n. 5
maggio 2004

 

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La preghiera,
eco dell'inquietudine dell'uomo

di Teresa Della Croce *

 

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Una inquietudine mai placata, dimora di fango, consueta per il nostro tempo, scopre nella cenere il suo fondamento. Proteso in un andare gravido di barcollanti certezze, sazio di dubbi, a stento l’uomo si espone, come argilla, alla morsura del silenzio, alle strettoie dell’attesa per scoprire in sé la stabilità della terracotta, della maturità nello Spirito. L’ansia che gonfia il grembo di vento1 è il sintomo più evidente di questo malessere interiore a cui pochi sanno dare un nome. Rumori, luci, agitazione, smania, sofferenze come scintille planano in alto, mentre i nostri sensi si ritrovano tutti in prossimità degli scogli della frenesia della vita quotidiana. Chi non riesce a star dietro al suo lazzo e migrando da un sentire all’altro lega o separa deboli pensieri viene da essa imperiosamente respinto. È necessario trovare il coraggio di smentire una realtà fatta di apparenza, di vuoto, di barche di giunchi che non tengono la veemenza dei flutti. Urge recuperare tutto ciò che fa dell’uomo il signore del tempo e non lo schiavo di mode, di costumi, di scontate tradizioni, paglia secca spazzata via in un frangente dal vento di novità esasperate. In questo vortice di turbamento l’uomo ha paura del silenzio, paura dell’ignoto, paura di fermarsi, paura di sostare. Ha paura, paura di ciò che non è in grado di dominare, di controllare e di gestire, come l’attesa e la solitudine. Paura del non conosciuto, dell’inafferrabile che fascia la mente. Quando avverte qualcosa che lo sovrasta, cibo di tormento per ogni giorno della sua vita, per non far crescere l’ansia, insieme a farmaci di tranquillità, si protende alla ricerca di Qualcuno che sa e può dargli la pace. Si apre allora un varco sul bivio esistenziale. Può scegliere. Spesso ha inizio una ritualità esatta, fatta il più delle volte di brevi sgranate preghiere, di medaglie e immaginette, di candele accese che si sommano agli amuleti; la Bibbia a portata di mano e i segni della croce scandiscono giudizi di caligine per tutto ciò che ruota intorno a momenti di panico che afferrano senza pietà. In tal caso l’ansia, il timore, la paura, sono fruscio dell’agire giornaliero. Ma… più raramente, se tende l’orecchio, entra in contatto con il ricordo di Dio.

 

Mi sono ricordato di Dio e ho gioito

L’uomo intravede la propria debolezza, la sperimenta e impara a conoscerla. Sant’Isacco proclama costui beato2 e aggiunge: «L’uomo che è giunto a conoscere la misura della propria debolezza, è giunto alla perfezione dell’umiltà»3. È disposto all’ascolto dello shofar, che per tutti risuona, del ritorno al dialogo con Dio, del richiamo alla preghiera4, della memoria Dei.

Nell’arsura di serenità, approdati ai bacini dell’angoscia, avverte pungente la necessità di lasciarsi affascinare dall’Assoluto e di concedersi momenti di vita solitaria per ritrovare l’equilibrio interiore nella quiete, in quella tranquillità che non è più uno stato d’animo passeggero, bensì un modo di vivere, uno stato di vita, precisamente è il passare “dentro” il turbamento, l’agitazione, l’avvilimento, dentro il sentire per entrare in contatto con la ricerca appassionata di ciò che ci abita, della sola quiete: la pace in Dio. Risuona allora l’invito a sostare: «Fermatevi! e sappiate che io sono Dio» (salmo 46).

 

Sii silenzioso e avrai la quiete in qualsiasi luogo abiterai

La ricerca della quiete, dell’esichia è importante per la preghiera. I padri del deserto raccomandano il silenzio: non labbra chiuse, ma mente a riposo per non lasciarsi inondare dai rumori, dalle tante voci, dalle eco delle distrazioni. Mente solitaria, poiché solo nella solitudine è possibile che il silenzio parli e operi meraviglie. E la solitudine ha un suo luogo che è figura concreta della custodia di una dimensione interiore: la cella, la stanza più intima in cui ci si dispone all’incontro con Dio. Il ricordo di Dio costante e abituale, l’orazione hanno la loro scaturigine dal sostare assiduo nel luogo del silenzio.

Teresa di Lisieux racconta: «Da bambina andavo dietro al mio letto, in un cantuccio che potevo facilmente chiudere con una tenda e là pensavo, cercavo Dio»5. Il “vacare Deo”, il percepire la sua assenza e il cercarlo nella preghiera è in sé risposta a una chiamata, ascolto incessante e vigile che non frappone i diaframmi immobili della durezza di udito, ma schiude alla voce che ci abita nel profondo: Padre nostro6.

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L’ascolto invoca vigilanza e umiltà

Non ogni uomo calmo è umile, ma ogni uomo umile è calmo. L’uomo dei nostri tempi invece è agitato, parla fino al logorio delle parole, non comprende e non tollera l’ascolto, spazio di libertà al parlare altrui. E il suo non ascolto lo porta a usare il linguaggio degli astuti che crea conflitti, incomprensioni, ingiustizie, pensieri tormentosi, drammi profondi, ad accamparsi ai margini del suo cuore diroccato e della sua mente priva di senno, a rodersi in quell’implacabile smania che sommerge e perseguita… Appare difficile e duro raggiungere il silenzio di tutti i pensieri. La custodia del cuore richiede vigilanza e umiltà. La custodia della mente un duro esercizio. Vigilanza nel proprio territorio, perché il sentire non sommerga l’intendere né il volere, e i progetti di argilla siano fondati sulla roccia.

Umiltà per accogliersi come creta impastata di spirito, aderente alla terra, ma portata dal soffio dell’eterno su sentieri di verità. Privato di questo habitus, l’uomo sorseggia l’iniquità come acqua fresca, non trova più il suo volto e affannosamente ricerca pozzanghere in cui specchiarsi nella speranza di ritrovarsi. L’umiltà fa dell’uomo una creatura serena, che non ha bisogno di mettersi in mostra, una creatura che dà pace in quanto rappacificata con la vita e con se stessa, una creatura capace di ascolto e quindi di pronunciare parole sagge, una creatura capace di pregare.

L’umiltà fa sì che l’altro circoli tra le mie idee e vi aggiunga le sue, che entrando lasci spalancata la porta della mia stanza segreta invitandomi a vivere a cuore aperto, e io mi scopra predato e donato nel dialogo dell’amore, della preghiera, del raccontarmi e farmi raccontare da Dio, dall’uomo, nella terra della mia nudità7.

Senza umiltà la preghiera svilisce in un monologo, precipita nell’abisso delle incongruenze quotidiane e nella sclerosi della pochezza che siamo. Solo respirando l’humus del nostro peccato possiamo accostarci a Dio. Attraverso l’umiltà sperimentiamo la distanza tra noi e Lui, e dopo aver vagato a tentoni, come ubriachi barcollanti, fino all’alba, iniziamo a comprendere attraverso un dire semplice l’amore di Dio per l’uomo. Allora ci accostiamo al Mistero lasciando le nostre solitudini senza strada, le nostre veglie trascorse in un tormento privo di speranza, abbacinati dalla notte della presunzione. Ricorda Isacco di Ninive: «Quando nella preghiera ti metterai davanti a Dio il tuo pensiero diventi semplice… Dio vedendo i tuoi desideri, la purezza dei tuoi pensieri che riposano in Lui e non in te, la tua speranza fiduciosa, farà scendere in te questo potere inscrutabile e tu avrai coscienza di possederlo. La coscienza di questo potere ha permesso ad alcuni di affrontare senza paura le fiamme, ad altri di camminare sulle acque con la certezza di non affondare»8.

Questo potere straordinario, l’umiltà, è al tempo stesso origine e frutto di preghiera. Apre a Dio e all’uomo. Apre alla pro-esistenza, all’esserci per l’altro, ad offrire la speranza di un amore che sappia farsi presenza. Ciò avviene non solo con coloro che incontriamo e con cui viviamo, ma con quanti “frequentiamo” spiritualmente nel segreto della preghiera.

 

Saltem frequenter in vita

Quante volte la nostra preghiera è un lasciar sostare lo sguardo sul male del mondo, dimentichi della croce di Cristo: ci si consegna alla disperazione. Solo il non senso possiamo incontrare se, accovacciati alla sponda del male, come spettatori sprovveduti, spezziamo le reti della delusione nella pesca di una beneficenza spicciola. Dalla sponda del male non giunge altra risposta che pianto e lamento. La lontananza da Dio, la ribellione dell’intelligenza ostinata dell’uomo, la rivendicazione d’autonomia da lui, hanno solcato di male la storia degli uomini che dalle profondità di un sentire trasceso si fa «voce che grida all’uomo fino al suo ultimo respiro: oggi convèrtiti»9.

Si ha la presunzione di poter pregare per il male che ci affligge, ci schiaccia, ci divora, senza considerare la croce di Cristo, provvisti solo del nostro dolore. Se impariamo a pregare davanti al Crocifisso intravediamo l’amore di Dio per l’uomo, Cristo diventa la nostra preghiera, è il cuore della preghiera.

Impariamo a ringraziare per ogni cosa10: per il tribolare e il patire, per tutto ciò che ci accade e che accade alla sorella, al fratello, perché noi dobbiamo entrare nel regno attraverso molto soffrire11, confortati dalla fede che ci consente di vedere «le prime luci del sabato» (Lc 23,54). Memore di quelle parole: «Tuo fratello risorgerà» (Gv 11,23), l’uomo di ogni tempo potrà costruire accampamenti di amore nella fatica delle attività più ordinarie, nello svolgimento dei compiti di ogni giorno, nella santificazione della ferialità, in quella preghiera dell’oggi e dell’attesa che non ha più parole.

 

Oggi, convèrtiti (Eb 4,7)

In un mondo fatto di ombre e di silenzio, in cui le voci – una dietro l’altra – terminano la loro corsa affannosa, in quel mondo interiore che assale, carpisce e insidiosamente intrappola il pensiero in un sentire mostruoso, la bellezza dell’integrità umana non può che narrare l’invito cocente della liberazione dai ceppi di sé, per ripercorrere il sentiero dell’allontanamento e tornare alla fonte. Oggi convèrtiti. La metanoia è dono di Dio, origine e frutto delle opere della fede, prima fra tutte la preghiera.

A volte il dolore lascia segni indimenticabili che solo la frequentazione assidua della preghiera può sanare. Tornare indietro è più facile che andare avanti, perché la memoria dei fallimenti, delle angosce, delle paure è esperta di precisione. «Io mi sono schiantato sui tempi di cui ignoro l’ordine, e i miei pensieri, queste intime viscere della mia anima, sono dilaniati da molteplici tumultuosità». Esperienza di un uomo simbolo, Agostino, che ha letto il segreto di Dio sugli scogli di una vita che si è scoperta preghiera, sui sentieri della sua interiorità, dopo essersi disperso in una ricerca estranea al suo essere. È l’esperienza dell’uomo di tutti i tempi. Incredibile quest’uomo che non si finisce mai di scoprire! Mistero di pienezza e fragilità, parabola di un cammino che lo porta via da se stesso alla scoperta del suo significato. Vive, ma non può definire la sua vita, se non scrivendo pagine di storia, pagine sacre o pagine maledette, pagine che strappa e pagine che ricostruisce.

Il percorso dell’esistenza, questo ricucire oggi ciò che sembra essersi lacerato per sempre è l’avventura meravigliosa della preghiera. Restituire l’uomo a se stesso, quale compito più alto? Restituirlo alla bellezza, al bene, a ciò che è vero e non tramonta. È un cammino di ricerca in cui l’uomo chiede di non andare solo per non smarrirsi ancora, un cammino in cui l’uomo si fida di un altro uomo, fragile come lui in quanto figlio dell’uomo, Salvatore per lui in quanto Figlio di Dio: un uomo che può indicargli la strada del ritorno. Anche questo esperire è preghiera. L’orante guarda, osserva, acquisisce la capacità di vedere. È la preghiera a trasformare lo sguardo, ad aprire la coscienza alla precarietà della vita, alla pienezza della comunione con i viventi e Dio. Pensiero purificato, occhio limpido, mente desta. Colui che non si sottrae alla conversione, ma persevera nell’orazione, sa vedere Dio, sa riconoscerlo nelle Scritture, nella mensa della Parola e del Pane, in ogni cosa. «L’anima purificata dalle passioni e illuminata dalla contemplazione delle cose ultime dimora in Dio e la sua preghiera è vera»12.

 

Chi prega, somiglia a un esploratore

«Dio ha creato l’uomo come un “esploratore” (Qo 1,13) perché cammini verso la verità e nulla lasci di intentato nonostante il continuo ricatto del dubbio» (FR 21). Chiamato a valicare i limiti di una conoscenza naturale e sensoriale, attraverso la fede e le opere della fede13, l’uomo smarrito, scettico e incredulo può ritrovare la fiducia nella sua capacità di riflettere14 criticamente sui dati del reale e sul senso della vita: Chi sono? Da dove vengo? Dove vado? Perché il male? La capacità metafisica dell’uomo fa di lui un orante per sollevare lo sguardo e volare in alto verso la verità15. Motore di questo volo è la preghiera.

Per rispondere all’inquietante domanda di senso che si annida nel suo vivere, la persona umana tenta di acquisire una conoscenza profonda e realistica di sé, delle proprie potenzialità e dei propri limiti, unitamente a una certa consapevolezza della propria personalità, al fine di orientare al raggiungimento dei suoi ideali, in modo costruttivo, tutte le energie a sua disposizione16.

Attraverso la preghiera assidua, la persona si scopre orientata verso il bene assoluto, questo tendere «sorge dall’intuizione e dall’esperienza della creaturalità e dai limiti della persona che anela a trascendersi per giungere alla pienezza della propria personalità»17. La preghiera consente di assimilare progressivamente i valori, liberamente scelti, ordinati a cercare la trascendenza di sé e non la propria gratificazione, tende naturalmente al suo fine ultimo, Dio, Bene desiderabile in se stesso, degno di essere amato, cercato, Libertà infinita in cui ritrova la sua libertà di figlio nel Figlio: «Noi riceviamo da Lui, che è la norma concreta e perfetta di ogni attività morale, la libertà di compiere la volontà di Dio e di compiere il nostro destino di figli liberi del Padre»18.

Libero e fragile, aperto all’Assoluto ma tentato dal relativo, l’uomo che prega, interiorizzando i valori eterni in vista di una sempre più ricca risposta personale all’amore del Signore, assume la responsabilità della sua vita mediante scelte libere e consapevoli in risposta all’appello che Dio rivolge a ciascuno. Infatti «Dio non ha voluto creare un museo, ma un universo vivente e libero che si crea o si discrea. Ciascuno è fonte di un potere creatore, fonte di un superamento possibile, capace di mancare alla sua dignità»19.

 

Orante per vocazione

Chiamata a trascendersi, la persona umana può disperdere questa spinta vitale profonda in una orizzontalità di possesso e di appagamento immediato che la ingabbia nel recinto di risorse scontate e le preclude la possibilità di attingere forze nuove da potenzialità per lei ignote, ma pur suo patrimonio costitutivo. Eletto per vocazione a ruminare nel cuore la parola che come seme che germoglia alla contemplazione è forza invocante lo Spirito e parola con cui Dio parla alla Sua creatura, l’orante è colui, o colei, che si applica alla lettura amorosa delle Scritture. L’uomo, se, «dopo aver purificato il suo cuore, riceve la parola di Dio e dimora in essa (cfr. 2Gv 9), emette pensieri buoni, così che i comandamenti di Dio dimorano in lui»20. È la fecondità della preghiera autentica. Nel segreto di una vita in abbondanza, scandita dal ringraziamento e dalla domanda, dalla supplica fino alla contemplazione, la preghiera porta al raggiungimento della propria completezza, della maturità, all’essere ciò per cui siamo nati: uomini e donne unificati dal dono dello Spirito.

Un modello di sviluppo di una vita di preghiera che orienta l’agire può essere quello della spirale: a ogni fase si assorbono le fasi precedenti e si procede verso un più alto livello di integrazione. Un modello che esprime continuità dinamica. È un cammino “intelligente”, tracciato dalla grazia che trova disponibilità interiore e apre a una vita senza fine, il volto di Dio in noi, un’acqua viva che mormora il proprio nome proveniente dalle sorgenti pure dell’essere. Allora potremo rendere visibile il “nostro uomo”. Lo scriveva Teofilo di Antiochia nel suo dialogo con il pagano del suo tempo: «Se tu mi dici: “Mostrami il tuo Dio”, io potrei risponderti: “Mostrami il tuo uomo, e io ti mostrerò il mio Dio”»21. Il volto dell’uomo ha in sé i tratti del suo creatore. La preghiera consente di vedere con occhi luminosi il volto di Dio nei fratelli e nelle sorelle.

Il rapporto in cui ogni persona trova la pienezza del proprio essere è quello con il divino, quindi con un tu che non sia alla pari, ma che sia all’origine della sua esistenza, la fonte da cui riceversi, Colui che egli/ella prega. Non è l’alterità orizzontale l’ambito in cui la creatura trova il proprio accesso a Dio, ma quello verticale. Solo dopo aver delineato i confini della propria autonomia da Colui che lo ha creato, solo pregando, l’uomo può decifrare, nel volto del fratello e della sorella, l’immagine di Dio22.

A questo punto possiamo capire dove sia andato a nascondersi un uomo che non ha messo in opera il suo essere dominus dei propri pensieri, sentimenti, esperienze, ma ne è rimasto soggiogato, imbrigliato in una preghiera di parole, suoni e poco cuore… dove sia andato a ritrovarsi una persona che si è specchiata nella pozzanghera del possesso e della fuga da un impegno di giustizia… dove sia andato a cadere un essere umano che invece di custodire il creato, i suoi fratelli e le sue sorelle, ha tentato di espropriarli della loro dignità per sentirsi padrone.

 

Pienezza di vita

Il comandamento dell’amore, sintesi mirabile della shekinah (presenza) di Dio, realizzato in Cristo, verbum salutis, sarà sempre l’oggetto attraente della volontà dell’orante, il fascino irresistibile che lo porta al telos del suo cammino: la comunione perfetta con Dio, con i fratelli e con le sorelle. «La natura intelligente della persona umana può e deve raggiungere la perfezione. Questa, mediante la sapienza, attrae con dolcezza la mente a cercare e ad amare il vero e il bene; l’uomo che se ne nutre è condotto attraverso il visibile all’invisibile» (GS 15 ). Nella follia della croce è racchiuso il segreto del Mistero lì, dove il paradosso dell’Amore che disarma parla del Padre di misericordia, e ci conforta nel sentiero della vita per affidarci a Lui, sapendo che «restiamo nella notte, ma sotto le stelle».

Al di là di tutti gli enigmi, le incognite, le tortuosità, le curve della sorte umana nel mondo, la verità sull’uomo che Dio ha scritto nelle pagine di una storia straordinaria di salvezza si afferma nell’esperienza di un’umanità nuova, quella di Cristo, in cui ogni persona è chiamata a partecipare in pienezza alla vita di Dio (2Pt 1,4). Nell’inquietudine creativa dell’uomo, generata dalla consapevolezza del limite della temporalità, pulsa ciò che è più profondamente umano: il desiderio del ritorno alla Fonte della propria immagine, la nostalgia di ricongiungersi con Colui da cui ha ricevuto l’impronta dell’essere. Questa nostalgia è preghiera.

La persona umana è davvero un essere visitato, una dimora aperta all’ospitalità in nome di quella somiglianza con Dio che la rende capace di custodire l’autenticità della vita, diventando per le cose, gli eventi, le persone, icona di preghiera. La biografia dell’uomo è una crescita fino a quando non si identifica con la parola che Dio ha pronunciato a suo riguardo, Parola di vita che non tramonta. La persona umana resta l’ambito privilegiato per l’incontro con l’Essere.

 

…a mo’ di conclusione

L’esperienza del sonno che porta via ogni notte ci ricorda che si può andare dalla imperfezione al compimento, per essere specchi di Lui, non annullando la notte, ma riposando in essa, non più come homo dormiens, colui che non si interroga mai, che vive senza interessi, che non vuole vedere né sentire, che non si lascia toccare, che vive nella paura, superficialmente più che in profondità, e per paura quantifica preghiere, che negli eventi si confronta restando in posizione orizzontale, sonnecchiando… bensì come homo vigilans, il vero orante, colui che è sempre presente a se stesso e agli altri, al proprio lavoro e servizio, colui che responsabilmente non si esaurisce nell’immediato, ma sa misurarsi nella lunga e paziente attesa, colui che esprime il tutto che è in ogni frammento della sua vita, colui che non ha più paura di sentirsi vulnerabile, perché sa che le ferite della sua umanità possono trasformarsi in feritoie attraverso le quali la Vita giunge nel fluire del tempo, una Vita che, potendo realizzare finalmente il suo Fine, canta all’Amore con il suo «cuore piagato», avvolto in una «fiamma che consuma e non dà pena» e pur di incontrarlo definitivamente è disposta a «rompere la tela». La sofferenza non è più un peso del disordine, ma un peso ordinato, il dolce peso del limite, protetto dalla «deliziosa piaga» e sempre aperto al «dolce incontro»: «L’Amato è le montagne, le valli solitarie e ricche d’ombra… è come notte calma, molto vicina al sorger dell’aurora, musica silenziosa, solitudine sonora… Chi potrà sanarmi questo mio cuor piagato?… è fiamma che consuma e non dà pena! O Amato, al dolce incontro rompi la tela».

   

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