n. 5
maggio 2004

 

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Il volto dell'amore:
ascolta e ama!

di Mario Russotto*

 

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Uno spirito in ascolto

Nel riconoscimento la prossimità, perché alla radice della fede vi è l’ascolto e l’amore.                                 

«Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze» (Dt 6,4-5).

Questa dichiarazione, sintesi di tutta la religione ebraica, viene ampliata da Gesù con l’aggiunta di un comandamento tratto dal libro del Levitico: «Amerai il prossimo tuo come te stesso» (Mc 12, 31; cfr. Lev 19,18).

Ascoltare il Signore, cioè l’Unico per riconoscerlo come l’Unico, è la radice della nostra fede. Ogni uomo, chiunque sia, pone in qualche modo l’assoluto della propria vita da qualche parte (potenza, denaro, vanità, ambizione... l’amore, la propria vita), o anche nell’idea che egli si fa di Dio. Ma Colui che ci parla ci strappa necessariamente ai nostri dèi per chiederci, come in un comandamento che ci libera, di conoscere l’Amore generato dall’ascolto e di riconoscere Lui, YHWH-Dio, come l’Unico. Questo Dio è l’Unico che l’uomo non può darsi, l’Unico che l’uomo non si costruisce, l’Unico che è inaccessibile... se non quando nella Parola si comunica e si dona rivelando se stesso. Il primo comandamento è allora questa voce imperativa: «Ascolta!», che viene da un altrove e non dall’uomo, perché viene da Colui che l’uomo da se stesso non può nominare e dinanzi al quale non può che tacere.

L’uomo è per sua essenza uno spirito in ascolto di una possibile rivelazione di Dio, è un «uditore della Parola» (K. Rahner) che genera e alimenta la fede. E la fede nasce dall’ascolto. Ascoltare è aprire il cuore e la mente per accogliere il dono e il mistero dell’ Altro. Quand’anche la nostra ragione, la nostra cultura, la nostra esperienza, le nostre convinzioni, le nostre abitudini ci rendessero certi che Dio esiste, non per questo saremmo dispensati dall’osservanza di questo primo comandamento: «Ascolta».

 

Nel silenzio l’ascolto

L’atto fondativo dell’ascolto è il silenzio. «Abbiamo bisogno di saper ascoltare. E ascoltare vuol dire innanzi tutto tacere. Abbiamo tutti bisogno di silenzio... Dio parla nel silenzio interiore» (Paolo VI). Solo nel silenzio può nascere l’ascolto! L’ascolto: senza silenzio è semplice “audizione” di parole e suoni. Ma il silenzio senza ascolto può essere mutismo e solitudine. Il silenzio è la qualità della parola. Essa dunque deve essere sospesa nel silenzio, deve nascere dal cuore del silenzio. «Parlare significativamente può soltanto colui che sa anche tacere, altrimenti sono chiacchiere; tacere significativamente può soltanto colui che può anche parlare, altrimenti è un muto» (R. Guardini). Solo nel silenzio di ogni parola umana è possibile ascoltare la Parola vivente che dà l’essere a tutto ciò che è. Noi credenti siamo chiamati ad essere pellegrini del silenzio, pronti a captare le vibrazioni della Parola e della nostra coscienza... sempre più innamorati dell’umiltà, sorella del silenzio. La nostra anima deve essere una profonda cavità di silenzio dove la parola di Dio può riposare e risuonare: «Il Padre pronunciò una parola, che fu suo Figlio, e sempre la ripete in un eterno silenzio, perciò in silenzio essa deve essere ascoltata dall’anima» (san Giov. della Croce).

 

Nell’ascolto l’amore

Condizione indispensabile per conoscere l’altro e stabilire una relazione feconda con lui, o con lei, è l’amore fondato sull’ascolto. Se fossimo artigiani dell’ascolto, anziché maestri del dire, potremmo certamente promuovere una più profonda e fraterna relazione fra le persone: «Ascolta... Amerai il Signore... il prossimo tuo...». Il primo servizio che si deve al prossimo è quello di ascoltarlo. Come l’amore di Dio comincia con l’ascolto della sua Parola, così l’inizio dell’amore per il fratello e la sorella comincia con l’ascoltarlo/a. «E’ per amore che Dio, non solo ci dà la sua Parola, ma ci porge anche il suo orecchio. Altrettanto, è opera di Dio se siamo capaci di ascoltare il fratello, o la sorella» (D. Bonhoeffer).

«Ascolta, Israele... Tu amerai...». L’ascolto richiede fiducia in Colui che parla e attende una risposta: «O Signore, io ti amo. Non ho dubbio, sono certo che ti amo. Tu hai percosso il mio cuore con la tua parola e ti ho amato» (sant’Agostino). L’ascolto esige una apertura totale dell’uomo a Dio e una profonda disposizione di amore. Non esiste ascolto senza amore! Amare Dio e ascoltare la sua voce sono due aspetti di un’unica realtà, due diverse formulazioni dello stesso comandamento fondamentale: «Ascolta... Amerai...». Ma io non potrò mai accettare il mistero del “tu” che mi sta di fronte se non riesco a scoprire e ad accettare il mistero della mia persona, della mia individualità. Solo chi sa pronunciare in pienezza la parola “io” sarà anche capace di sussurrare la parola “tu”. Bisogna seriamente comprendere allora che la misura dell’amore per me stesso, è la misura del mio amore verso il prossimo: «Amerai il prossimo tuo come te stesso». Solo chi è capace di accettare se stesso così com’è, di ascoltarsi e perdonarsi, sarà veramente capace di ascoltare, perdonare e amare il prossimo come se stesso. Amarsi per amare è la grande sfida che la parola di Dio pone ai credenti di ogni tempo.

 

Dalla solitudine alla solidarietà relazionale

La solitudine per ri-conoscersi. - La solitudine è una caratteristica positiva dell’essere umano, anzi è, insieme alla solidarietà, cioè alla relazione con gli altri, la caratteristica fondamentale della persona. Si è persona in quanto si vive in solitudine e in solidarietà: «Ama il prossimo tuo come te stesso» (Mc 12,31; Mt 19,19; 22,39; Lc 10,27; cfr. Lv 19,18).

Per poter amare il mio prossimo io devo amare me stesso; se non ho amore per me e per la mia persona, non potrò mai amare il mio prossimo. Amore alla mia persona, però, non da intendersi in senso egologico (pensare solo a me stesso, far prevalere il mio “io” e il mio interesse sugli altri), né in senso narcisistico (ripiegarmi su me stesso... esisto solo io!); ma deve intendersi come la radice che mi spinge ad amare gli altri. Se io non conosco me stesso in profondità, non potrò mai conoscere gli altri; se non riesco a perdonare me stesso, non potrò mai essere capace di chiedere e donare perdono agli altri; se non ho fiducia in me stesso, non mi accetto e non mi comprendo, non riuscirò mai ad avere fiducia negli altri, né ad accettarli e comprenderli.

La superficialità e la crisi dei rapporti interpersonali (la crisi della vita fraterna) trovano la loro radice nella crisi della mia stessa persona. La mia slealtà, la mia sfiducia, la mia aggressività o la mia poca comprensione verso gli altri, manifestano una slealtà e una sfiducia nei miei stessi confronti.

Chi non sa dire in pienezza la parola “io” non saprà mai pronunciare la parola “tu”.

Pronunciare il “tu”, infatti, vuol dire riconoscere l’altro che mi sta davanti come un “io” con la sua identità e la sua dignità; un “io” che si pone in relazione con il mio “io” con la mia dignità e la mia identità. Quindi, io non potrò mai accettare il mistero del “tu” che mi sta di fronte se non riesco a scoprire e ad accettare il mistero della mia persona, della mia individualità. E per accettare il mio personale mistero devo essere capace di entrare in me stesso per conoscermi e ri-conoscermi, di interiorizzare nella mia coscienza quanto ascolto, quanto mi succede intorno, quanto succede in me e farne tesoro dentro di me.

Allora comprendo che la misura dell’amore per me stesso è veramente la misura del mio amore verso il prossimo. Nella misura in cui riesco ad entrare in me stesso con intelligenza affettiva e amante io scopro di essere unico/a (non c’è un altro uguale a me); inedito/a (non sono mai esistito prima in un’altra persona). Ogni persona che viene a questo mondo è veramente una ricchezza, un tesoro, qualcosa che non è mai esistito prima; ogni uomo, ogni donna, è un essere nuovo chiamato a realizzare la sua particolarità, che è l’ultima solitudine dell’essere, l’intimo mistero della persona.

La solitudine è questo scoprirsi mistero unico nella storia, scoprirsi individuo particolare, assolutamente nuovo rispetto agli altri. Solitudine è capacità di interiorizzare, di visitare e abitare la mia interiorità con uno sguardo risanante e liberante.

La solitarietà come fuga da sé. - La solitarietà, l’opposto della solitudine, è un modo di interpretare la vita e se stessi che sfocia nell’individualismo più assurdo. L’individuo vive solo e unicamente per se stesso. L’affermazione di sé, diceva Nietzsche, si fa necessariamente a spese degli altri. Il prossimo diventa un male inevitabile. Il solitario è uno che non riesce seriamente ad amarsi e ad amare.

La tentazione a cui noi spesso andiamo soggetti è la tensione fra il desiderio di fraternità e di rapporti interpersonali autentici e, per contro, la superficialità, l’incomunicabilità che ci inducono a basare i nostri rapporti sull’effimero, su ciò che passa. La comunicazione fra le persone non va al di là di qualche insignificante frase convenzionale e formale; non si sa più che cosa dire, perché si è poveri di se stessi, si è solitari, superficiali. La solitarietà è fuga da se stessi, è dimenticarsi rifugiandosi nelle cose che passano. La solitarietà è alienazione, è frattura interiore, è fuggire l’esistenza e il reale. Questi fuggitivi dell’esistenza non amano e non possono amare, perché sono sempre in cerca di se stessi, ma non si trovano perché fuggono anche da se stessi e quando cercano gli altri, lo fanno non per amare ma per rifugiarsi in loro.

Il fuggitivo è sempre un superficiale, che innalza dentro la sua coscienza delle barriere che non gli permettono di vedere in se stesso e negli altri.

La solitarietà è un lento suicidio perché nell’interiore, dove l’individuo non ritrova più se stesso, è sempre notte e sempre freddo. E noi non siamo nati per stare nella notte e per morire, ma per vivere e camminare nella luce della vita. La malattia tipica dei solitari è l’ansietà, è frutto della perdita del senso della vita, del vuoto umano, spirituale. Nietzsche diceva che chi ha un progetto valido nella vita è capace di sopportare qualsiasi cosa. Io aggiungo che la vita che ha un senso, giorno per giorno, non conoscerà mai l’ansietà interiore.

 

La solidarietà come riconoscimento relazionale

Dalle profondità del proprio essere l’uomo scopre il desiderio di relazione con gli altri. Nel prendere coscienza di sé, la persona scopre in sé due tendenze: essere se stessa - essere per gli altri. Insieme alla solitudine, per l’essere umano, diventa costitutiva la relazione, perché la persona umana è fondamentalmente un essere aperto, un essere che realizza se stesso quando si scopre nel volto del fratello o della sorella (epifania del volto, appello dell’altro che vuol essere qualcuno davanti a me e mi invita ad essere qualcuno davanti a lui).

La solidarietà, donata e ricevuta, fa risaltare maggiormente la struttura interpersonale dell’esistenza. Ricevere solidarietà determina in modo fondamentale lo sviluppo e l’equilibrio di una persona. L’essere umano, infatti, percepisce se stesso come persona, come essere buono e libero, quando un altro lo tratta come tale. Attraverso la solidarietà ricevuta, la persona prende coscienza di sé e della propria dignità umana.

La solidarietà attiva o donata implica una assunzione di responsabilità nei confronti del “tu” con il quale sono chiamato a relazionarmi; questa è via alla maturità della persona: «L’uomo non può ritrovare pienamente se stesso se non mediante il dono sincero di sé» (GS,24). Nell’assumere la responsabilità di fronte all’altro, l’io matura in umanità. Schillebeecxk diceva: «L’uomo diventa se stesso donandosi agli altri».

Per vivere la solidarietà con gli altri, io debbo vivere l’apertura-accoglienza, la capacità di aprirmi all’altro e di accoglierlo così com’è, di farlo entrare nel mio mondo, facendo entrare i suoi interessi, i suoi bisogni, le sue qualità e i suoi ideali dentro di me e facendoli pienamente miei: questa è la via della prossimità e della fraternità.

Occorre però tenere presente che nella relazione con gli altri giocano due componenti: l’opposizione e l’integrazione. Per opposizione non intendo “l’essere-contro”, ma la differenziazione. Quando entro in relazione con gli altri devo rimanere me stesso e aiutare l’altro a rimanere se stesso; diversamente si genera una “fusione” e una “assuefazione” agli altri. La persona veramente matura crea l’integrazione con gli altri, ma non l’identificazione.

Una persona matura non domina gli altri né si lascia dominare. Quando due soggetti maturi aprono la loro solitudine alla relazione e all’accoglienza, nasce l’intimità o riconoscimento fraterno. L’intimità non è né “io” né “tu”; è qualcosa dell’uno e dell’altro insieme. L’intimità unisce eliminando l’indifferenza, ma lascia differenti. L’intimità è in un certo senso la “figlia” della fraternità e, nello stesso tempo, ne è la “madre” perché genera fraternità.

 

Le regioni del non riconoscimento

Ho voluto fare questa lunga introduzione per focalizzare alcuni aspetti che ritengo importanti per il tema che stiamo trattando. Ci sarà più facile ora addentrarci nella Scrittura per cogliere, attraverso alcune icone bibliche, da una parte gli ostacoli e le distanze nel riconoscere l’altro e vivere la prossimità e la fraternità; dall’altra parte possiamo evidenziare alcuni sentieri percorribili di riconoscimento e prossimità. Ovviamente, non mi è possibile in questo articolo attraversare l’intera Scrittura, pertanto mi limiterò ad offrire alcune suggestioni alla luce dei testi biblici.

 Caino e Abele (Gen 4,1-16) o il dramma della fraternità: non riconoscimento della diversità

 L’interpretazione classica di questo brano presenta Caino come il cattivo e Abele il buono, perché Caino offre frutti cattivi al Signore, mentre Abele offre i primogeniti del suo gregge.

Questa interpretazione data dai rabbini, la ritroviamo anche in 1Gv 3,11ss., in cui l’autore parla del comandamento dell’amore fraterno contrapponendolo al gesto di Caino: «Questo è il messaggio che avete udito fin da principio: che ci amiamo gli uni gli altri. Non come Caino che era dal maligno e uccise suo fratello, perché le sue opere erano malvagie, mentre quelle di suo fratello erano giuste». I Giudei davano questa interpretazione dell’episodio, perché il problema in questo dramma della fraternità è Dio, e per scusarlo dicono che Caino era cattivo.

 La struttura del brano. - La fraternità di Caino e Abele viene presentata nel nostro testo come un problema a cui si deve dare una soluzione: Caino cerca di risolvere il problema uccidendo il fratello. La fraternità si presenta fin dall’inizio come un problema, perché la fraternità presenta la differenziazione.

Nel nostro caso abbiamo:

una differenza di età: Caino è più grande di Abele;

una differenza di cultura: Caino è agricoltore, Abele pastore;

una differenza di culto: Caino offre i frutti della terra, Abele i primogeniti del gregge;

una differenza nell’accoglienza divina: Dio accoglie l’offerta di Abele, ma non accoglie l’offerta di Caino.

Dio fa delle differenze fra questi due fratelli. Dinanzi a Dio noi non siamo uguali, e di questo dobbiamo convincerci. Questo però non significa che Dio non ama tutti gli uomini allo stesso modo, ma Dio ci ama secondo le nostre particolarità e specificità.

Caino nota un trattamento diverso da parte di Dio e allora vuole risolvere il problema della differenza uccidendo il fratello: se non ci sarà il fratello, non ci saranno differenze e Dio amerà solo Caino. Questo tentativo di Caino si risolve, però, in un fallimento, perché Dio lo accusa e lo castiga. La fraternità è sempre stata e sempre sarà un problema. Perché l’altro, per il semplice fatto che esiste, mi crea un problema, limita il mio spazio vitale, limita la mia libertà; mi costringe infine a scegliere fra queste due soluzioni: ignorarlo o entrare in relazione con lui. Per entrare in relazione con l’altro dobbiamo avere un linguaggio e una intesa comune, ma anche qualcosa da dire.

Dentro il testo, secondo me, Caino non era cattivo, il suo stesso nome in ebraico significa: “dono di Dio”, tant’è vero che Eva appena lo partorisce dice: «Ho acquistato un uomo dal Signore». Quindi Caino è il dono di Dio alla prima coppia umana. Il secondo figlio di Eva si chiama Abele (in ebraico Hebel = “alito”, “vuoto”, cioè qualche cosa senza consistenza). Il primo figlio allarga la famiglia verso una nuova generazione, il secondo instaura la fraternità. Abele nasce come fratello e, nascendo, fa di Caino un fratello. Attraverso Abele, Caino inizia ad essere fratello.

E’ il carattere primordiale del fatto. Il breve racconto impiega la parola «fratello» sette volte, indicando con il numero il tema centrale. La posizione centrale è occupata da: «Dov’è Abele, tuo fratello?». E’ l’ultima volta, la settima, che ricorre il nome Abele.

Le differenze di età, di cultura e di culto sono intrinseche alla natura dei due fratelli; mentre la differenza nell’accoglienza divina delle offerte riguarda Dio: è Dio che pone queste differenze nel diverso modo di gradire le offerte. Il testo ebraico di per sé dice: «Il Signore preferì Abele e la sua offerta, ma non Caino e la sua offerta». Il verbo ebraico che qui traduciamo con “preferire” si può tradurre “amare con amore di predilezione”. Dio ha amato con amore di predilezione Abele ma non Caino. Questo non vuol dire che Dio non amava Caino.

La pluralità nasce dalla fraternità, che è principio di varietà fra gli uomini. In ultima istanza tale varietà risale al piano di Dio e occorre accettarla senza esigere ragioni o chiedere conto. E’ quello che non seppe fare Caino. E se insistiamo nella domanda, «perché Dio preferisce Abele?», forse bisogna addurre una costante che Dio applica con libertà: Dio lo preferisce perché è il minore. Come fu anche per Giacobbe, Giuseppe, Davide. Questa è proprio una ragione biblica, anche se va contro molte ragioni umane. E Dio ha voluto stabilirla e manifestarla già nelle origini.

Caino non lo accetta e da qui vengono tutti i suoi mali. Il figlio maggiore è lui, ha un nome più illustre del fratello, è succeduto nell’ufficio a suo padre, è nato con l’aiuto del Signore: perché deve essere dimenticato o posposto al fratello minore? Nella cultura di Israele, i diritti del primogenito sono sacri. Dio però sta al di sopra e sembra talvolta compiacersi di stabilirli per poi infrangerli. Il dramma della fratemità in Caino è non accettare la differenza fra lui e il fratello anche nei confronti di Dio, e così tenta delle soluzioni sue per risolvere il problema.

Quando noi cerchiamo di risolvere i problemi della fraternità con soluzioni umane, senza fare riferimento a Dio, falliamo.

Caino sperimenta sentimenti nuovi che non comprende; non ne valuta la portata e pericolosità. E cammina a testa bassa. Il narratore non analizza sentimenti, registra un gesto. «Il Misericordioso invita Caino alla misericordia, a rendersi consapevole, lo invita ad entrare in sé, perché si renda conto di ciò che sta pensando, se è bene o male» (Ruperto di Deutz). E’ un oracolo per far rientrare in sé, quando c’è ancora tempo. Dio dimostra che non ha rifiutato Caino, anzi dedica più attenzione a lui che ad Abele. Dio ha un amore di predilezione per Abele, ma non parla mai con Abele, tutta la sua preoccupazione e attenzione è per Caino.

Questo ci fa vedere che Dio ama Caino, anche se predilige Abele. Caino è il primogenito nella preoccupazione divina.

«Perché sei adirato? Perché cammini a testa bassa?». La domanda di Dio sveglia la coscienza riflessa, produce una distanza dell’uomo dal suo mondo affettivo, amorfo o confuso. E’ una esigenza di lucidità. Caino non deve lasciarsi travolgere dal turbine del sentimento. Se l’uomo non si interroga, Dio stesso lo interroga, ed essere interpellati è un dono prezioso. «Il peccato ti brama», ha intenzioni aggressive. L’espressione ebraica riproduce la frase Gen 3,16 che esprime la brama o il desiderio sessuale della donna per l’uomo. Lo stesso termine, teshuqah, viene applicato da Ct 7,11 al desiderio dell’uomo per la donna. Si tratta quindi di una poderosa tendenza vitale: una brama di possesso, quasi di identificazione. Possiamo tradurre: «passione». Tuttavia l’uomo può e deve dominarla. Nella descrizione del peccato, una persona si divide immaginariamente in due esseri: la tendenza violenta di peccato e il dominio cosciente dell’uomo. Il peccato aveva portato l’uomo e la donna ad una frattura, a spezzare la solidarietà. La tentazione è questa brama che vuole impossessarsi di Caino il quale, tuttavia, ha la forza per poterla dominare.

Chi deve dominare nelle nostre relazioni fraterne? La passione che cerca di dividerci, oppure il senso umano della fraternità? L’uomo può dominare queste cose, egli ha la vocazione ad essere “signore”; tante volte però diventa schiavo di queste “tentazioni” che rompono la fraternità.

Caino non accetta questa istruzione di Dio, respinge la parola del Signore, non la fa entrare nel suo cuore, può dominare e non vuole e allora «alzò la mano e uccise Abele». E’ la prima morte dell’umanità e, se tutti gli uomini sono fratelli, ogni omicidio è un fratricidio. L’omicidio nasce dall’odio che può manifestarsi anche in una comunità religiosa in forma di rancore, antipatia, disinteresse per l’altro. L’omicidio è nel non accettare il posto che mi compete nella comunità e davanti a Dio; nel non gradire il posto e la funzione di chi mi sta vicino.

Caino vive in noi. - Sette volte ricorre la parola “fratello”; sette è il numero di Dio. La vita umana è tutta una fraternità ed è il progetto di Dio sull’umanità. “Abele” ricorre sette volte. Dio ha preferenza per ogni persona che è come Abele: Dio sceglie il minore, il più piccolo, il più debole. “Caino” ricorre dodici volte: è il numero delle tribù d’Israele e indica tutto il popolo. Tutti in Israele e in ogni comunità possono essere Caino. Chiunque può rifare, anche solo per un giorno, l’esperienza di Caino, se si lascia prendere da questa brama d’invidia, gelosia, rancore, antipatia, non accettando il fratello o la sorella così come sono, non accettando la differenziazione e la pluralità nella comunità.

Chi crea un dramma nella comunità abiterà, come Caino, nel «paese di Not», che in ebraico vuol dire “errante”. Caino diventa un errante, un isolato, senza patria. Quando noi creiamo drammi nella fraternità, perché non accettiamo l’altro/a e le differenze dell’altro/a, diventiamo senza radici, perdiamo il senso della vita, ci sentiamo vuoti e senza patria.

Pensate che tragedia, per un contadino come Caino, essere senza terra. Pensate che tragedia per una religiosa, che ha fatto di Dio il tutto della sua vita, essere senza Dio quando crea drammi nella comunità. La nostra terra è Dio, ma se noi rompiamo la fraternità, siamo senza terra, senza Dio!

(Continua…)

* Vescovo di Caltanissetta: biblista e saggista.

   

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