guardia (vi divorerete, vi invidierete…). Per 51 volte è
ripetuta l’espressione «gli uni gli altri».
Gesù
è chiaro in termini di reciprocità: «amatevi
gli uni gli altri» (Gv
13,34) e «lavatevi i piedi gli
uni gli altri» (Gv
13,14). Continuano Paolo, Giovanni, Giacomo, Pietro… siate solidali
gli uni gli altri (cf Rm 12,5; 1Cor 11,33; Gal
6,2; Ef. 4,25), amorevoli (cf Rm
12,10; 1Tess 5,11; 1Pt
1,22; 1Gv 1,7), servitevi reciprocamente (cf Gal 5,13; Ef 5,21), non
distruggetevi (cf Gal 5,15),
non invidiatevi (cf Gal 5,26),
non giudicatevi (cf Rm
14,13), confessatevi i peccati (cf Gc
5,16), salutatevi (cf Rm
16,16, 2Cor 13,12; 1 Pt 5,14).
La
comunione è unità nella diversità. La ricchezza, ma anche l’impegno
della comunità religiosa è vivere la diversità nella gioia della
comunione vera.
Seconda arcata: stile di compresenza
Una
comunità religiosa è una comunità sentinella nella notte: presente
nella storia degli uomini e protagonista di storia. Sempre pronta a
stare dalla parte dei piccoli.
L’annuncio
del Vangelo richiede la centralità di una comunità
che testimoni vivamente e in modo tangibile una fede pensata e pensante.
Richiede, in altri termini, una comunità
religiosa che non si colloca «fuori» dalla storia, quasi estranea
ai dinamismi dell’esistenza concreta. Neanche «contro» il contesto
sociale, quasi in atteggiamento di rifiuto
pregiudiziale della cultura e della società. Neanche «catturata» dal
momento storico e dalla culturale contemporanea, quasi prigioniera
del presente e rinunciataria
del suo ruolo profetico.
Lo
stile della compresenza fa stare nell’oggi e nel qui, pienamente
inseriti nell’adesso storico. Questo stile spinge a stare con i
piedi per terra e le mani
affondate nella storia degli uomini, ma spinge anche a stare con lo
sguardo rivolto verso nuovi orizzonti, verso quel Regno di Dio che non
è di questo mondo, ma che si costruisce a partite dall’oggi
e dal qui della storia di
questo mondo.
Lo
stile della compresenza richiede, dunque, una comunità
che abbia il coraggio di analizzare
le situazioni concrete
e la lungimiranza di
andare oltre, per sognare e costruire la civiltà dell’amore. Se
questo è richiesto alla comunità religiosa nel suo complesso, è
naturale che ogni membro che compone la comunità è chiamato ad essere
presente, in modo creativo, nella notte e nel giorno della storia
particolare (il contesto di vita) e universale (il mondo intero).
È
importante sentire di «far parte» di una realtà, di una storia, di
una cultura. Ma non basta il «far parte» (l’esserci e lo stare) è
necessario «prendere parte» (agire e costruire). È necessario essere
«parte attiva». A volte si rischia di stare «in» casa, senza però
essere «di» casa.
Si rischia di «occupare» la casa, senza «abitare» il focolare
domestico. Si rischia, per essere ancora più concreti, di «occupare»
con forza gli spazi comunitari, gli incarichi, i servizi, i ruoli…
invece di «abitarli» con amore.
Terza arcata: stile di
corresponsabilità
Una
caratteristica della comunità religiosa è la fraternità. Nella vita
fraterna ognuno si sente ed è responsabile dell’altro, della vita e
della fedeltà dell’altro. Ognuno è chiamato a offrire con
disponibilità e libertà il proprio contributo. E ognuno sa che può
offrire qualcosa di importante per far crescere e sviluppare il clima di
serena condivisione, di gioiosa comprensione, di sincero aiuto
reciproco.
La
vita fraterna sollecita dolcemente ognuno a «prendersi cura» della
vita dell’altro. A prestare attenzione ai momenti di stanchezza,
sofferenza, isolamento, demotivazione del fratello e della sorella che
ci vive accanto. A offrire senza riserve, senza blocchi e senza caparre
il proprio sostegno a chi è rattristato dalle difficoltà e dalle
prove.
La
comunità si costruisce con e
attraverso l’umanità di ciascuno: attraverso la debolezza
umana condivisa e donata.
Ritorna
l’invito di Gesù alla reciprocità degli «uni gli altri». Paolo,
Giacomo, Giovanni, Pietro… esperti in «vita comune» e in «stile di
fraternità» offrono consigli intramontabili:
-
«amatevi
gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda»
(Rm 12,10);
-
«abbiate i
medesimi sentimenti gli uni verso gli altri» (Rm
12,16);
-
«accoglietevi
gli uni gli altri come Cristo accolse voi» (Rm
15,7);
-
«correggetevi
gli uni gli altri con dolcezza» (Rm
15,14; Gal 6,1);
-
«aspettatevi
gli uni gli altri» (1Cor
11,33);
-
«mediante
la carità siate a servizio gli uni degli altri» (Gal
5,13);
-
«sopportatevi
a vicenda con amore» (Ef
4,2);
-
«pregate
gli uni per gli altri» (Gc
5,16);
-
«siate benevoli
gli uni gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda» (Ef 4,32);
-
«abbiate
riguardo per quelli che faticano per voi, che vi sono preposti nel Signore e
vi ammoniscono; trattatali con molto rispetto e carità» (1Tes 5,12-13);
-
«siate
sottomessi gli uni gli altri nel timore di Cristo» (Ef
5,21) e «correggete
gli indisciplinati, confortate i pusillanimi, sostenete i deboli, siate pazienti con
tutti…. Cercate sempre il bene tra voi e con tutti» (1Tes
5,14-15);
-
«non
stancatevi di fare il bene… operate il bene verso tutti,
soprattutto verso i
fratelli nella fede» (Gal
6,9-10):
-
«rivestitevi
tutti di umiltà gli uni verso gli altri» (1Pt
5,5).
Ogni
versetto va meditato con disponibilità e apertura mentale. Va cullato
nel cuore e incarnato nelle mani.
Quarta
arcata: stile di complementarità
Se
nella vita comunitaria la comunione,
la compresenza e la corresponsabilità sono «di casa», è automatico vivere lo «stupore
dell’incastro»: la meraviglia dell’essere complementari l’uno
all’altro. La comunione, la
compresenza e la corresponsabilità
bandiscono la «concorrenza» e la «competizione» ed esaltano la
reciprocità, l’integrazione, la complementarità.
Nel
sereno e libero completarsi si esperimenta la gioia di vedere le mie
idee, le mie capacità, i miei pensieri, le mie riflessioni, la mia
creatività… incastrarsi in un gioco armonico con le idee, le capacità,
i pensieri, le riflessioni, la creatività degli altri.
La
complementarità è disponibilità a completare e a farsi completare:
l’uno completa l’altro per il «bene comune».
La
complementarità non è teorica. Essa è concreta: è incontro e dialogo
nella diversità di idee e culture, di attitudini e caratteri, di
abitudini e tradizioni, di percorsi e sensibilità…
La
complementarità rifugge l’antagonismo
e cerca il contatto, lo scambio, la relazione, l’incontro, la
collaborazione.
Quinta
arcata: stile di comunicazione
L’arcata
della comunicazione è
fondamentale in una comunità religiosa: per essere davvero «fratelli
nella fede» e «nella vocazione» è necessario conoscersi e per
conoscersi è indispensabile entrare in relazione profonda con
l’altro. Quest’arcata è centrale, insieme alla prima e alla sesta.
La
comunicazione non è «a senso unico»: solo andata» o solo ritorno.
Non è semplice espressione
di qualcosa, né tanto meno pura trasmissione
di un contenuto o mero travaso d’informazioni.
È un processo dialogico che impegna in un continuo confronto-scambio.
La
comunicazione che incontra l’altro e cammina con l’altro è «a
doppio senso di marcia»: io-tu-io-tu… fino a diventare noi. Il noi si
costruisce nel feed-back, in
quell’incessante «risposta di ritorno» che viaggia ininterrottamente
tra emittente e destinatario.
Nella
comunicazione «a doppio senso di marcia» l’emittente di un messaggio
e il destinatario non sono parti isolate e distinte, ma fortemente
legate tra loro.
La
comunicazione implica
l’impegno a seguire il percorso del messaggio comunicato. Comporta
l’osservazione attenta del «modo» con cui l’altro lo accoglie.
Impegna a custodire i cambiamenti che provoca. Si è padri e madri di un
contenuto comunicato. La trasmissione,
invece, libera da ogni responsabilità: non è necessario seguire il
percorso del messaggio. Ci si sente fornitori, non genitori di un
contenuto trasmesso.
Comunicare
significa ascoltare se stessi e gli altri. Significa partecipare i
propri pensieri e accogliere quelli altrui, rivedere il percorso
compiuto, pensare e progettare insieme. La mancanza o la povertà di
comunicazione «genera di solito
un indebolimento della fraternità, per la non conoscenza del vissuto
altrui che rende estraneo il fratello e anonimo il rapporto, oltre che
creare delle vere e proprie situazioni d’isolamento e di solitudine.
In alcune comunità si lamenta la scarsa qualità della fondamentale
comunicazione dei beni spirituali: si comunica su temi e problemi
marginali, ma raramente si condivide ciò che è vitale e centrale nel
cammino di consacrazione».
Le forme della comunicazione dei doni spirituali possono essere diverse:
condivisione della Parola e dell’esperienza di Dio, discernimento
comunitario, progetto comunitario, correzione fraterna, revisione di
vita… «sono modi concreti di
porre al servizio degli altri e di far riversare nella comunità i doni
che lo Spirito abbondantemente elargisce per la sua edificazione e per
la sua missione nel mondo».
Esistono
tre livelli di comunicazione umana.
Il
primo strato è quello della comunicazione
sociale: una comunicazione poco coinvolgente, che avviene a livello
di ruoli e di funzioni (con il preside della mia scuola o con il benzinaio che mi
fa il pieno).
Il
secondo strato è quello della comunicazione
personale esterna: una comunicazione che, pur coinvolgendo
maggiormente, si ferma agli aspetti esteriori, ai bordi della propria
esistenza. È una comunicazione che non fa correre rischi perché
consente di rimanere nel generico: non si parla di sé, ma del tempo,
della politica, dello sport… Essa può avvenire con chiunque, sia con
persone con cui si condivide una forte esperienza (colleghi di lavoro,
amici, membri di comunità…) sia con persone che s’incontrano
sporadicamente (compagni occasionali di viaggi in treno o in aereo…).
È una comunicazione «scientifica» che si guarda bene dal condividere
qualcosa di sé: si parla per ore senza condividere nulla del proprio
travaglio umano, senza partecipare la benché minima emozione.
Il
terzo strato è quello della comunicazione
personale interna: una comunicazione decisamente coinvolgente e
impegnativo che parte da sé, raggiunge l’altro e ritorna a sé. È
una comunicazione che a cerchi concentrici porta l’altro dentro di sé:
si parte dalla circonferenza
della sfera intima (comunicazione di esperienze di lavoro o di
apostolato, interessi e gusti, rapporti amicali e fraterni…) fino a
raggiungere il centro, il nucleo.
Questa
comunicazione bandisce la periferia e l’unico posto occupabile è il
cuore. Nel cuore la comunicazione si fa condivisione di sentimenti ed
emozioni: comunicare ciò che si sente e si percepisce di se stessi e
degli altri. Si fa dono di ideali e principi: comunicare le priorità
esistenziali e la propria scala di valori. Si fa reciprocità:
comunicare successi e drammi, desideri e speranze, progetti e sogni…
comunicare quei lineamenti che caratterizzano la personalità, motivano
gli atteggiamenti di vita, spiegano le reazioni.
A
questa comunicazione si arriva nel tempo: non è un punto di partenza!
Attenzione al tutto e subito:
«brucia la comunicazione»! La comunicazione comunitaria e amicale ha
bisogno di tempo: è un processo, un cammino, una storia di
sedimentazione reciproca.
Attenzione
alla fretta, alla superficialità, alla disattenzione nelle relazioni
fraterne.
La
fretta si manifesta quando si
fa intuire all’altro che deve sbrigarsi a dire quello che deve dire,
perché non si ha tempo da perdere. Quando, durante un dialogo, si
guarda spesso l’orologio o si punta lo sguardo altrove. Quando si fa i
preziosi rimandando sempre a dopo e a poi. Quando si ascolta per
necessità, per abitudine, per dovere.
La
superficialità si manifesta
quando non si prende sul serio la situazione dell’altro. Quando si
ridicolizza il dramma altrui. Quando non si va al cuore dei problemi, ma
ci si ferma in periferia e ci si accomoda ai bordi. Quando si vuol «capire»,
senza varcare il campo sconfinato della com-prensione e del prendere
con sé col cuore.
La
disattenzione si manifesta
quando il pensiero sfiora appena la situazione dell’altro, non si
ferma ma continua la sua corsa verso i propri interessi, le proprie
preoccupazioni, i propri problemi. Quando si ascolta senza
coinvolgimento, senza pathos, senza sentimento. Quando ci si limita ad «udire» suoni e
voci, senza passare ad «auscultare», a scendere in profondità. Quando
le problematiche altrui non c’inchiodano alle nostre responsabilità,
non ci spingono all’azione concreta, non chiamano in causa le nostre
scelte
Bisogna
avere il coraggio della verifica: è la fretta,
la superficialità, il disinteresse
a contrassegnare la mia vita o la scelta di «stare in profondità»?
Vivo all’insegna della fretta e
in fretta o nel segno del dono del tempo? Consumo con avidità le relazioni amicali e fraterne o le assaporate
con gusto? Occupo gli affetti
o li abito dolcemente?
Nelle
comunità religiose a volte accade qualcosa di strano: si ha tempo per
tutto e per tutti, ma si ha fretta e poco tempo per i membri della
propria comunità. È facile e pericoloso camuffare la fretta e la
scarsa attenzione con gli abiti eleganti del «noi
ci conosciamo da tempo: non è necessario fermarsi a parlare, sorridere,
scherzare, dialogare…» o peggio del «noi
ci vogliamo bene, abbiamo fiducia l’uno dell’altro, condividiamo una
grande scelta… non facciamo i bambini che vogliano sempre discutere
tra noi».
È
importante impegnarsi perché all’interno delle comunità religiose si
qualifichi il dialogo e si faccia uscire sempre più la
comunicazione dai meandri dei problemi marginali.
Due
problemi vanno affrontati: la scarsa qualità
della comunicazione e l’incapacità di condividere i beni spirituali.
Alcune comunità lamentano «la
scarsa qualità della fondamentale comunicazione dei beni spirituali: si
comunica su temi e problemi marginali, ma raramente si condivide ciò
che è vitale e centrale nel cammino di consacrazione».
La
mancanza di dialogo profondo e di ascolto sincero rischia di far «condurre esistenze giustapposte o parallele, il che è ben lontano
dall’ideale di fraternità».
Le
conseguenze di un dialogo alla periferia dell’essenzialità e lungo il
perimetro delle cose che contano sono drammatiche perché l’esperienza
spirituale può acquisire connotazioni individualistiche e
«favorire la mentalità di autogestione unita all’insensibilità per
l’altro, mentre lentamente si vanno ricercando rapporti significativi
al di fuori della comunità. Il problema va affrontato esplicitamente:
con tatto e attenzione, senz’alcuna forzatura; ma anche con coraggio e
creatività, cercando forme e strumenti che possono consentire a tutti
d’imparare progressivamente a condividere, in semplicità e fraternità,
i doni dello Spirito perché diventino davvero di tutti e servano per
l’edificazione di tutti (cf 1 Cor 12,7».
Il
rischio è relegare la spiritualità a qualcosa di privato, da gestire
«a porte chiuse» nella cella della propria interiorità. Qualcosa da
confidare nel segreto della direzione spirituale o sussurrata
all’amico/a. Qualcosa che può essere «testimoniata,
magari in modo un po’ altisonante e artificioso, nell’incontro di
preghiera del gruppo o del movimento che si frequenta, con persone che
non sono i propri confratelli o consorelle, ma che sono chissà perché,
migliori di loro o con le quali, ed è facile capire il perché, è più
semplice e spontaneo questo tipo di operazione».
Amedeo
Cencini afferma che il vero problema è la mancanza di convinzione sulla
necessità di condividere i beni spirituali: questo tipo di condivisione
è ritenuta da molti facoltativa, non fattore qualificante. E così
avanzano gli «individualisti dello spirito» e i «secessionisti del
legame fraterno», cioè coloro che non credono nella necessità di
questa condivisione e che la ritengono un «sentimentalismo».
Spesso
nelle comunità religiose si sente un’espressione di questo tipo: «per
me gli altri sono tutti uguali, non c’è differenza tra un membro e
l’altro». Questa espressione è davvero pericolosa: le relazioni
amicali «dovrebbero essere
sempre “particolari”, ovvero mai generiche e anonime, ma su misura,
fin dove si può, dell’altro e della sua realtà».
Il «fino a dove si può» non va definito a
priori e per principio teorico: è l’esperienza concreta vissuta
in modo intelligente che indica il confine e pone lo stop.
Sesta
arcata: stile di condivisione
Le
due arcate della comunione e della comunicazione sono strettamente
legate all’ar-cata della condivisione.
Lo
stile della condivisione fa vivere l’avventura dello «stare con» e
allontana la tentazione di «stare tra». L’essere «tra» impoverisce
e sminuisce: «si è tra le cose e gli oggetti dove non si realizza interazioni né
reciprocità, essi sono presenti a noi ma non noi a loro. Possiamo anche
amare gli oggetti, accarezzarli, portarli a casa per vestire la nudità
della nostra abitazione, ma essi non vestono la nudità della vita; non
c’è dialogo con loro. Per quanto preziosi e affascinanti siano, noi
non viviamo con, ma solo tra gli oggetti. L’essere tra è una forma di
relazione frequente e diffusa; si vive questa relazione quando ci si
pone tra le persone come tra oggetti, con neutralità emotiva; le
persone vengono, in un certo senso, oggettivate, cosificate. La
relazione non è del tipo “io-tu”, ma del tipo “io-esso”,
“io-cosa”... Essere tra è la forma di relazione che si vive andando
per strada, nei supermercati, sui mezzi di trasporto, negli affollamenti
in genere; ma spesso anche nei condomini, negli ambienti di lavoro,
perfino nelle famiglie e nelle comunità».
L’essere
«con» è una forma relazionale che esprime comunione e partecipazione.
L’essere «tra» è indice di una relazione umana povera, provvisoria,
poco coinvolgente.
L’essere
«con» implica l’essere «per»: donare il massimo di sé per il tu e per il noi.
La
condivisione vera chiama in causa la com-passione: la passione del
cuore.
Settima
arcata: stile di com-passione
L’arcata
della compassione spinge a vivere ogni cosa con pathos:
fa vivere coinvolti nella vita e nella storia dell’altro.
La
compassione spinge a vivere con pathos
(con passione) ciò che si è, ogni cosa che si ha e tutto ciò che si
fa.
La
compassione si concretizza nell’empatia:
nella capacità di ascolto dell’altro fino a immedesimarsi
nell’altro; nella capacità di comprendere ciò che l’altro vive,
sente, prova; nella capacità di distaccarsi dal proprio
modo di vedere per immergersi nel mondo soggettivo dell’altro. È
la capacità di mettersi al posto dell’altro per vedere il mondo con i
suoi occhi. È la capacità di partecipare all’esperienza dell’altro
e di intuire il suo mondo affettivo. È la capacità di cogliere le emozioni
che l’altro ci comunica attraverso i contenuti oggettivi e il
linguaggio non-verbale.
L’empatia
non va confusa con la simpatia:
nel rapporto simpatico si è
sullo stesso piano e si gioca insieme; nel rapporto empatico
l’altro occupa un posto di primo piano, si è concentrati sull’altro
facendo tacere le proprie tendenze e le proprie preoccupazioni.
L’atteggiamento
empatico è graduale: comunicare
gradualmente all’altro quanto si sta percependo di lui, servendosi sia
del linguaggio verbale sia di quello non-verbale.
La
strada dell’empatia, la
strada del lasciarsi coinvolgere e del coinvolgere, la strada del
soffrire e del gioire «con», è la strada che costruisce la vera
comunione e l’autentica convivialità fraterna.
Il
cemento delle sette arcate
Le
arcate vanno cementate. Il cemento è l’intimità con il Signore: è
la preghiera personale e comunitaria. È lo stare davanti
al Signore e con il Signore,
è il meditare costantemente la sua Parola, è il fermarsi per vivere
momenti di deserto.
Per
costruire in modo solido nella propria vita queste sette arcate è
necessario, inoltre, coltivare le qualità umane richieste in tutte le
relazioni: educazione, gentilezza, sensibilità, sincerità, controllo
di sé, senso della misura, lealtà, apertura all’altro, delicatezza,
senso dell’umorismo, spirito di condivisione…
Le
sette arcate esigono semplicità
e profondità: una vita
fraterna sobria è una vita che fa stare «in profondità», fa
immergere nella propria e altrui vita, nella propria e altrui storia. È
una vita che non permette di stare in superficie o ai bordi!
Le
sette arcate esigono adesione
sincera alla disciplina comunitaria: un’adesione libera che rende
liberi. Non ha senso un’adesione subita. È necessaria un’adesione
che punti «al massimo» e non «al minimo indispensabile»: alla
regola. Un’adesione in grado di andare sempre un po’ più in là:
supera le cose visibili o le cose congeniali.
Le
sette arcate esigono chiarezza
e fiducia relazionale: apertura al dialogo e capacità di confronto. Non c’è
comunione, compresenza, corresponsabilità, complementarità,
comunicazione, condivisione, com-passione senza dialogo. Bisogna
verificare costantemente la quantità
e soprattutto la qualità del
dialogo nelle nostre comunità.
Le
sette arcate esigono il far festa e il gioire insieme.
Saper «fare festa insieme» significa avere la capacità di concedersi
momenti di distensione personale e comunitaria; saper prendere le
distanze dal lavoro eccessivo; saper gioire delle gioie del fratello;
avere attenzione ed essere premurosi nei confronti delle necessità dei
fratelli e delle sorelle; avere sempre fiducia nel lavoro apostolico e
nei suoi frutti; saper affrontare con misericordia e serenità le
situazioni difficili e complesse; saper andare incontro al domani con la
speranza d’incontrare sempre e comunque il Signore.
Tutto
questo si traduce concretamente in una vita piena e colma di serenità,
pace, gioia. La serenità, la pace e la gioia diventano la «forza»
dell’apostolato.
La
comunità religiosa evangelizza con la sua gioia e la gioia è la
testimonianza del suo essere evangelizzatrice. La gioia è una
conquista: il punto di arrivo di un cammino. La gioia invade tutta la
vita ed è possibile solo se sorretta costantemente dalla preghiera
personale e comunitaria: «Lieti nella speranza, forti nella tribolazione, perseveranti nella
preghiera» (Rm 12,12).
Il coraggio di vivere decisi
per…
Il
fil rouge del vivere decisi per… rappresenta
l’orizzonte in cui collocare la quotidianità della vita.
Nella
decisione per… è inclusa
la maturazione della persona: il cammino verso la maturità umana non
conosce limiti e comporta un continuo arricchimento di valori
spirituali, ma anche psicologici, culturali e sociali.
Il
cammino verso la maturità richiede, innanzi tutto, l’impegno a
trovare un buon (proprio!) equilibrio affettivo… una libertà
affettiva che non significa neutralità affettiva.
Il
consacrato ama la sua vocazione e ama secondo la sua vocazione.
Amare
la propria vocazione significa sentire che davvero la vocazione affidata
da Dio costituisce una buona ragione di vita. Significa cogliere,
percepire e vivere la propria vocazione come una realtà vera,
bella e buona che dona verità, bellezza
e bontà alla propria esistenza e che rende veri, belli e buono.
Questa
convinzione rende forti e autonomi: fa essere sicuri della propria
vocazione e libera dal bisogno di compensazioni, sia a livello affettivo
sia a livello di realizzazione personale (professionale e
apostolica…).
Questa
convinzione rafforza il vincolo del consacrato con il suo Signore, ma
ancor più rafforza il vincolo tra i consacrati, tra coloro che
condividono la stessa avventura di abbandono totale al Signore Gesù.
«Amare
la propria vocazione è amare la Chiesa, è amare il proprio Istituto e
sentire la comunità come la propria famiglia. Amare secondo la propria
vocazione è amare con lo stile di chi in ogni rapporto umano desidera
essere segno limpido dell’amore di Dio, non invade e non possiede, ma
vuole bene e vuole il bene dell’altro con la stessa benevolenza di Dio».
Note:
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