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"Noi
siamo figli di santi”. Quest’affermazione, gioiosa, vincolante, impegnativa,
fu pronunciata or sono millenni esattamente da Tobi, secondo la Vulgata, e la
liturgia la ha proposta al nostro ascolto nella nona settimana per annum. Il
testo non si trova nelle altre traduzioni che scrivono piuttosto: “noi siamo
figli di profeti”.
Convinto di dover obbedire più a Dio che agli
uomini, cosa che sosterranno secoli più
tardi gli apostoli perseguitati perché annunciano la risurrezione di Gesù e,
in Lui, la vita oltre il tempo di tutti, Tobi
non demorde. Nella fittizia narrazione drammatica, appartenente al biblico
genere sapienziale più che a quello storico, l’autore vuole trasmettere ai
suoi contemporanei una lezione morale e religiosa. Nel libro che sottintende una
fedeltà a Dio a tutta prova, il protagonista è presentato come prototipo di
fedeltà e tenacia, di devozione al proprio Dio e di lealtà nei suoi confronti.
Non gli importano a Tobi le minacce di persecuzione e di morte; non lo portano a
prendere decisioni diverse da quelle che gli impone la sua coscienza; la stessa
sua moglie lo deride e lo provoca. Egli, contro l’ordinanza del re Sennacherib,
continua a seppellire i morti, favorito dall’oscurità della notte.
Nella prima parte del libro Tobi descrive le
opere compiute come prova della sua fedeltà a Dio; parla dei gesti umanitari a
favore soprattutto dei poveri, degli orfani e delle vedove, secondo la ripetuta
espressione biblica. Ed è appunto come conseguenza della stanchezza racimolata
in un atto pietoso che gli piove addosso una
antipatica cecità.
Ma quella frase “Noi siamo figli di santi!”,
proclamata con chiarezza nella liturgia eucaristica, non lascia, non può
lasciare indifferenti o, peggio ancora, apatici. Scuote, inquieta, turba.
Richiama una vocazione che viene da lontano; rievoca una storia, quasi una
identità di famiglia. Ritorna la frase agostiniana: se questi e quelli perché
non io?…
Possiamo anche noi andare alla storia dei nostri
Istituti e là, all’origine, vi troviamo santi! Le molte beatificazioni e canonizzazioni effettuate da Giovanni Paolo II ne
sono una fulgida e incontestabile
dimostrazione e testimonianza ufficiale. Siamo figli di santi. La vita religiosa
trae le sue origini nella configurazione storica da santi: Antonio, Pacomio,
Basilio. Le grandi correnti di spiritualità - agostiniana, benedettina, carmelitana,
francescana, gesuitica - che stanno in parte nel ceppo storico delle
spiritualità dei nostri Istituti pur nella diversità
carismatica, nella loro origine hanno santi! E sono state scuola di santi; hanno
tracciato, con la parola e con la vita, un percorso; hanno indicato un
itinerario, hanno aperto strade nuove e innovative. Lo stesso don Alberione,
della cui intuizione carismatica si sta
celebrando il centenario, ha appena il riconoscimento
di venerabile, eppure ha un figlio beato, Timoteo Giaccardo, il suo primo
sacerdote e il suo primo vicario generale, e che è stato il primo sacerdote
nella storia della Chiesa con tessera da giornalista.
Ma, la ragione ultima, quella ontologicamente
vera, quella che esige l’assenso della nostra intelligenza, della nostra volontà, della nostra capacità d’accoglienza e d’amore,
non ha in questa storia e in queste vicende pur avvincenti, il suo fondamento,
la sua matrice e il suo presupposto. La nostra esistenza, impastata di tensioni,
di passione, di ansie e desideri, di dolori e fatiche, di gioie e
gratificazione, sa che deve rifarsi ben più lontano.
Nel Levitico il Signore è tassativo: “Io
infatti sono il Signore Dio vostro! Santificatevi e siate santi, perché io sono
santo!…”. E, come per avere una più forte incidenza, per essere
maggiormente condizionante, per avere una valenza senza contestazioni, ripete:
“Sì, io sono il Signore che vi ho fatto uscire dalla terra d’Egitto per
essere vostro Dio. Siate santi perché io sono santo!”. Più avanti, in altro
capitolo: “Il Signore disse ancora a Mosè: “Parla a tutta la comunità dei
figli d’Israele e di’ loro: Siate santi, perché santo sono io, il Signore
Dio vostro””. Ancora sempre a Mosè: “Praticherete tutti i miei precetti,
e sarete santi per il vostro Dio”.
Non è questo lo spazio e neppure il tempo per un’analisi
approfondita dei vari testi e contesti con un procedere logico e, anche,
storico. Ne scriveranno altri Libri del Primo e del Secondo Testamento. Useranno
lo stesso lessico Pietro, Giuda, Giovanni nell’Apocalisse, ma sorpassa tutti
Paolo. In sintesi è un tema che attraversa “tutta” la Legge e i Profeti.
L’interpretazione dei termini, l’ampiezza
delle significanze, l’evolversi della decodificazione delle parole, la
concretezza delle attività e degli atteggiamenti in cui si esplica e si vive la
santità, esigerebbero forse volumi. Una cosa è certa e l’ha scritta Paolo
all’inizio del capitolo quarto della Prima Lettera ai cristiani di Tessalonica:
“Vi preghiamo e supplichiamo nel Signore Gesù Cristo: come avete appreso da
noi il modo di vivere e di piacere a Dio come
già vivete, così progredite sempre più.
Voi sapete quali prescrizioni vi abbiamo dato nel Signore Gesù. Questa infatti
è la volontà di Dio: la vostra santificazione”.
Ma, mentre in questa prima sua missiva il messaggio
è esortativo, nella Lettera ai Romani, quando è cosciente
di aver terminato la sua corsa, di avere combattuto il buon combattimento e
avere, nonostante tutto, mantenuto la fede, sa di essere ormai prossimo alla
condanna e alla morte, definisce i suoi lettori direttamente “santi per
vocazione”.
Jacques Maritain, parlando di una Chiesa
innocente e perseguitata, scriveva: “La Chiesa, corpo mistico di Cristo, la
cui vita essenziale, sine macula sine ruga, sta nella Verità e nei Santi” (la
maiuscola è sua).
Léon Bloy affermava: “Sono più di trent’anni
che desidero la felicità unica, la santità…”. E ancora: “Siamo stati
creati per essere santi. Se c’è qualcosa di certo è proprio questo!”. E ne
dà la via: “La santità non è così complicata. E’ semplicemente un’immensa
fiducia in Dio”. E sua è la sentenza: “C’è una sola tristezza: quella di
non essere santi”. E’ vero che, come ha scritto Giuliano Vigini, “la
parola di Bloy porta ogni volta al di là, oltre la realtà sensibile, e alle
estreme conseguenze, attraverso ardue ascensioni che poco a poco lasciano però
intravedere il mistero e la bellezza, inaccessibili a chi resta troppo in basso,
ancorato alla terra”, ma… quella è la meta…
Felicísimo Martínez Díez, uno tra i più
esperti di vita religiosa, conosciuto a
livello internazionale, afferma che “la vita
religiosa oggi manca di quel sapore evangelico che è stata la sua vocazione
primaria” e che “la scipitezza evangelica trascende
le mura dei conventi in molti modi”, per cui ne viene offuscata la loro
credibilità. Sarebbe pertanto il rovescio
della medaglia del “vivere in pienezza la relazione con Dio e con le persone”.
J. B. Metz, altro esperto e deceduto or sono
pochissimi anni, si domandava: “Dove sono oggi le grandi tensioni che hanno
segnato le origini di quasi tutti gli istituti religiosi?… Dove esercitano con
passione, in quel che loro compete, quella denuncia profetica all’interno
della stessa Chiesa che non solo è loro permessa in forza della propria
esistenza, ma che anzi si esige da loro?”.
In sintesi, perché possa ritrovare il suo sprint
iniziale, la sua vocazione profetica, la vita religiosa deve richiamarsi alla
sua vocazione primaria, ossia vivere in pienezza la sua relazione
con Dio e il servizio e il dono alle persone. Perché, il Regno che è dono e
grazia, per chi lo ha ricevuto gratuitamente diventa esigente e rigoroso.
Anche Tobia, sempre secondo la Vulgata, ancora
nella prima lettura proclamata nella nona settimana per annum, dà prova di aver
accolto il sentire e il vivere del padre. Egli dice a Sara: “Alzati, sorella,
e preghiamo perché noi siamo figli di santi”.
La farfalla, se inseguita, non è prendibile. Se
ci si ferma, potrebbe anche posarsi sulle nostre teste. Un simpatico genitore
portava le figliolette a passeggio su colli ameni. Vi svolazzavano farfalle.
Egli consigliava alle ragazzine: “State ferme;
forse le farfalle si poseranno su di voi”. E la figlia ora racconta: “Veramente
si posavano”. Che la santità, dono di Dio, che ci fa, sempre secondo Paolo,
nuova creatura, si posi nelle nostre comunità e ci obblighi a una vita tutta
evangelica.
* * *
Per esigenze di tempo e di spazio non parliamo in
questo numero del molto che è stato detto e scritto sulla globalizzazione. Ne
avevamo già scritto anche noi soffermandoci su "dove porta la
globalizzazione". USMI INFORMA, supplemento alla rivista che giunge a tutte
le comunità femminili presenti in Italia, riportava la lettera di sr P. Pasini,
in cui invitava alla preghiera e al digiuno. Ne tratteremo ancora, cercando di
chiarire le finalità raggiunte, le proposte emerse nel bruciante dibattito, ma
soprattutto cosa richiede tutto ciò alla vita religiosa femminile.
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