n. 3
marzo 2003

 

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Se il tuo corpo è tutto luminoso (Lc 11,36)
di Antonietta Augruso

 

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 «Se io credo fermamente che attorno a me tutto è Corpo e il Sangue del Verbo, allora per me avviene la meravigliosa Diafanità che fa obiettivamente trasparire, nella profondità di ogni fatto e di ogni elemento, il calore luminoso di una medesima Vita»1

Nella profondità di ogni corpo c’è dunque il calore luminoso della medesima Vita. Quella Vita che non ha voluto separarsi dal mio, dal tuo corpo, ma è il mio, il tuo corpo. Dove “mio e tuo” non esprimono possesso, ma qualcosa di cui ognuno è depositario e custode. Incredibile paradosso: riflettere sul corpo, quello stesso e insostituibile soggetto che ci permette in questo momento di farlo oggetto di riflessione.

Il cristianesimo è tutto fondato sul corpo che Cristo ha assunto: è la religione del Logos incarnato, della Parola che si fa uomo2. Dunque non abbiamo motivi fondati per guardare al corpo, alla sua bellezza, ma anche alla sua evidente caducità, con sospetto, sopportandolo o demonizzandolo. Il Concilio Vaticano II lo sottolinea con forza: «Non è lecito all’uomo disprezzare la vita corporale; egli è anzi tenuto a considerare buono e degno di onore il proprio corpo» (GS 14).

 

Terra e soffio

 Tra disprezzo ed esaltazione, oscillando tra questi due poli, il cristianesimo è spesso approdato a una dicotomia tra corpo e spirito. Una dicotomia che ha diverse radici: più che evidente il retaggio della metafisica greca, alla quale la tradizione non si è ridotta (dichiarando eretica la sua visione manichea), ma da cui resterà segnata. Il primato dell’anima sul corpo in una tale visione, e il suo influsso sul cristianesimo, ha quasi portato a pensare che, considerata la stretta relazione tra anima e corpo, esso metta in pericolo la salvezza, per cui la strada è la mortificazione del corpo. Non meno incisiva l’influenza della visione cartesiana, che promuove un modo disincantato, meccanico e funzionale di guardare al corpo privo di qualsiasi essenza spirituale, di ogni dimensione espressiva3 .

Ma i cristiani conoscono un altro linguaggio: quello biblico, dove il corpo è frutto di incontro dinamico tra la terra e il soffio vitale di Dio: «Terra e soffio sono indissolubilmente uniti e insieme in tensione, perchè lo Spirito ha bisogno della carne per esprimersi e la carne, il corpo, senza il soffio vitale non potrebbe trascendersi»4.

Ognuno di noi la sente viva sulla propria pelle questa realtà. Quando la sete dell’infinito si fa spazio dentro di sé, allora avverte che il proprio corpo danza con una grandezza che lo supera e straordinariamente lo abita.

I tentativi di fuga dal corpo o una sua sacralizzazione ci portano in una visione conflittuale: «Ogni affermazione esclusiva di una componente dell’essere umano a scapito dell’altra finisce per misconoscere la vera natura della persona umana e va contro la sua autentica realizzazione»5.

L’icona della Scrittura è eloquente e ci indica un percorso alternativo: «Dio vide che l’uomo era molto bello» (cf Gn 1,31). L’uomo e la donna sono nella Bibbia espressione della libertà e dell’armonia (è questo il senso della nudità vissuta senza vergogna) che vengono da Dio, e come esseri relazionali sono aperti alle cose, agli altri e all’Altro.

La loro libertà sta anche però nel poter rifiutare di vivere la relazione filiale con Dio; l’armonia iniziale è possibile in quanto Dio è Dio, e l’uomo è uomo; esiste cioè una gerarchia delle verità relazionali: Creatore e creatura si accettano con delicatezza e fiducia.

E’ vero, la vita stessa dell’uomo, il suo futuro rapporto con gli altri, sono legati a una realtà fragile e vulnerabile come il corpo, una sorta di vulnerabilità però che l’uomo può vivere meno tragicamente, nella relazione fondante con Dio, nel suo amore. Nel racconto biblico del peccato originale l’uomo tende la mano per afferrare il frutto sperando di diventare come Dio e lì si accorge di essere nudo (cf Gen 3,7,10).

Una nudità che prima esprimeva armonia e ora esprime il suo essere allo sbaraglio, fallito e illuso. La sua ricerca della verità l’ha portato “altrove”, non si sente più a suo agio: «ho avuto paura perché sono nudo» (Gen 3,10). Il peccato rende l’uomo in esilio dalla verità, ripiegato e ferito. Ciò lo rende ancor più pauroso e convinto di salvare la propria vita stringendola in un pugno. Il peccato dunque riguarda il mondo dell’amore, dunque l’uomo nella sua totalità6.

Ed è l’amore eterno di Dio che però supera la tragedia e rende possibile il re-incontro. Sarà un amore che per tutta risposta si fa corpo in Gesù di Nazaret. Un amore, personale, che va alla ricerca, e nella folla anonima sa individuare il corpo ferito e ripiegato: come successe per la donna incurvata nella adunanza della sinagoga (cf Lc 8,42-48).

 

Un tesoro in vasi di creta

 Cosa può chiedere dunque all’uomo nella sua totalità un progetto di amore incondizionato? Acrobazie ascetiche e disumanizzanti, disprezzo del corpo come possibilità di riscatto e di purificazione?

 Esistono diversità di cammini, la storia della spiritualità ci offre una molteplicità di modelli in corrispondenza con specifiche situazioni della storia, delle culture, e degli stati di vita. Dipende poi dal nostro orizzonte di comprensione, dalle paure, dalle proiezioni che ci portiamo dentro, capire quale Dio pensiamo di aver incontrato.

Quando parliamo di Dio come agape (cf 1Gv 4,8) non diamo una definizione metafisica, ma diciamo che cosa è per noi. Siamo nell’esperienza religiosa fondata sulla rivelazione biblica, dove il luogo dell’incontro con Dio non è l’uomo nell’altezza del suo desiderio, ma Dio nella condiscendenza del suo amore e l’uomo nell’obbedienza a quest’amore7.

In questa dinamica il corpo è insostituibile perché non si può invitare il cuore ad esprimersi senza di esso: se piango di gioia o di dolore le lacrime rigano il mio volto; se corro per incontrare chi amo, le mie gambe sono indispensabili. Il calore di un abbraccio, la desolazione di un abbandono, la tragedia di una malattia, nulla di questo è vivibile estraniandosi dal corpo.

Quando avverto il bisogno di pregare, il mio corpo assume posizioni diverse a seconda che sia una lode, una supplica, una richiesta o un pentimento. «Il corpo mi definisce, mi limita. E’ sempre al centro del mio orizzonte di azione e di pensiero; tuttavia percepisco che mi mette in contatto con ciò che è oltre»8.

Se il mio corpo è consumato dal dolore è esso stesso supplica, accoglienza, richiesta. Ho ascoltato il racconto di una donna che è stata vicina al padre per un pò di tempo negli ultimi mesi della sua vita. Mi ha parlato di suo padre e del suo corpo che diventava sempre più fragile, e gli occhi avevano una luce sempre più forte.

«Le sue mani sempre lunghe e affusolate, ora chiedevano tenerezza», – mi diceva - «voleva sempre che qualcuno lo abbracciasse, forse per lenire il suo dolore, o perché aveva bisogno di un amore forte, che ti fa sentire accompagnata quando stai per fare l’ultimo viaggio». Ma quello che mi ha fatto riflettere di più di questo racconto era l’insistenza della donna nel dire che questa esperienza l’aveva profondamente umanizzata, cioè maturata nell’amore, l’aveva fatta andare avanti nella scoperta del senso autentico e della verità sulla vita.

«E’ stato molto difficile vedere mio padre ridiventare bambino, ogni giorno si affidava alle nostre cure. Più di tutto era difficile accettare il suo dolore fisico, assistere alla decomposizione di parti del suo corpo. Ma era fonte di grande stupore vederlo ancora sorridere, sentirlo ringraziare per le attenzioni ricevute, e vederlo ancora tanto innamorato della vita. Mio padre», - ripeteva la donna nel suo racconto – «mi aveva fatto rileggere con occhi diversi le parole dell’apostolo Paolo, nella seconda lettera ai Corinzi. «Però noi abbiamo questo in vasi di creta. Siamo tribolati da ogni parte ma non schiacciati; siamo sconvolti ma non disperati, perseguitati ma non abbandonati; colpiti ma non uccisi, portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perchè anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo» (2Cor 4,7-10). Mio padre accompagnato, debole, accudito in tutto, mi aveva fatto approdare altrove: oltre».

C’è un “oltre “ che è già in noi e si risveglia. Perché la compassione di Dio lo ha avvolto del suo alito di vita dalle origini (cf Gen 2,7): allora camminare, per il cristiano, è anche permettere a quel soffio iniziale di diventare visibile. E’ fare esperienza di questa progressiva penetrazione del suo amore, nello Spirito santo, fino alla maturità in Cristo. «L’uomo è creato per essere divinizzato nell’amore di Dio rimanendo perfettamente uomo. L’uomo si divinizza umanizzandosi a misura di Cristo; è la Divino-umanità di Cristo l’ambito della maturazione dell’amore umano verso quello divino»9.

Un tale dinamismo è visibile anche nel corpo. Chi di noi non è rimasto affascinato dagli occhi, dal volto, dai gesti di tanta gente che ama nel silenzio e nella dedizione gli altri. Ci si sente quasi illuminati e attratti dalla luce che irradiano e ci accorgiamo che non è una luce che viene dagli ultimi prodotti pubblicizzati dai media, contro le rughe, è altro: è la tenerezza della carità, frutto di opere concrete, bagliore incorporeo ed eterno!

 

Lavorare con frutto 

Ci sono tanti momenti nel cammino dell’esistenza in cui faremmo volentieri a meno delle fatiche che la storia ci riserva. E questo più di ogni altra cosa ci sembra legato al corpo, perché è l’elemento più visibile della struttura della persona (fatta anche di Spirito e anima)10. Lo avvertiva san Paolo quando diceva: «Per me il vivere è Cristo e il morire è un guadagno» (Fil 1,21). Ma intuiva che, nonostante il travaglio, vivere nel corpo significa lavorare con frutto, e allora aggiungeva: «Non so cosa debba scegliere» (Fil 1,22). Lavorare con frutto, cioè amare in modo fecondo, vivere nella propria carne la richiesta che mi viene dall’altro e com-prenderla: prenderla con me, su di me.

 «L’agape non è incontro di pure coscienze, ma movimento che colma un’indigenza, che rimargina ferite e suscita iniziative, che sazia la fame di pane e di poesia, di compagnia e contemplazione. Proprio nel venire incontro all’altro scopro il valore della mia povertà, e l’incontro con l’altro se da una parte spezza l’immediatezza del rapporto (egocentrico) con me stesso, dall’altra mi fa da specchio, mi fa trovare in me il povero che Dio ama, il bisogno che Dio vuole colmare»11.

Andare incontro all’altro, coscienti che la sua povertà in fondo è anche la nostra, è aiutare a essere sempre più se stesso, sempre più umano. La Scrittura è esplicita: «Ama il prossimo tuo come te stesso!» (Lev 19,18; Mc 12,33). Dove certamente amare non significa mortificare l’umanità, ma semmai amarla finita, con le sue debolezze e le ferite irrisolte, ma amarla. E qui il cammino è lungo, pieno di fascino e variegato nelle infinite circostanze della vita.

Lo avvertiva Teilhard de Chardin quando, impossibilitato a celebrare l’eucarestia, nel deserto scriveva: «Il mio calice e la mia patena sono le profondità di un’anima ampiamente aperta alle forze che, tra un’istante, da tutte le parti della Terra, si eleveranno e convergeranno nello Spirito... Ad uno ad uno, o Signore, li vedo e li amo... Più confusamente, ma tutti senza eccezione, evoco coloro la cui folla anonima costituisce la massa innumerevole dei viventi»12.

Lo stesso autore parla di «simpatia irresistibile per tutto ciò che si agita nella materia oscura», per indicarci il suo amore per il mondo. Ci viene da chiederci, se un simile modo di amare non sia che un raggio della stessa misericordia visibile nell’Incarnazione, dove Incarnazione significa che Dio fa il suo ingresso nel mondo, assume la sua quotidianità. Ma Incarnazione significa pure che gli uomini incontrano Dio nel mondo13.

Un corpo per l’alleanza

 

«È facile capire che chi decide di intraprendere un cammino spirituale deve innanzi tutto aver sistemato la propria condizione materiale: tranquillità economica, amore, equilibrio, ecc.». Così si legge in un sito di un movimento, a proposito del cammino spirituale, naturalmente si tratta di qualcosa che nulla ha a che fare col Vangelo.

Lì camminare spiritualmente significa partire da una situazione di agiatezza e tranquilità economica, per raggiungere cosa? L’armonia con se stessi, con la natura, un corpo “bello” che sia visibilità di tale armonia, abbondantemente nutrito di infusi, accuratamente massaggiato a prezzi da impaurire. E tante altre cose apprezzabili, alla portata di chi può permettersele.

C’è solo un particolare da non trascurare, come dicevamo: questo non è proprio il cammino evangelico. Tristi dogmi di mercato ci parlano di un corpo “sacralizzato”, reso eternamente giovane dalle mille cure costose, dominato dalla mania di rimanere sempre in forma.

E invece l’immagine del Messia è quella di un uomo davanti al quale ci si copre il volto (cf Is 53,3), tanto il dolore lo ha sfigurato. Contemplando quel volto, allora ci rendiamo conto che il senso e il valore della corporeità vanno in un’altra direzione.

Ci fa riflettere la parabola di Matteo sul giudizio finale: il testo mette in evidenza che nella relazione con Dio è fondamentale la cura che abbiamo avuto del corpo dell’altro: «Avevo fame e mi hai dato da mangiare, avevo sete e mi hai dato da bere, ero prigioniero…» (cf Mt 25,31-46).

In quella scena grandiosa della gloria definitiva del Figlio dell’uomo, il corpo aiutato, vestito, sfamato, dissetato, la persona consolata perché vive l’isolamento della prigione, della malattia, decidono la nostra vicinanza a Dio.

Allora possiamo dire che nel cammino spirituale, il corpo - noi stessi cioè, come “persone” in senso totale - è sacramento della salvezza: infatti senza il corpo non sarebbe possibile rendere visibile la salvezza (si pensi alla bellezza e alla tangibilità dei Sacramenti). Dove salvare significa manifestare la presenza di Dio guarendo il corpo insieme al cuore e allo spirito14.

E’ evidente che il discorso del “disfarsi” del corpo per andare verso Dio, in quest’ottica si svuota (nonostante abbia radici antiche): perché non possiamo incontrare Dio, e di lui fare esperienza, a prescindere dal corpo.

E’ un periodo in cui vanno tanto di moda i corsi di meditazione, una sorta di allenamento a diventare più “leggeri” per meglio raggiungere Dio. Se da una parte sicuramente c’è il richiamo e l’esigenza di valori profondi, dall’altra c’è il rischio di convincersi che più un’esperienza è neutralizzante rispetto al corpo, più si è avanti nel cammino spirituale. E poi, magari, se mentre si fa questo corso, l’operaio che fa i lavori al palazzo del convegno bussa perché qualcuno gli apra la finestra, il relatore si infuria: «meglio sarebbe farlo cascare giù o lasciarlo fuori a soffrire il freddo anziché rovinare l’ atmosfera».

 

Aiutami, baciami, profumami 

Pensiamo invece all’episodio dell’unzione di Betania (cf Gv 12,1-8): una donna - non importa se peccatrice o meno, ma probabilmente senza inibizioni - versa un profumo, a quei tempi costosissimo, il myron, sui piedi di Gesù e li asciuga con i suoi capelli. Il Signore non acconsente alle proteste sociali di chi vede in questo gesto un’esagerata generosità, uno spreco; ma invita a riflettere sulla qualità delle relazioni personali.

Nessuno di noi è uguale a un altro, niente passa attraverso le generalizzazioni dei bisogni a cui siamo abituati. Il profumo versato totalmente (il vasetto viene “rotto”, secondo Marco 14, 3) e asciugato dai capelli di una donna sul corpo di Gesù - Lui il vero tesoro per i credenti - ci dice che i gesti di comunicazione intensa, sono parola eloquente di ciò che abita nel nostro cuore.

Il corpo di Gesù che si lascia profumare e accarezzare da questa donna ci mette davanti alla bellezza e al dramma del Dio dei cristiani, il quale divenne in tutto simile agli uomini. Un Dio che in Gesù di Nazaret ci invita non a metterci in fuga dalla storia, ma ad essere teneri con lui, e vicini ai crocifissi della storia, anche attraverso ciò che a volte può apparire superfluo e inutile, come un profumo.

L’episodio è narrato anche da Luca 7,36-50: il contesto è diverso, ma il corpo gioca un ruolo fondamentale anche in questo episodio evangelico. Lacrime, profumo, baci e capelli di una donna accarezzano i piedi del Signore per dirgli: sei colui di cui non posso fare a meno, salvami. In questo contesto del corpo del fariseo non si dice nulla, si ode solo la sua voce che insinua disprezzo e chiede spiegazioni.

A lui Gesù, tramite una parabola, gli indica la gestualità di questa donna come espressione massima del desiderio di comunione con lui, di perdono: è l’esperienza del cammino spirituale. Al fariseo falsamente pudico Egli indica la strada: «Tu non mi hai dato un bacio, lei invece da quando sono entrato non ha cessato di baciarmi i piedi» (v. 45). E aggiunge: «Per questo ti dico le sono perdonati i suoi molti peccati perché ha molto amato, invece quello a cui si perdona poco ama poco» (v. 47).

A volte la paura e l’eccessiva cura dell’apparenza giocano brutti scherzi. Siamo come quel fariseo pronti a invitare a pranzo rispettando il rituale e prendendoci cura di tutto, tranne che della persona invitata. Magari le offriamo tante specialità, ma il nostro cuore è altrove. C’è invece chi, come quella donna tanto discussa, intuisce che le mani, i capelli, le labbra mediano in modo totalizzante il desiderio di amare e di essere amati, perdonati, salvati: e si mette in cammino, col profumo in mano. E lo sparge tutto, senza calcoli, per amore.

 

La tua catena d’oro

L’immagine di una donna che si mette in cammino con un profumo in mano, simbolo di premura, di tenerezza e coraggio, è esplicativa per il nostro tema. Visibilizza l’urgenza di uscire dalla massa, per entrare in contatto personale con il Signore, un contatto diverso, originale, ardito, per essere da lui salvati e trasfigurati.

Tra lo splendore dell’eternità e l’apparente grigio delle nostre storie quotidiane, si traccia la strada dell’incontro finale. Siamo invitati a rendere visibile la divina tenerezza che Egli ha soffiato dentro di noi. «La divina tenerezza è carnale, riguarda il corpo. Non si preoccupa di esortare o spiegare. Sta nelle mani, nello sguardo, sulle labbra, l’orecchio attento, il viso, il corpo intero. Essa è presenza, è ospitalità, è parola scambiata. E’ compassione. E’ il riserbo stesso»15.

Siamo invitati a metterci in viaggio, lasciandoci dietro la volontà di vincere sempre, di umiliare, di emarginare. Lasciando che sia l’altro a scuoterci, invocando il profumo della carità, gratuito, pieno di tenerezza. Una carità che colorerà le nostre giornate cariche di impegni, spesso prive di volti, di mani, di fratelli che attendono.

Una carità che ci condurrà alla luce del giorno e alla pace della notte, come cantano questi versi di G.K. Gibran:

 

Fratello,
la bontà d’animo che ti spinge a donare
parte della tua vita
a un qualsiasi essere umano
che sta perdendo la propria vita,
è la sola virtù che ti renda degno
della luce del giorno
e della pace della notte...
Ricorda, fratello,
la moneta che deponi nella mano vizza
che si tende verso di te
è la sola catena d’oro
che unisce il tuo ricco cuore
al cuore amoroso di Dio16.

  

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