n. 6
giugno 2003

 

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Il mobbing: che cosa, dove e perché
di Anna Bissi

 

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Mobbing è un termine di uso sempre più frequente, che non troverete tuttavia sul vostro dizionario d’inglese, soprattutto se esso risale ai tempi della scuola. Il vocabolario potrà però esservi ugualmente utile per comprenderne il significato, se cercherete la traduzione della voce che a esso più si avvicina: il verbo to mob, che vuol dire assalire, malmenare. Con il termine mobbing, infatti, ci si riferisce sempre a un’azione aggressiva, perpetrata sul luogo del lavoro, che favorisce nella vittima una reazione regressiva. Essa si manifesta all’inizio attraverso la presenza di blandi sintomi psicosomatici, per passare poi all’aggravamento di tale sintomatologia e alla decisione di lasciare il lavoro o alla perdita del lavoro stesso a causa di comportamenti poco produttivi, che dal mobbing stesso sono provocati. Harald Hege, studioso di psicologia del lavoro, lo definisce come «una forma di terrore psicologico sul posto di lavoro, esercitata attraverso comportamenti aggressivi o vessatori ripetuti, da parte di colleghi o superiori»1. In modo meno tecnico, ma altrettanto chiaro, Enrico Bertolino lo descrive come «la classica vigliaccata»2.

  

Che cosa non è il mobbing

 La lingua inglese ci aiuta ulteriormente a comprendere tale termine, se lo distinguiamo rispetto ad altri due vocaboli, sempre di origine anglosassone, attualmente di uso molto corrente: stress e burn out.

Il mobbing si differenzia innanzi tutto dallo stress, termine ormai familiare al vocabolario italiano, la cui traduzione sarebbe tuttavia possibile facendo ricorso a parole quali pressione, fatica psichica, tensione. Ciò che li distingue è innanzi tutto il fatto che il primo si manifesta in un contesto ben definito e limitato, l’ambiente di lavoro, mentre il secondo può riguardare ogni ambito della vita di una persona.

L’elemento maggiormente diversificante le due esperienze è però il tipo di relazione che s’instaura con gli altri: mentre il mobbing comporta sempre un rapporto di tipo aggressivo nei confronti della persona che ne è vittima, lo stress non nasce necessariamente da una relazione interpersonale conflittuale. Si tratta piuttosto di un’esperienza proveniente dall’intimo della persona, dal suo mondo interiore e che si riflette sul suo modo di porsi nei confronti della realtà, degli altri, delle cose. Lo stress è frutto di una civiltà basata sulla produzione, sul mercato, che favorisce la competitività, il successo, la ricerca dell’immagine; esso dipende però anche dal modo in cui il soggetto si mette in contatto con queste proposte, da come le accoglie, le fa sue, le assume.

 Siamo stressati perché il traffico è caotico, la gente maleducata, gli impegni pressanti, le richieste degli altri sempre più esigenti, la vita sempre meno sicura. Lo siamo però anche a causa delle nostre ambizioni, delle abitudini sbagliate che ci portano a far tardi la sera davanti al televisore per poi lamentarci di essere stanchi; lo siamo per l’importanza che attribuiamo alle apparenze, all’immagine, per le fatiche a coinvolgerci in rapporti interpersonali profondi.

Lo stress che viviamo, di conseguenza, è effetto di una società che ha favorito al massimo il senso di minaccia e il fermarsi all’effimero e al superficiale, ma è anche conseguenza del nostro stile di vita. Noi, infatti, siamo contemporaneamente vittime e fautori di stress, in base alla nostra maggiore o minore capacità di prendere le distanze dal mondo in cui viviamo, di non lasciarci fagocitare da nervosismi inutili e preoccupazioni banali. La tensione, infatti, è sempre provocata dall’esterno, ma per condizionarci deve trovare posto nell’interno. Sta a noi, di conseguenza, l’impegno ad accogliere o rifiutare stati d’animo, quali la paura e l’ansia, che possono essere osservati con sano distacco o invece incentivati da un’eccessiva attenzione alla nostra dimensione emotiva.

 Inoltre il mobbing è diverso rispetto al burn out, benché anche quest’ultimo riguardi l’ambiente di lavoro. Pure in questo caso, come era già stato affermato a proposito dello stress, la differenza sta nella relazione con gli altri che, per quanto concerne il burn out, non è vessatoria o aggressiva. Volendo usare una terminologia psicologica, potremmo affermare che le motivazioni del burn out e dello stress sono di tipo intrapsichico, in quanto trovano le proprie origini all’interno della persona confrontata con situazioni esterne particolarmente faticose, mentre quelle del mobbing sono di ordine interpersonale; è la relazione, infatti, ad essere “malata” e a provocare, come conseguenza, una tensione interiore. Il burn out, infatti, è una forma specifica di stress collegata al lavoro, la cui origine è dovuta a un sovraccarico di richieste e di tensioni, di fronte alle quali l’operatore non può più reggere. Tale stato emotivo ha in genere un duplice effetto: l’impoverimento delle capacità relazionali dell’operatore nei confronti di coloro a cui deve offrire delle prestazioni e la riduzione delle sue abilità lavorative, con conseguente diminuzione della realizzazione personale.

Il burn out rappresenta dunque l’effetto di una sorta di sbilanciamento fra ciò che viene richiesto al lavoratore e le sue competenze/possibilità personali. Per tale motivo esso non si manifesta solo in persone sottoposte a un eccessivo carico lavorativo, ma anche in professionisti e operatori che, a causa della loro attività, sono costantemente in contatto con situazioni particolarmente ansiogene: pensiamo, per esempio, all’educatore che opera con ragazzi maltrattati, violentati, al medico la cui attività si svolge con malati terminali, allo psicologo che deve sostenere quotidianamente il peso dell’angoscia dei suoi pazienti. L’ansia sopportata dal lavoratore affetto da burn out è dunque sempre eccessiva, per quantità o per qualità, e i sentimenti da lui sentiti sono una sorta di campanello d’allarme, orientato ad indicare che il carico della tensione a cui è soggetto rischia di essere davvero sproporzionato.

 A differenza del burn-out, il mobbing non impone sulle spalle di chi ne è soggetto un carico di ansia eccessivo, ma una quantità massiccia di aggressività da parte degli altri; essa poi, in un secondo tempo, diventa naturalmente fonte di tensione e profonda inquietudine. Il soggetto, infatti, si scopre poco per volta bersagliato, da parte di superiori o di colleghi, da attacchi tendenti a ferire la sua stima personale, a farlo sentire inadatto al lavoro che sta compiendo o addirittura incapace di affrontare la vita. Tali aggressioni spesso assumono la forma dell’umiliazione, tanto più dolorosa quanto più essa comporta il venire esposto nella propria fragilità di fronte allo sguardo altrui, sia dei colleghi sia di persone estranee all’ambiente di lavoro.

Colui o colei che potremmo definire come “vittima” si trova così a vivere, quasi senza accorgersene, ciò che in psicologia è considerato come un fenomeno regressivo; poco per volta “ritorna indietro” nel suo modo di comportarsi e reagire: assume atteggiamenti poco maturi, prova emozioni infantili, si sente solo, sperduto, bisognoso di appoggio, di aiuto e dubbioso riguardo alla possibilità di poterlo mai trovare. Tale stato d’animo inoltre non si limita ad interessare la sola zona psichica; esso influisce anche sul corpo, provocando prima blande sensazioni di affaticamento, poi sintomi più percepibili, quali il mal di stomaco o l’insonnia.

Poco per volta questi stati d’animo si allargano a macchia d’olio: non riguardano più il solo ambiente di lavoro, ma invadono tutta l’esperienza della persona, la sua vita privata, le relazioni con coloro che hanno un ruolo significativo nella sua esistenza e a cui si aggrappa per avere aiuto, ma con cui spesso si sente sola, se non abbandonata. Anche il suo corpo finisce per essere in balia di tale situazione; i sintomi psicosomatici aumentano e favoriscono una sorta di circolo vizioso: il soggetto incomincia a stare davvero male e ciò implica assenze dal lavoro, che però vengono spesso lette, soprattutto dagli autori del mobbing, come conferme della sua inadeguatezza, segni tangibili del suo limite e della conseguente necessità di prendere decisioni a suo carico.

 Il complicato intreccio di relazioni che caratterizza il mobbing ricorda molto da vicino la dinamica del capro espiatorio, studiata con attenzione in ambito sociologico e spesso applicata alle relazioni familiari e di gruppo. Anche in questo caso, infatti, ci troviamo di fronte a un numero ben definito di personaggi che compiono una serie di atti facilmente prevedibili: da una parte collochiamo l’aggressore o accusatore, spesso accompagnato da un insieme di alleati, il cui fine è l’aggressione della vittima identificata; dall’altra parte troviamo la già citata vittima: il soggetto prescelto per essere sottoposto all’attacco. Accanto a lui individuiamo spesso la figura di un possibile salvatore, anch’egli attorniato da altri alleati; il loro scopo dovrebbe essere quello di soccorrere l’aggredito, ma essi finiscono sovente per rafforzare tale dinamica, proprio perché più concentrati nel proprio ruolo di difensori che nell’intento di salvaguardare il benessere e la dignità dell’altro.

  

Le possibili motivazioni del mobbing

 Alla base del mobbing riscontriamo motivazioni diverse rispetto a quelle che inducono a mettere in atto la strategia del capro espiatorio. In questo secondo caso, proprio come avveniva nel rito antico, l’origine è in genere sempre la stessa e consiste nella necessità di individuare un componente del gruppo su cui riversare la colpa di tutti i problemi, onde salvaguardare il resto dei membri.

Per quanto invece concerne il mobbing, possiamo risalire a cause diverse, che ci sembra possibile suddividere in tre grandi categorie: una motivazione che potremmo definire strategica, più collegata ai vantaggi economici, personali o della ditta o azienda, che colui che mette in atto tali tecniche si illude di poter ottenere. Una seconda causa può essere definita psicologica: essa prescinde dai possibili guadagni effettivi, ma è scatenata da dinamiche personali, che finiscono per riversarsi su di un’altra persona, quali la competizione, l’invidia, la gelosia, il desiderio di vendetta, ecco alcune dei possibili moventi. Infine, l’ultima e forse più drammatica motivazione, è il gioco: in questo caso il mobbing sembra apparentemente non avere alcuna motivazione reale; di fatto, però, essa esiste, nascosta nelle pieghe più intime e spesso sconosciute della personalità che mette in atto tale tecnica. 

Nel caso della soluzione strategica, colui o colei che è vittima del mobbing è spesso una personalità passiva, inefficiente, lenta nello svolgere i suoi compiti o inadatta all’incarico che le è stato affidato; altre volte si tratta di qualcuno che ha operato scelte pericolose per l’azienda o la ditta in cui lavora. Bertolino3 porta ad esempio la storia, avvenuta parecchi anni fa, di una funzionaria di banca che aveva avuto una relazione extraconiugale con un cliente; non potendo licenziarla, i superiori le crearono un fantomatico ufficio “studi e ricerche”, dove ella passava il tempo, tutto il giorno da sola, non facendo nulla e senza alcun contatto con l’esterno, circondata dal silenzio o dal sospetto dei colleghi.

La vittima del mobbing è sempre qualcuno che si vuole far fuori, benché non si sappia o non si possa mettere in atto tale decisione in modo esplicito e diretto: tale tecnica sopperisce così a questa impossibilità e offre dei metodi più subdoli e nascosti, che tendono a logorare la persona presa di mira e a renderla instabile, fino al punto da indurre in lei la reazione desiderata o di offrire motivazioni legittime per il suo allontanamento o licenziamento. Il mobbing, infatti, è una sorta di sottile e nascosta persecuzione e, di conseguenza, non può che provocare nell’altro insicurezza, impotenza e impressione di essere preso di mira con conseguenti reazioni, che avranno come effetto il tipico circolo vizioso evidenziato in precedenza. Esso è frutto della società contemporanea competitiva e aggressiva, dove lo stile di vita ricorda molto più da vicino l’esistenza all’interno di una giungla che la convivialità serena di una società civile.

 Il mobbing dovuto a cause psicologiche è invece vecchio quanto il mondo poiché, come ci illustra il racconto della Genesi a proposito di Caino e Abele, nel cuore dell’uomo crescono invidia, gelosia, sentimenti vendicativi, di rivalità che creano relazioni malsane e spesso anche distruttive. In questo caso la tecnica del mobbing non ha alcuna motivazione vantaggiosa dal punto di vista economico o, se ce l’ha, si tratta piuttosto di un effetto collaterale, non ricercato in modo diretto. Il vero motivo, spesso sconosciuto alla persona che lo mette in atto, è quello di ostacolare la realizzazione, se non distruggere la dignità, di una persona nei confronti della quale si vive un rapporto problematico, competitivo o negativo.

 Benché il mobbing si attui sul luogo del lavoro, all’origine può avere cause che prescindono totalmente da questa dimensione. Si pensi, per esempio, alla donna che vive perennemente dei rapporti aggressivi e distruttivi nei confronti degli uomini; sul lavoro si sentirà portata a distruggere la reputazione e la stima di quelli con cui deve collaborare, soprattutto se meno competenti di lei o in minoranza numerica. Penso, per esempio, ad una storia ascoltata di recente. In un gruppo di operatori sociali arriva una nuova educatrice, che si lega strettamente a un collega: li si vede spesso insieme, collaborano nelle attività da organizzare per i ragazzi, fanno proposte simili e lei appoggia calorosamente tutte le iniziative da lui suggerite. Dopo un po’ di tempo le cose sembrano però cambiare: si inizia con la critica a proposito delle scelte pedagogiche dell’operatore stesso, poi con la creazione di una solida rete di alleanze, tanto che l’uomo si trova contro non solo una, ma quattro colleghe. L’ultima tappa consisterà prima nelle insinuazioni e poi nelle accuse esplicite, tendenti non solo a svalutare la persona, ma anche a denigrarla, fino al punto di accusarlo di abuso nei confronti degli adolescenti da lui accuditi. In questo caso solo l’intervento dello psicologo, capace di individuare in modo chiaro le motivazioni distruttive di colei che attua il mobbing, sarà in grado di riequilibrare le dinamiche tra operatori ed eliminare la tensione, che rendeva invivibile l’ambiente e inefficace ogni tentativo di collaborazione nel gruppo.

 La terza motivazione alla base del mobbing è forse la più drammatica, poiché all’origine delle vessazioni e angherie subite dal soggetto sembra all’apparenza non esistere alcun motivo. Esso è attuato per gioco, da uno o più “persecutori”, che prendono di mira un collega per il puro “divertimento” di vederlo soffrire. In realtà, dietro alla giustificazione definita con il nome di “gioco”, è possibile individuare complesse motivazioni psicologiche, che denotano disturbi seri, benché nascosti. In questi casi, colui che attua il mobbing è spesso una personalità narcisista, incapace di empatizzare con gli altri e spinta da desideri distruttivi; si tratta di un soggetto apatico, che cerca di uscire dal buio, dalla noia o dall’infelicità creandosi forti illusioni. Sovente si tratta di una persona che ha una doppia vita: impiegato apparentemente perfetto per cinque giorni alla settimana, frequentatore di discoteche, dedito all’alcool e alla droga, di notte o durante il week-end. Nei giorni feriali, per sopravvivere alla noia del lavoro, si crea un “diversivo”: esso consiste nell’individuare una possibile vittima e angariarla, nel drammatico tentativo di crearsi una “eccitazione per i giorni lavorativi” attraverso la visione della sofferenza di un suo simile. Anche questo tipo di mobbing è frutto della società contemporanea che, attraverso l’ipervalutazione dell’immagine, la forte competitività, la ricerca delle sensazioni piacevoli e il culto dell’io, tende a favorire lo sviluppo di personalità narcisiste, incapaci di rapporti empatici e di reciprocità.

 

Contesti, effetti e terapie

 Il mobbing può verificarsi in ogni tipo di contesto lavorativo. Cadremmo in errore se pensassimo che esso è messo in atto solo là dove esiste una forte competizione legata a criteri di produttività, come nelle aziende o nelle banche. Esistono infatti altri ambienti dove esso è praticato, anche se meno riconosciuto. Ci riferiamo in particolare alle strutture educative, come la scuola, e a quelle sociosanitarie: servizi ospedalieri, comunità, luoghi di assistenza sociale. Anche in questi contesti, dove è richiesta una fitta rete di relazione e rapporti di collaborazione, esso può essere messo in atto, creando effetti negativi non solo sulla vittima designata, ma anche sui destinatari delle prestazioni: gli allievi della scuola, i malati a cui si presta servizio, i bambini e gli adolescenti delle comunità alloggio o dei centri di aggregazione.

Non si può infatti auspicare che il mobbing pervenga talora a un risultato positivo: le sue vittime sono invece sempre numerose; chi ne fa le spese, infatti, non è solo il soggetto designato, ma anche gli utenti del servizio e l’azienda stessa dove esso si verifica, la quale si trova a dover stipendiare due lavoratori che diventano improvvisamente meno produttivi. Non solo il capro espiatorio, vessato dal collega, si trova improvvisamente incapace di essere efficace come un tempo, ma anche il suo persecutore, spesso fortemente distratto dall’attuazione delle sue strategie vessatorie e vendicative, finisce per essere meno efficiente e adeguato rispetto al passato.

 Per evitare danni è dunque bene ricorrere alle terapie opportune. La vittima del mobbing dovrà prima di tutto essere aiutata ad affrontare meglio i soprusi subiti e a reagire adeguatamente. Invece di assoggettarsi passivamente alle angherie del suo oppressore, potrà rivolgersi ad una persona specializzata, preferibilmente uno psicologo; per mezzo dell’aiuto offerto, saprà rendersi conto delle emozioni vissute e imparare a gestirle e sarà in grado di individuare dentro di sé le possibili aree di forza, utili per affrontare il nemico invece di soccombere in modo inerte.

 Anche la struttura in cui il mobbing si verifica potrà trarre vantaggio dal ricorso allo psicologo, il quale aiuterà i diversi membri che in essa operano non solo a conoscere i loro diritti, ma anche a scoprire e attuare strategie di collaborazione, capaci di creare un’atmosfera vivibile, basata su relazioni interpersonali corrette.

Ogni comunità umana, infatti, è paragonabile a un corpo, in cui il dolore o il malessere di ogni membro dolente procura sofferenza alla totalità. L’Evangelo ci rivela che il grande desiderio di Gesù per gli uomini, suoi fratelli, è quello dell’unità e che ogni attacco a questo valore non ferisce solo il singolo, ma si ripercuote su tutti. Anche la triste esperienza del mobbing conferma che siamo fatti per diventare una cosa sola e che là dove questa “legge” spirituale e psicologica non è attuata, l’uomo è destinato a vivere una sofferenza, che non potrà mai essere limitata al singolo, ma si ripercuoterà necessariamente su molti. Dove invece si moltiplicano gli sforzi per cercare il superamento dei conflitti e la collaborazione, la serenità che tali intenti provoca nelle persone avrà come effetto collaterale una maggiore soddisfazione nell’esperienza lavorativa e una più grande capacità di affrontare e sopportare le dimensioni frustranti dell’attività svolta.

   

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