n. 6
giugno 2003

 

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La sobrietà come stile di vita
di Antonio Nanni

 

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1. Uno stile di vita

 L’espressione “stile di vita” è frequentemente utilizzata per riferirsi a ciò che caratterizza in via permanente e in profondità il modo di vivere di un soggetto. Lo stile di vita è il risultato di una stretta connessione tra il mondo individuale e la sfera sociale. Ogni uomo, ogni persona, interagisce con la società in cui vive. A volte ne riproduce abitudinariamente i comportamenti, altre volte ne crea di nuovi. Lo stile di vita non si improvvisa, non è fatto di episodi. È lo specchio visibile di un’etica personale, di un’antropologia. È la saldatura di tre elementi: una spiritualità (come sorgente di senso), un’opzione fondamentale (come finalità che orienta), una prassi quotidiana (come concretezza di azioni).

Ma normalmente nella nostra esistenza quotidiana non si registra questa saldatura tra le parti. Ci accorgiamo, invece, che le esperienze di vita diventano sempre più frammentate e dispersive: esperienze, idee, prodotti … tendono a diventare sempre più parziali e limitati ad ambiti specifici. Le nostre scelte, le abitudini, i costumi sono spesso guidati esclusivamente dal criterio dell’apparenza, dalla mentalità dell’usa e getta. Su questo terreno prospera l’economia del consumo e quegli stili di vita che ne sono la deriva visibile nella vita quotidiana.

La sobrietà può essere la risposta a tale dispersione, diventando una virtù di sintesi che abbia la forza di unificare idee e azioni.

Non basta assumere dei comportamenti particolari se non si cambiano quei criteri fondativi che utilizziamo come metro di giudizio. Alla fine anche le belle iniziative rimangono parentesi frammentarie che non incidono sul nostro stile di vita. E, viceversa, senza comportamenti adeguati, anche profonde scelte valoriali rimangono inevitabilmente pura teoria. Serve un lavoro sinergico per allargare gli orizzonti della mente ma anche per modificare concretamente la vita.

È opportuno osservare che da qualche tempo è la Chiesa stessa a pronunciarsi a favore di una revisione degli stili di vita nella comunità dei cristiani. Nel 2001, all’incontro di Badin (Slovacchia) del Consiglio delle 34 Conferenze Episcopali d’Europa su Stili di vita cristiani e sviluppo sostenibile, sono state indicate queste pratiche umanizzanti: la Banca etica; il commercio equo e solidale; i bilanci di giustizia; l’economia di comunione; l’uso di fonti energetiche rinnovabili; la domenica come giornata di riposo.

Oltre all’impegno per promuovere queste iniziative ed elaborarne di nuove, durante l’incontro in Slovacchia, i Vescovi europei hanno sottolineato come «un cambiamento degli stili di vita potrà affermarsi e diffondersi ampiamente soltanto se sostenuto dall’esperienza interiore di “gioia” o “compiacimento” per tutto il Creato. Il rispetto per il Creato in tutta la sua varietà costituisce la base per una migliore qualità di vita. Una cultura della vita, elemento fondamentale di un’autentica spiritualità cristiana, attingendo alle ricche sorgenti della tradizione e della spiritualità cristiane, può liberare dalle molteplici costrizioni del consumismo».

Si comprende allora per quale ragione, oltre al significato economico, la sobrietà venga ad acquisire un significato antropologico. Nella sobrietà si manifesta, infatti, tutta la “premura per l’altro” partendo da un “io” consapevolmente sobrio, un “io” che in questo modo si impegna a “condividere” e a rispettare il “limite” rifiutando l’ebbrezza dei consumi, dell’accumulo e del possesso.

Proprio perché la sobrietà comprende queste importanti dimensioni culturali, antropologiche e politiche, non deve essere banalizzata in una casistica del più e del meno. Il problema è ben più profondo.

Soprattutto come cristiani non è possibile rinunciare al fondamento etico dell’agire economico. Ciò vale sia sul piano teorico (ortodossia) che su quello pratico (ortoprassi): e deve ripercuotersi nella quotidianità della vita personale, nelle scelte e nei comportamenti, cioè, appunto, negli stili di vita.

Per costruire un mondo più equo e sostenibile, nel tempo della globalizzazione, è necessario partire da se stessi, non attendere “l’arrivo di Godot”, non delegare ad altri il cambiamento.

La sobrietà è una virtù sociale che attende di essere ancora esplorata in tutte le sue potenzialità di trasformazione.

Occorre partire dal basso, dalle reti di cittadinanza attiva dei soggetti, dalle scelte dei gruppi familiari e muoversi progressivamente in un orizzonte di pedagogia dei gesti e di strategia dei comportamenti, anche economici, che oltre ad essere alternativi si pongano obiettivi di trasformazione sempre più politici e strutturali.

 

1.1. Cos’è la sobrietà?

 “Sobrio” è il contrario di “ebrius”. Il suo significato etimologico originale è negativo (“s” privativa!), come la parola “S-leale”, o la parola “S-contento”, o la parola “S-quilibrato”.

Ebrius vuol dire ebbro, inzuppato, inebriato, esaltato, ubriaco, avvinazzato, agitato, su di giri, fuori le righe, s-regolato, fuori controllo, s-misurato.

La nostra è una società ebbra di consumi, di piaceri, di cose materiali, è una società dell’abbondanza, dell’apparenza, del narcisismo che i sociologi definiscono anche affluente, edonista, opulenta, ecc. La nostra società è condizionata da un’insaziabile domanda di beni che scaturisce da cicli economici sempre più accelerati che riescono a costruire nuovi bisogni e a provocare le condizioni materiali per soddisfarli.

Sobrio, invece, è chi vive in modo in-nocente (che non nuoce), cioè equilibrato, misurato, entro un’etica del limite.

Per questo la sobrietà è uno stile di vita “sostenibile”, ossia capace di futuro. È il passaggio dal modello di vita del cow-boy (che nel Far West deve continuamente “predare”, colonizzare, possedere) al modello di vita dell’astronauta (che esplora lo spazio ma che deve, invece, essenzializzare tutte le risorse per affrontare il viaggio di andata e ritorno).

Ecco perché è sostenibile solo uno stile di vita che promuova rapporti democratici tra le persone, favorendo pari opportunità di sviluppo e non consente a nessuno di arricchirsi alle spalle degli altri.

Lo stile di vita improntato alla sobrietà restituisce all’uomo «quell’atteggiamento disinteressato, gratuito, estetico che nasce dallo stupore per l'essere e per la bellezza, il quale fa leggere nelle cose visibili il messaggio del Dio invisibile che le ha create» (CA, 37).

La sobrietà deve portare non solo all’etica del limite, della misura e dell’equilibrio, ma anche alla cultura dell’armonia, della bellezza e della qualità. Per questo, come afferma Wolfgang Sachs, dovremmo iniziare a parlare di una estetica della sobrietà (il gusto, la forma), e di una eleganza della semplicità.

La sobrietà ci aiuta a riscoprire il gusto per la semplicità e il valore delle cose belle. Una bellezza vera e seducente ma non effimera. La bellezza a cui la sobrietà può rieducarci è così diversa e profonda che presuppone una spiritualità, quella della compassione, quella di chi sa condividere il dolore.

Il Cardinal Martini, in una delle sue ultime lettere pastorali indirizzate alla Diocesi di Milano, riporta la domanda che Dostojevskij, nel suo romanzo L’Idiota, pone sulle labbra dell’ateo Ippolit al principe Myskin:

 

«“È vero, che voi diceste un giorno che il mondo lo salverà la bellezza? Signori – gridò forte a tutti – il principe afferma che il mondo sarà salvato dalla bellezza… Quale bellezza salverà il mondo?”.

Il principe non risponde alla domanda.

Sembrerebbe quasi che il silenzio di Myskin – che sta accanto con infinita compassione d’amore al giovane che sta morendo di tisi a diciotto anni – voglia dire che la bellezza che salva il mondo è l’amore che condivide il dolore».

 

La sobrietà offre gli occhiali giusti per leggere la realtà. Ci spinge verso uno stile di vita solidale con gli ultimi. Ci avvicina alla bellezza che illumina i cuori, che rassicura lo spirito, che rafforza la speranza per affrontare tanti drammi che la vita quotidiana spesso ci riserva.

In questo senso la sobrietà rende possibile iniziare a svincolarsi dalla mentalità del calcolo e del consumo. Spesso il metro di giudizio con il quale misuriamo le nostre scelte lo mutuiamo dai mass media, che mostrano la “loro felicità” ideale, e in particolare dalla pubblicità. «Grazie ad essa - è stato osservato - il desiderio è come sedotto, spinto a spostarsi verso oggetti sempre nuovi, sempre in cerca di forme nuove di soddisfazione. Costante, però, è la delusione che subentra dopo l’acquisto, come lo stimolo a superare tramite ancora altri oggetti, più nuovi, più aggiornati. È facile, allora, capire perché la nostra appaia sempre più come una società dei rifiuti: un PC di un paio di anni è già vecchio; un abito dell’anno precedente è out»1.

La sobrietà può diventare allora una nuova unità di misura del desiderio. Può essere quel paradigma, quel campione di riferimento con cui confrontare l’utilizzo dei beni e la cura delle relazioni.

In buona sostanza, uno stile di vita sobrio ricerca la promozione della vita migliorando, innanzitutto, la qualità della propria vita.

La sobrietà realizza un sano equilibrio tra le dimensioni dell’identità, dell’alterità e della fruizione delle risorse ambientali.

 

1.2. Nuovo nome della “temperanza”

 Prudenza, Giustizia, Fortezza e Temperanza. Così una volta si imparava dal catechismo. Poi è venuto il tempo dell’oblio e anche per le virtù “cardinali” è diventato difficile sopravvivere. Oggi è possibile rilanciare la “temperanza” nella forma aggiornata della sobrietà e in questo senso essa potrebbe diventare un banco di prova per tutta la comunità cristiana. La temperanza è la capacità di controllare e mantenere nei giusti limiti il soddisfacimento degli appetiti naturali.

La temperanza «è la virtù morale che modera l’attrattiva dei piaceri e rende capaci di equilibrio nell’uso dei beni del Creato», recita il Catechismo. La temperanza, con il suo richiamo alla moderazione e alla sobrietà, costituisce una sorta di scudo protettivo di fronte alle tentazioni della ricchezza ottenuta con ogni mezzo e suggerisce il giusto distacco dai beni materiali, mezzi di investimento per lo sviluppo e non già fine in sé.

La temperanza è la virtù dell’equilibrio e del senso della misura, della capacità di resistere, rinunciare, di “mescolare” (l’acqua con il vino, ad esempio), e perfino di “tagliare”, di spuntare e di affinare (si pensi al temperino).

Chi agisce nella temperanza certamente non è smodato, eccessivo, ingordo, s-regolato, ma è persona semplice ed essenziale in tutto, perché sa ridurre, recuperare, riciclare, riparare, ricominciare.

Alla fine, per vivere bene, non si ha bisogno di molte cose: alcuni beni per un’esistenza dignitosa, riconoscimento e rispetto degli altri, coltivare buone relazioni con quanti incontriamo nella vita quotidiana: famiglia, lavoro, amici, Dio. E tutto questo a partire da una sicura autostima.

Veramente la sobrietà è, in questo senso, la virtù del futuro, il nuovo nome della temperanza, un bene relazionale, una qualità della relazione: con se stessi (identità/sobrietà); con gli altri (alterità/sobrietà); con le cose (consumo/estetica della sobrietà).

Ma non possiamo dimenticare che la sobrietà esprime anche il modo di vivere e di vedere il mondo con lo “sguardo” dei poveri e proprio per questo è una scelta economica e politica. Perché il nostro stile di vita sia caratterizzato da questa virtù abbiamo bisogno di crescere, confrontarci, rivedere la nostra mentalità e ripensare alcune posizioni e abitudini di vita che sembrano scontate.

 

 2. Sobrietà e identità: verso un “io sobrio”

 Proprio perché la sobrietà è semplicità, essenzialità, leggerezza… essa può anche aiutarci ad evitare la frammentazione della nostra vita quotidiana e il rischio delle assolutizzazioni.

Un “Io Sobrio” significa un Io unitario, non dispersivo, non frantumato, non distratto, ma equilibrato, armonico, con un criterio gerarchico e ordinatore.

Identità sobria è quella di una persona sicura di sé e unitaria nelle sue scelte. Come ricorda W. Sachs: «per i maestri della saggezza, l’opposto della semplicità non è la vita lussuosa, ma la vita frammentata. Un eccesso di cose ed oggetti non fa che intasare la vita quotidiana, distrarre in mille modi la nostra concentrazione e toglierci l’energia che ci serve per trovare una linea chiara da seguire nella vita. Chi non riesce a dare la giusta dimensione al proprio rapporto con le cose, infatti, finisce per non aver più risorse sufficienti per dar forma al proprio progetto di vita.

In questa luce l’arringa per la semplicità non ha gran che a che vedere con la morale, ma piuttosto con l’estetica. Come nell’arte tutto dipende dall’uso controllato di colori o suoni, in modo analogo l’arte di vivere richiede l’uso ben temperato dei beni materiali. In altre parole, esiste un legame sotterraneo tra il buon vivere e l’austerità. Chi sente il desiderio di “dare forma” alla sua vita si sentirà spinto a sperimentare una sorta di “semplicità selettiva” non per spirito di autoflagellazione, ma con uno spirito di ricerca e di avventura. Chi vuole sopravvivere all’invasione delle merci sin nei territori più privati della propria vita, s’accorgerà di non avere altra scelta che un “consumo selettivo”. Chi vuole restare padrone dei propri desideri, scoprirà il piacere del non rispondere a tutte le “occasioni” d’acquisto».

La sobrietà tocca dunque prima di tutto la dimensione identitaria, il rapporto con se stessi. L’individuo in questo senso non è più proprietario, teso quindi all’accumulazione, ma solidale e quindi capace di fruizione condivisa e di una assunzione selettiva delle cose. La sobrietà può diventare un principio gerarchico che riconduce la pluralità delle esperienze all’unità del significato; sviluppando così un Io Selettivo come presupposto per l’autonomia. In questo modo non ci si perde “nelle tante cose da fare”. La persona riesce a fare sintesi nella sua vita.

Pensiamo per esempio alla gestione del tempo, alla responsabilità nel decidere i tempi della vita. Anche dal Vangelo ci viene un esempio interessante quando Gesù guarisce l’indemoniato liberandolo dai tanti “demoni” (legione) che dividono la persona e la scindono al suo interno.

Senza una cura del rapporto con la propria identità la sobrietà sarebbe scadente e sciatta, strumentale e destinata a perdersi.

 

 3. Sobrietà e alterità: per un’etica della responsabilità 

Quando la sobrietà caratterizza lo stile di vita si declina naturalmente anche nelle modalità di relazione con gli altri.

Essa ha il potere di colorare la vita e di trasportarla in una prospettiva di cura e di responsabilità. La sobrietà nelle relazioni ci aiuta a vivere lo stupore per le piccole cose, l’attenzione per le sfumature, il significato del dettaglio, indicandoci il primato dell’altro come principio gerarchico ed esprimendo l’esistenza come premura e servizio verso le persone che vivono intorno a noi.

La sobrietà si manifesta nella ricerca di relazioni significative e personali. Come dice Padre Abramo Levi nel libro Il sapore della sobrietà: il cristiano, l’uomo, viene stupito, quasi scandalizzato, dalla sobrietà di Dio, che si manifesta nella sistematica ricerca di relazione con l’uomo. La sobrietà di Dio sta nel suo scendere (kenosis), nel suo abbassamento, nel suo prendersi cura dell’uomo quando confeziona le vesti di pelle (per Adamo ed Eva), quando pone il segno protettivo su Caino.

Al contrario, l’uomo proprio nell’allontanarsi dalla relazione diventa “ebbro”: quando mangia il frutto proibito, quando costruisce la Torre di Babele, quando Noè si ubriaca.

Dunque, la ristrutturazione del rapporto con gli altri alla luce della virtù della sobrietà viene a significare l’impegno di vivere il proprio “Io” come un “Io ospitale” e coerentemente “solidale”, aperto all’alterità. Le relazioni sono tra le nostre principali ricchezze, se riusciamo a fuggire le tentazioni dei nostri egoismi.

Oggi i nostri rapporti si moltiplicano. Di pari passo crescono anche le modalità di comunicazione. Agli strumenti con i quali tradizionalmente comunichiamo si aggiungono i telefonini cellulari, gli sms (e mms), le e-mail e le chat, fino ad arrivare alle web cam e chissà cosa ci prospetta il futuro. Si aprono confini ed entriamo in relazione anche con persone di altre culture, religioni, tradizioni. Però la quantità delle nostre relazioni e la proliferazione degli strumenti possono non incidere sulla qualità dei rapporti. A volte condizionandola fortemente: i mezzi ne dettano i tempi e le condizioni, mentre il numero incide sulla superficialità.

Un ulteriore problema che le nostre società globali ci presentano riguarda la differenza e l’alterità che sono spesso vissute con paura e diffidenza.

Le persone hanno bisogno di iniziare un percorso che le porti a comprendere che «il pluralismo della società civile moderna non sia semplicemente una “brutta realtà” che può risultare sgradita o essere finanche detestata ma (purtroppo) non ignorata, bensì una cosa buona e una circostanza fortunata, in quanto i vantaggi che arreca superano di gran lunga i disagi e gli inconvenienti, amplia gli orizzonti per l’umanità e moltiplica le possibilità di una vita più piacevole rispetto alle condizioni che potrebbero offrire una qualsiasi delle sue alternative»2.

Abbiamo la necessità di sviluppare anticorpi che possano vincere sia il disordine dovuto alla moltiplicazione degli incontri, sia le paure legate alle incognite della differenza. Sono la relazionalità e la nostra capacità di costruire comunità, di creare legami significativi a poterci orientare.

Le nostre relazioni sono guidate da un’etica responsabile verso l’altro, quando si acquista la capacità di instaurare rapporti significativi. Attraverso la ricostruzione dei legami tra le persone si può recuperare la solidarietà, che è il nutrimento della fiducia, della sicurezza di sé. Le singole persone, le associazioni, i movimenti e le varie organizzazioni della società civile hanno un compito importante. Sono tutti chiamati a rivitalizzare i rapporti tra gli individui, promuovendo iniziative che coinvolgano gli esclusi e ricostruiscano un tessuto sociale vitale. Costruire reti di relazione, ricercare il dialogo e l’apertura verso l’altro è uno stimolo fondamentale, perché si possa rispondere alla “voglia di comunità” per recuperare sobrietà nella nostra relazionalità.

Iniziare un cammino di sobrietà nei rapporti richiede la capacità di attenzione verso l’altro: quello che ci è vicino, con il quale ogni giorno condividiamo le gioie ed i dolori delle nostre esperienze, e quello lontano che non vediamo, non conosciamo ma sappiamo vivere il nostro tempo ed affrontare le nostre stesse sfide, se non maggiori e più difficili. 

 

4. Sobrietà e beni materiali

 Dopo l’identità e l’alterità, il tema della sobrietà si coniuga con l’uso dei beni materiali. Va osservato che questo è forse l’aspetto più indagato e tradizionale della sobrietà. È un cantiere aperto. La ricerca è in corso e ci vuole ancora tempo per capire verso quali scelte di fondo si orienterà la comunità cristiana rispetto al neoliberismo e al trionfo dei consumi che diventano fondamento dell’attuale società globale.

Le grandi imprese investono sempre quote maggiori delle loro risorse in indagini di mercato allo scopo di prevedere i comportamenti delle persone nei confronti dei loro prodotti o dei loro servizi, oltre ai capitali già ingenti destinati alla promozione pubblicitaria. Al giorno d’oggi non sono più le fabbriche ad essere la struttura simbolo della nostra epoca, ma i grandi centri commerciali3. In un’economia che si regge sulla fiducia nel consumo, gli acquisti diventano il modo per costruire e comunicare la propria identità. La soddisfazione dei bisogni è, anche se legittima, un fattore secondario.

L’attenzione dedicata dalle multinazionali al comprendere e catturare i gusti della gente ne è un indicatore.

La forza di un’impresa viene valutata per quanto riesce ad essere visibile e quanto riesce a condizionare i mercati. Il consumo diventa il campo di verifica di tutte le politiche aziendali. Purtroppo spesso le imprese commettono abusi non curando la dignità dei propri lavoratori, oppure disinteressandosi degli impatti ambientali e così via.

Tutta l’economia, dice Giovanni Paolo II, è da ripensare. Allora, proprio il consumo può diventare lo strumento nelle mani dei cittadini per modificare la situazione esistente, perché le decisioni di acquisto diventino i modi per sostenere o disapprovare non solo l’efficacia ed efficienza di un prodotto, ma anche la politica di gestione di coloro che li producono. Le nostre potenzialità di acquisto sono un’arma efficace per combattere le ingiustizie che vengono compiute per seguire le leggi del mercato. Infatti, scegliere uno specifico prodotto invece che un altro, significa dare fiducia ad un impresa e non ad un’altra.

Inoltre, in un’economia che si regge sulla fiducia nel consumo gli acquisti diventano il modo per costruire e comunicare la propria identità. La soddisfazione dei bisogni è, anche se legittima, un fattore secondario. La felicità viene disegnata nella soddisfazione di un qualsiasi desiderio: siamo abituati, si potrebbe dire educati, a realizzarli.

Anche adottando uno stile di vita sobrio, comunque, bisogna tenere presenti due derive:

- la casistica della sobrietà, che riduce questo stile di vita ad una gabbia, ad una lista di precetti, ad un ricettario, e finisce per ingessare la sobrietà;

- la concezione pauperistica della sobrietà che propone una visione “sacrificale” della sobrietà, mentre noi parliamo di sobrietà “felice”. Non qualsiasi povertà si concilia con la sobrietà, ma “Madonna povertà”, come insegna San Francesco.

La relazione con i beni materiali va curata per non essere da questi dominati. Sono due le direzioni da tenere d’occhio: da una parte l’applicazione di un discernimento che valuti l’essenziale, dall’altra la comprensione della vera natura, dell’origine del prodotto.

Si sono ormai da tempo consolidati diversi comportamenti che possono caratterizzare uno stile di vita sobrio e, come in alcuni casi è successo, tali comportamenti possono anche contribuire al cambiamento di rotta delle politiche di alcune multinazionali che, altrimenti, avrebbero trascurato alcuni diritti dell’uomo e della natura.

 

5. La sobrietà come scelta ecologica, economica e politica

 L’etica del limite e la cultura della sobrietà sono scelte obbligate per costruire fin da oggi una società sostenibile.

Come abbiamo già detto, la sobrietà è guardare il mondo con lo sguardo dei poveri e dalla parte dei poveri. Non è questo il luogo per parlare del divario economico e del divario digitale. Ma alla luce di queste considerazioni, le scelte da compiere sono: il consumo critico, i bilanci di giustizia, il commercio equo, la banca etica, i gruppi d’acquisto solidale, la Tobin Tax, la tutela dell’ambiente, la tutela delle biodiversità, l’attenzione critica alle manipolazioni genetiche, agli organismi transgenici, la partecipazione alle campagne sull’acqua e sui farmaci essenziali, fino alla lotta per una nuova architettura finanziaria mondiale e alla salvaguardia del Creato nel tempo della globalizzazione.

Il passaggio dalla società dello spreco a quella sostenibile non significa solo produrre di meno, ma anche produrre diversamente: meno prodotti superflui, più prodotti fondamentali: meno consumi privati, più consumi pubblici; meno energia da combustibili fossili, più energia da risorse rinnovabili; meno prodotti usa e getta, più prodotti duraturi; meno spreco, più recupero e qualità della vita. Inoltre, dovrà essere ridotto, come dice Sachs, «il peso con il quale le nostre economie gravano sulla terra»4.

Più profondamente, è il concetto di “felicità” che viene chiamato in causa e che dovrà essere ridefinito, correggendo la distorsione dall’utilitarismo. Osserva infatti Serge Latouche che «la riduzione utilitarista della felicità al piacere, del piacere alla soddisfazione dei bisogni, del bisogno al quantum di consumo e dunque in definitiva della felicità alla sua misura – il denaro – dev’essere rimessa in discussione»5.

Come si vede, la scelta della sobrietà si configura come un modo di pensare e di agire alternativo. In effetti, più che la globalizzazione - che a priori non è né buona né cattiva - come dice il Papa, ciò che fa problema è quello che Ulrich Bech chiama “globalismo”, cioè «l’ideologia del dominio del mercato mondiale, l’ideologia del neoliberismo»6, che rimuove o sostituisce l’azione politica e subordina la multidimensionalità della globalizzazione al predominio unilaterale del mercato mondiale.

Come ha osservato Mons. Van Thuan, recentemente scomparso, «il globalismo (ossia l’ideologia riduttiva che disorienta la globalizzazione)… interpella fortemente la dottrina sociale della Chiesa… al punto da dare l’impressione di mettere in questione alcuni suoi principi fondamentali»7.

Oggi la Chiesa appare sensibile alla scelta di nuovi stili di vita. Infatti nella Charta Oecumenica e nell’incontro di Badin, nel quale si sono incontrate le Conferenze Episcopali di tutta l’Europa per dialogare e riflettere sulla salvaguardia del Creato, si è riaffermato che «i cristiani dovrebbero dare testimonianza della loro fede anche attraverso un coerente stile di vita rispettoso verso il Creato (…) Il ruolo della Chiesa di oggi non può limitarsi ad essere avvocato per il Creato ma deve elaborare progetti e proporre modi di vita alternativi».

Per il futuro bisognerà sempre di più includere in tutte le stime economiche relative alle attività umane anche i costi ambientali, l’impatto sugli ecosistemi. È divenuto sempre più chiaro che ci sono dei limiti all’espansione umana sul pianeta terra. C’è una crescente evidenza che alcune attività umane eccedono già la capacità di sopportazione dell’ambiente.

La ricerca di sostenibilità per un nuovo modello di sviluppo deve essere inseparabilmente legata sia all’ambiente che alla giustizia sociale. Il legame sempre più stretto tra vita quotidiana (locale) e agenda mondiale (globale) pone in evidenza l’importanza di considerare il nostro stile di vita solamente come scelta strettamente personale, mentre dovremmo viverlo nella consapevolezza di “gesto politico” che incide nel contesto globale.

La scelta di uno stile di vita improntato alla sobrietà consente, ad ogni cittadino e ad ogni cristiano, di dare il proprio contributo per la costruzione di un mondo più equo e più giusto.

Bisogna dunque educare le coscienze, affinché si comprenda che non bastano i gruppi di pressione e i movimenti di base per orientare diversamente gli indirizzi economici delle istituzioni internazionali.

Per vivere la sobrietà è necessario non sottovalutare alcune dimensioni, perché è indispensabile un’opzione fondamentale ben più profonda, che chiama in causa la vita stessa di ogni persona, in quanto strutturalmente legata al sistema sociale che si vorrebbe cambiare.

 

 Riferimenti bibliografici

 Aa.Vv., Nuovi stili di vita nel tempo della globalizzazione, Fondazione Apostolicam Actuositatem, Roma 2002.

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Aa.Vv., Tutto quello che avreste voluto sapere sulla Tobin Tax e nessuno vi ha mai raccontato, EGA-Ed. Gruppo Abele, Torino 1999.

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Daly H., Cobb G., Un’economia per il bene comune, RED, Como 1994.

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Laville J.L., L’economia solidale, Bollati Boringhieri, Torino 1998.

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Martirani G., La civiltà della tenerezza. Nuovi stili di vita per il terzo millennio, Paoline Editoriale Libri, Milano 1997.

Nanni A., Sulla sobrietà, in “La Società”, n. 6, 2002, p. 841.

Nicora A., La virtù cristiana della sobrietà, Lettera pastorale, Diocesi di Verona, Queriniana, Brescia 1996.

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