n. 9
settembre 2003

 

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Abitare gli orizzonti culturali
di Carla Bettinelli *

 

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E’ una meta ardua da conseguire. Se non ambiziosa. L’epoca che viviamo è caratterizzata dalla proliferazione dei saperi e delle scienze. E’ dominata dal forte potere della tecnica che, mentre avvolge il mondo in rete, penetra nel nucleo sorgivo dell’esistenza. Si sta allontanando da consolidati modi di pensare e, all’orizzonte, appaiono nuovi paradigmi. Assiste alla caduta di alcuni stili di vita, che sembravano carichi di significatività e valore, e ne vede nascere altri: per ora deboli e fragili. Verrebbe da dire: sono valori quasi da accudire. Pressante, quindi, l’interrogativo: come abitare gli orizzonti culturali della nostra epoca?

 

1. Abitare il mondo

 Siamo posti nel mondo. Per chi crede, dal braccio paterno-materno di Dio in collaborazione con i genitori. Per chi non ha una visione soprannaturale della vita, dalla vita stessa, anche con l’aiuto della tecnologia. Non basta esservi posti. Noi abitiamo il mondo. E lo abitiamo grazie all’apertura teoretica ma anche tecnica che è nel nostro essere, vivere, sentire e conoscere. Il rapporto con il mondo è strutturato dalla cultura intesa come plasmazione della natura; risveglio, potenziamento, sviluppo, esplicazione delle risorse di cui ciascun essere umano è dotato; condizione e obiettivo di “fusione degli orizzonti” delle persone, per usare un’espressione cara a Gadamer. Forse il concetto di cultura è meglio espresso con il linguaggio, un poco ossimorico, di “fusione estensiva degli orizzonti”: perché la mia visione del mondo, per quanto ampia, rimane parziale fino a quando non si apre alla visione degli altri soggetti che, con il loro apporto, allargano il mio orizzonte culturale. Qui la cultura non può non ricorrere all’antropologia. Un’antropologia che non prescinda, però, dalla dualità uomo-donna e dalla problematicità/ricchezza dell’intersoggettività. Grazie alla corrente filosofica della fenomenologia di Husserl e, fra altri, agli studi sull’empatia compiuti dalla Stein, ci siamo educati a tematizzare l’intersoggettività e, consequenzialmente, ad affermare la necessità di uscire dal narcisismo dell’ego. Un’antropologia, quindi, fondata sull’irriducibilità e irrepetibilità dei soggetti in relazione empatizzante e dialogante fra di loro. Molteplici i significati di cui il fra è carico. E’ un intervallo che distingue e unisce. Uno spazio, che apre all’orizzonte della politeia, che in senso aristotelico è pluralità. Una brevissima parola, che parla di differenze, di culture, di mondi interrelati e legati insieme dal destino comune che, per la persona credente, ha quale riferimento ultimo il Principio trascendente.

 

 2. Oltre la modernità

 Più esattamente: oltre certi aspetti della modernità del mondo occidentale, quali ad esempio il potere della razionalità e dei progetti scientifico-tecnici ritenuti e imposti quasi come assoluti a cui sacrificare «l’arcaica cultura della terra, le sue tradizioni religiose, i suoi riti familiari, la sua identità umanistica»1.

L’illusorietà ha connotato il trionfalismo di una certa razionalità. Di quella per cui incrollabile era la certezza che il controllo scientifico della natura e gli esiti delle analisi puramente scientifiche, effettuate in ambito economico e sociale, avrebbero realmente liberato l’essere umano dalla povertà e dal bisogno; lo avrebbero emancipato dal potere politico; non avrebbero più favorito l’"alienazione" nella religione. Liberazione e libertà da ogni limite. Anche dal Principio trascendente.

Il Novecento, con le sue follie distruttive attuate con la Shoah, i gulag, le foibe e le fosse comuni, con i bombardamenti atomici e la continua paura di un generale annientamento nucleare, i colonialismi e il loro contrario, ha frantumato l’ottimismo ingenuo e arrogante della razionalità strumentale. Dopo i totalitarismi dei vari Hitler e Stalin ha compreso che la ragione ha sì orientato il cammino di liberazione, sviluppo e benessere dei singoli e dei popoli, ma si è anche tramutata in una logica di oppressione e di dominio2. Di questo calice abbiamo bevuto tutto. Fino in fondo. «Fino al disastro ecologico, al terrorismo estremista, alla tragedia atomica, e solo alla fine ci siamo svegliati senza ideologie e senza rivoluzioni, fermi su un baratro al quale siamo incredibilmente scampati»3.

Remo Bodei, sulla modernità, esprime riflessioni preoccupanti ma meno catastrofiche: «I progetti prometeici della modernità assomigliano alle fiabe in cui il protagonista torna a casa dopo una serie di peripezie. Così le idee moderne della storia progettano il ritorno a una nuova innocenza, la società senza classi, il regno della libertà eccetera. Secondo i teorici del postmoderno, bisogna rendersi conto del carattere casuale della nostra esistenza storica, che non è indirizzata a un fine prestabilito, è piuttosto l’essere esposti a forze difficilmente controllabili. Un grande economista, John Maynard Keynes, diceva che l’inevitabile non accade mai, l’inatteso sempre.

Il ruolo della tecnica ha subito anch’esso variazioni [...]. Come dice Aristotele, si dà scienza di quelle cose che non possono essere diversamente da ciò che sono, mentre il mondo umano della praxis è un mondo in cui le cose possono essere differenti. Il meccanico (da mechanè, “astuzia”) ha un sapere pratico: è come Odisseo che inganna la natura potente, ma stupida, come Polifemo. In età moderna, con Galilei, c’è l’applicazione dell’esattezza al mondo del pressappoco e la meccanica diventa “razionale”. Dal momento in cui le macchine da strumenti astuti diventano applicazioni esatte, comincia il dominio del mondo.

Nel Novecento la tecnica ha avuto uno sviluppo enorme perché sono state conquistate nuove zone dell’esistenza, fino – ed è questa la novità – a incidere sulla materia vivente. Quindi il potere della tecnica è cresciuto ed è cresciuta contemporaneamente la possibilità di controllarlo. Nel XXI secolo, la filosofia dovrà riflettere su questo grande cambiamento della tecnica, che propone problemi non solo conoscitivi, ma anche etici»4.

Nella modernità non tutto è negativo: in essa pulsa ancor più vivacemente una forza. E’ la forza critica della ragione. Che è tale «anche in relazione alle istituzioni di ogni specie, e ciò determina un rapporto critico tra le società segnate dalla modernità e le loro tradizioni e tutto ciò che in esse si produce. Noi siamo, diceva il filosofo Eric Weil (1904-1977), “la tradizione che non è soddisfatta della tradizione”. Questo potere di critica permanente, indubbiamente costitutivo della civiltà occidentale da costituirne la matrice sempre feconda, suppone spiriti idonei a giudicare e a prendere in mano il proprio destino, in particolare attraverso la democrazia, ma certamente senza abbandonarsi a qualsiasi fatalità»5.

Paradossalmente, neppure a quella della ragione totalitaria. Nella postmodernità la razionalità è considerata un aspetto del reale: non ne è più l’unico metro. Da questa correzione di visione nasce l’urgenza di rivedere quel particolare ente che dell’essere, nelle sue dimensioni e profondità, ha la comprensione ed ha coscienza di sé come uno che c’è, esiste, sta, anche se sull’orlo del baratro. In modo ineludibile appare all’orizzonte dell’umanità la questione antropologica.

 

 3. Il neoumanesimo nell’orizzonte della globalizzazione

 Nel postmoderno, di cui già si vedono elementi di dissoluzione, la storia appare come il «kronos dai torti pensieri»6 che frantuma e divora i propri figli, quali le metastorie, le metateorie, la geopolitica ... Spazza via vecchie istituzioni e sradica persone e popoli dalle proprie culture e dai propri valori.

Con la frantumazione del passato, anche recente, l’importanza data all’episodicità e alla accettazione quasi passiva della discontinuità non dovremmo parlare di globalizzazione. E, invece, le prove sono alla portata di tutti. Sono sotto gli occhi incantati di chi vede, finalmente, il mondo non più diviso ma come un grande villaggio, in cui l’uno non è senza l’altro, in un orizzonte di pariteticità. E sono sotto gli occhi anche di quelle persone braccate dal timore della riduzione all’uniformità tecnologica e della relativizzazione delle culture e delle religioni. Peggio ancora, immobilizzati dagli angoscianti interrogativi: «Non si stanno sostituendo agli uomini reali, radicati in determinate culture e religioni, degli uomini virtuali, talmente mobili da non avere più un ancoraggio e da diventare oggetti inconsapevoli delle manipolazioni più subdole perché invisibili?»7. Davvero il nostro futuro sarà post-umano, come tematizza Francis Fukuyama, il teorico della “fine della storia”?8.

Alla globalizzazione, di impronta per lo più capitalistica, connotata in modo neoliberistico, si stanno contrapponendo movimenti umanitari, sociali, religiosi finalizzati alla costituzione di mondi e società alternativi in cui tempo, denaro e ambiente hanno valore umanizzante. L’esperienza della frantumazione, inoltre, «ha favorito la rinascita del bisogno religioso. Essa va di pari passo con la nostalgia per una verità eternamente valida che diventi l’ormeggio nel magma del postmoderno, con la ricerca di valori simbolici, con il bisogno di dare un senso alla domanda sull’autenticità dell’uomo»9.

 

3.1. La persona umana è un tutt’uno. - Nella presentazione di Sofia Vanni Rovighi, Il Sapere filosofico, chi scrive evidenziava come uno dei punti di attenzione e riflessione della donna filosofa (1908-1990) sia sempre stata l’antropologia. «Il discorso antropologico della Vanni Rovighi prende l’avvio proprio dall’io che “mi è dato immediatamente come corporeo”. E fa sua l’affermazione del Sartre di L’être et le néant: “La coscienza del corpo si identifica con l’affettività originaria” [...]. Gli stati affettivi, quali la gioia e il dolore, il benessere fisico o la stanchezza, sono miei, connotano il mio io [...]. Una superficie rettangolare c’è, è presente, ma non fa parte di me. Tale proposta è avanzata partendo dall’attenzione a tutto ciò che è umano, compreso alla luce dell’Incarnazione, e dal profondo umanesimo del pensiero tomista. “L’io che si coglie come corporeo negli stati affettivi (in certi stati affettivi) è lo stesso io che, riflettendo, ha coscienza di conoscere, di contemplare la bellezza, di fare metafisica, ...L’uomo si coglie come uno”»10.

L’enunciazione che la persona è sostanzialmente un tutt’uno è la risposta che la studiosa ha dato ai problemi sollevati dalla filosofia moderna occidentale e correlati all’antropologia. Utilizzando gli esiti di studi rigorosi, soprattutto la via dell’esperienza con cui afferriamo l’unità della nostra persona, ha evidenziato che Cartesio con i suoi dualismi - in particolare con il dualismo corpo-mente - ha sollevato pseudo-problemi che per secoli sono stati ripresentati11.

Sommessamente ma decisamente con l’affermazione dell’unità dell’io - ossia: l’io che si afferra come corporeo negli stati affettivi è lo stesso io che pensa, conosce, vive della bellezza e della verità, e contempla Dio, - si è contrapposta anche agli altri dualismi di origine cartesiana, quali ragione e passione, conoscenza e sensibilità. Per cui, nonostante tutta l’attenzione anche per il pensiero di Hegel, che aveva dimostrato che tutto ciò che è reale è razionale e viceversa, la sua tesi era: non tutto il reale rientra nelle maglie della ragione. E completava la sua visione della persona con un pensiero di Pascal: «L’ultimo passo della ragione è quello di riconoscere che vi è un’infinità di cose che la sorpassano» (Pensées, n. 267). Ad esse si accede attraverso la porta del cuore.

Anche per Carlo Maria Martini la persona è un tutto. Ne parla da biblista e pastore in Sul corpo, Milano 2000, dove con lo stile e il genere letterario “degli appunti, delle annotazioni, degli aforismi” fa balzare dalle pagine bibliche la corporeità dell’essere. «Secondo la Sacra Scrittura l’uomo è considerato come un tutto e il corpo umano è imparentato con la terra e il cielo, è argilla che vive con il soffio vitale di Dio: “Il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente” (Gn 2,7).

«Il corpo vivente è chiamato in genere “carne” - in ebraico basar - carne che vive per lo “spirito” - in ebraico ruah.

«L’uomo dunque è composto di terra e di soffio vitale, e ambedue sono da Dio, creati dalla sua parola. Mentre di ogni vivente è scritto che è creato “secondo la sua specie”, dell’uomo non è detto a quale specie appartenga. E’ infatti di specie divina, creato a “immagine e somiglianza” di Dio anche nella sua corporeità (cfr. Gn 1,27).

«Terra e soffio sono indissolubilmente uniti e insieme in tensione, perché lo spirito ha bisogno della carne per esprimersi e la carne, il corpo, senza il soffio vitale non potrebbe trascendersi»12.

In questo frangente culturale scienziati di varie discipline, siano essi biologi, filosofi, biblisti, teologi..., pare si stiano dando una mano per salvare l’essere umano. Basti scorrere le pagine di qualche volume di rassegna bibliografica. Frequenti sono i titoli riguardanti l’identità personale e la scienza della mente, la ragione e il sentimento, la razionalità delle emozioni, i fondamenti neurobiologici delle emozioni, l’intelligenza emotiva. Il pensiero femminile dedica attenzione alla vita e titola le produzioni con Il problema dell’empatia, Vita activa, Vita della mente, Cuori pensanti, Verso un sapere dell’anima...

 

3.2. Il pensiero femminile. - Finalmente ne possiamo parlare. In quest’epoca di crisi della ragione, delle scienze, in cui «la narrativa della crisi celebra la scomparsa di una grande tradizione»13, «ha fatto irruzione il pensiero femminile o pensiero della differenza sessuale, cioè un sapere nuovo, un parlare diverso, una riflessione in precario equilibrio tra un dire e un detto, tra parola e silenzio [...]. E’ pensiero pensato da donne che fanno del loro essere donne il punto di partenza della loro esperienza pratica e teoretica»14. E, poiché l’esperienza femminile è finalizzata all’armonizzazione di cuore-pensiero-vita, come insegna E. Stein, pensare con il cuore è, per lo più, una connotazione della donna. Ma dovrebbe essere anche dell’uomo. Nessuno dei due dovrebbe farne a meno, perché nel cuore l’io si sente a casa propria. Abitandolo, «i contenuti assorbiti non rimangono solo patrimonio della memoria, ma si possono trasformare in carne e ossa. Possono così diventare fonte di forza, che è dispensatrice di vita»15. Cuore, quindi, come grembo di gestazione del pensiero e dei suoi contenuti con cui plasmare la vita, orientarsi in essa, viverla e aiutare a viverla. In modo umano. Sì, verrebbe da gridare: giù le mani da tutto ciò che è umano. E, per non far morire la civiltà occidentale, ripartiamo dall’umano.

 

3.3. Il nuovo paradigma: umano-disumano. - Nel dialogo a più voci dell’intellighenzia cattolica che legge lo scenario della globalizzazione, l’incontro-scontro di civiltà, il rapporto con l’Occidente e le altre culture, la costruzione dell’Europa, Pierpaolo Donati sostiene: «La cultura occidentale si sta ripensando – o comunque dovrà farlo - ma non sulla scorta delle categorie che hanno segnato la modernità nella gestione di Stato e mercato (liberali-laburisti, oppure destra-sinistra). Ormai ci stiamo allontanando da quelle categorie per confrontarci con un nuovo paradigma, e cioè umano-disumano; siamo infatti in presenza di un processo di neoumanesimo, esaltato e reso ogni giorno più urgente dalla globalizzazione. A partire dal Paese “egemone”, gli Stati Uniti, si pone infatti il problema di una tecnologia pervasiva che ha un carattere disumanizzante. Penso all’eugenetica liberale (con le applicazioni alla procreazione umana e alla biologia) fino alle nuove reti massmediali e ai rischi di manipolazione e controllo che esse comportano. Nel colmare questo divide [n. trad. spartiacque] la cultura cattolica ha un compito primario che non riguarda direttamente la politica, ma i principi fondamentali della cultura e dell’identità umana»16.

Alla luce del mistero dell’Incarnazione che trova compimento in quello della Risurrezione, i cristiani esaminano gli aspetti del paradigma. Con l’intelligenza illuminata dalla fede, con il discernimento spirituale supportato e affinato dall’ascolto e accoglienza della parola di Dio, con la professionalità da acquisire e perfezionare, oserei dire, con “ascetismo”, esplorano gli orizzonti dell’umano, ne analizzano le forze, le potenziano ma non le manipolano, e le difendono da ogni asservimento. Perché sono consapevoli che ogni attentato alla persona umana è un attentato all’ “archetipo” di ogni umanità che è l’uomo Gesù Cristo (cfr. 1Tm 2,5).

Giù le mani dalla persona umana, ripetiamo, perché «molte cose sono mirabili al mondo, ma l’uomo le supera tutte»17. E ancora: «L’uomo è il culmine e quasi il compendio dell’universo e la suprema bellezza dell’intera creazione»18. Perché questa bellezza si mantenga tale, è necessario che anche l’ambiente e gli spazi siano salvaguardati, le città vivibili, il lavoro umanizzato. Ogni tipo di lavoro. Nessuno escluso.

 

3.4. Le diverse culture delle società pluraliste - Interrogativi forti solleva questo sottotitolo: nell’epoca dell’onnipotenza della tecnologia, che mirerebbe all’uniformità globale, e delle frequenti migrazioni di persone si può ancora parlare di culture, di religioni? Non si tende piuttosto alla loro relativizzazione? O già stiamo subendo la cosiddetta “terza cultura” che fa da supporto al “nuovo paradigma” della bioetica?

Suscita inquietudini la lettura dell’articolo Per una visione cristiana della ricerca biomedica di G. Marchesi S.I. Dopo aver fatto sapere che l’arcivescovo Javier Lozano Barragán, presidente del Pontificio Consiglio per la Pastorale della Salute, ha titolato New Paradigm. Roots, Proposals la relazione introduttiva alla IX Assemblea generale della Pontificia Accademia per la Vita (PAV), che si è tenuta in Vaticano il 24-26 febbraio 2003, spiega da quale humus culturale è alimentato il “nuovo paradigma” della bioetica. Dimostra che è l’esito «della “nuova cultura” o “terza cultura” che caratterizza la medicina, soprattutto, nell’ultimo quarantennio [...]. I suoi presupposti sono basati sullo sviluppo globale e sostenibile, sulla qualità della vita (salute fisica e psichica, tenendo conto dell’industrializzazione e del degrado ambientale, dell’inefficacia delle istituzioni, dell’inquinamento dell’ambiente e della produzione del cibo), sulla giustizia sociale, sulla necessità di combattere forme di estremismo religioso e ogni altro genere di estremismo. Lo stesso “nuovo paradigma” propugna, come sesto punto, una nuova “spiritualità” che trascende ogni altra spiritualità e religione. Valori, quali la libera impresa, la sovranità nazionale, le religioni, i dogmi, la legge naturale e i valori tradizionali dovrebbero essere rigettati, poiché sarebbero irrilevanti e avrebbero creato un vuoto etico. Conseguentemente andrebbero creati nuovi valori, gli unici che permetterebbero alla gente di vivere in pace, in libertà, nella giustizia e nella bellezza, nel mutuo rispetto e nell’integrità.

Un presupposto di questa “nuova spiritualità”, il cui traguardo è il benessere dell’individuo nell’orizzonte della prosperità globale e dello sviluppo sostenibile - aspetti in sé condivisibili - è quello relativo alla natura: la natura o terra, chiamata “Gaia”, è “divina e inviolabile”. Si tratta, quindi, di una spiritualità volta unicamente alla vita terrena, senza Dio; anzi, si vorrebbe accettare un nuovo “dio”, costituito appunto dalla terra divinizzata e a cui è assoggettato l’uomo. Ovviamente, secondo tale visione scientista e materialista, lo stesso essere umano, uomo o donna, embrione, feto o concepito, è visto, in quanto vivente, alla stregua di un filo d’erba o di qualunque altro essere vivente, senza nessuna distinzione di qualità»19.

Sarà pervasiva questa visione della persona umana e del mondo? Non avverrà che, dopo aver subíto il fascino delle attuali divinità qui presentate, le culture, con l’apporto delle religioni purificate da incrostazioni e da idoli, ridisegneranno i loro orizzonti perché hanno ritrovato la propria vitalità e specificità? Non torneranno a dialogare fra di loro, anche attraverso la comunicazione globale eticamente condotta, «nella fondamentale prospettiva dell’unità del genere umano, dato storico e ontologico primario, alla luce del quale è possibile cogliere il significato profondo delle stesse diversità»20, e dell’essenziale riferimento al Trascendente? Le culture non sono facilmente “biodegradabili”: poiché non hanno la durata dell’usa e getta, sfuggono, per lo più, all’uso utilitaristico e consumistico del mondo degli oggetti, e trasmettono alle generazioni il senso della vita. A volte in modo intelligente e vivace, a volte in modo appannato o prossimo allo spegnimento. Ma, chissà perché, con qualche residua tenue fiammella pronta a ravvivarsi per illuminare.

Un caso emblematico è il dialogo, in corso in Italia, fra laici e credenti. Se non vado errata, una delle basi d’incontro è stata posta da Carlo Maria Martini con la “Cattedra dei non credenti” istituita nel 1987. E’ stata «una provocazione forte per le coscienze e uno scossone agli schemi culturali consolidati. Non si sarebbe trattato di “conferenze sulla fede”, né di un dibattito o di considerazioni apologetiche, bensì di un “esercizio dello spirito”, un “dialogo interiore”, perché ciascuno di noi “ha in sé un non-credente e un credente”»21. La risonanza dell’iniziativa è andata oltre i confini della diocesi di Milano e dell’Italia, per cui ha detto bene Giovanni Paolo II: «A lungo ne resterà il ricordo»22.

Gli editorialisti fanno partire il dialogo qualche anno dopo: con il crollo dei muri. Paolo Conti, sul Corriere della sera del 24 maggio 2003, titolava il suo articolo - posto nella sezione “Cinema e Libri” alle pp. 1 e 22 - La nuova stagione della cultura cattolica. «La cultura cattolica sta per prendersi in Italia una spiccata rivincita storica? Il sospetto viene da Cannes. “L’uomo ha attraversato un momento di ebbrezza in cui ha pensato di poter dare a se stesso risposte sufficienti. Ma la razionalità ha deluso perché non può offrire soluzioni agli interrogativi fondamentali...”, dice Pupi Avati». Per Andrea Riccardi, le ragioni, fra altre, dell’attenzione alla cultura cattolica sono: “Il tramonto della grande stagione della psicologia come rimedio per tutto. Ecco il ritorno alla spiritualità, al mondo degli umili, della pietà”. A questo materiale Riccardi aggiunge “la paura per la globalizzazione e il terrorismo, il silenzio delle grandi città”. Si può dire che la cultura cattolica offre soluzioni? “Sicuramente degli itinerari da percorrere”».

Nella pagina 21 di «Agorà» di Avvenire del giorno dopo, 25 maggio 2003, Roberto Righetto rispondeva con un editoriale dal titolo Laici e credenti, la cultura non ha steccati. «E’ finito il tempo dell’isolamento totale, a volte compiaciuto, della cultura cattolica, ma anche il complesso di superiorità della cultura laica [...]. Il contributo dei credenti al mondo della cultura, per esempio davanti alle scelte etiche o alle sfide della scienza e della tecnica, o ancora sui temi della pace e della democrazia, non è più ritenuto un optional».

Qualche anno fa ha preso l’avvio anche il Progetto Culturale della CEI. Lo scopo: far dialogare l’esigenza culturale con l’esigenza pastorale. Pur avendo entrambe una propria autonomia e metodologie differenti, esse si incontrano in quelle persone in cui la fede permea la vita e la vita è irradiazione della cultura che attinge la linfa del sapere anche dalla fede. Perché il Progetto sia accolto, la CEI invita alla conversione culturale, «in modo che il Vangelo sia incarnato nel nostro tempo per ispirare la cultura e aprirla all’accoglienza integrale di tutto ciò che è autenticamente umano»23.

 

 4. La vita religiosa femminile e le condizioni di abitabilità degli orizzonti culturali

 Quest’ultima parte dell’articolo è particolarmente indirizzata alle donne consacrate, che vivono in comunità religiosa dentro quella ecclesiale, locale e universale, e quella del proprio popolo e dei popoli in cui sono inviate.

E’ finalizzata a loro anzitutto in quanto donne. Consapevoli che per «un’adeguata ermeneutica dell’uomo, ossia di ciò che è “umano”, è necessario ricorrere a ciò che è “femminile”»24; devono essere poste in condizioni di accostare e approfondire tematiche di antropologia culturale, filosofica, teologica, nella dimensione uni-duale, in cui sia messa in evidenza la radice unitaria di sentimento-pensiero-fede. Così il sentire della donna, orientato dal pensare, illuminato dalla fede pensata e vissuta, diverrà un saper sentire, che si radica nell’humus del mondo vitale e delle esperienze di vita, si affina all’ascolto della propria interiorità in cui incontra Dio e i volti amati o anche indifferenti e, con l’intuitività, si orienta alle cose e al mondo che vive come casa propria. Abitandolo, ne afferra la corporeità attraversata dal respiro profondo dall’anima. Come creatura, lo accudisce e protegge da ogni disumanizzazione dei già citati kronos divoratori, compreso quello il cui sforzo è di cancellare o ignorare le tracce della presenza di Dio in esso... Con il suo saper sentire la vita, naviga in orizzonti culturali aperti al Trascendente e ne coglie anche le dense tenebre del mistero di iniquità. Le culture «hanno bisogno anch’esse di purificazione e di salvezza. L’autenticità di ogni cultura umana, il valore dell’ ethos che essa veicola, ossia la solidità del suo orientamento morale, si possono in qualche modo misurare dal suo essere per l’uomo e per la promozione della sua dignità a ogni livello e in ogni contesto»25.

Fra gli “interlocutori privilegiati e sapienti” nel «dialogo tra fede e vita, cultura e Vangelo, storia e salvezza»26, Bruno Secondin pone anche le donne consacrate. Dal solco tracciato dall’Esortazione Apostolica post-sinodale Vita consecrata, evidenzia: «Il risveglio della coscienza femminile ha mostrato sia la fondatezza delle rivendicazioni (VC 57a) e l’urgenza di eliminare ogni discriminazione (VC 59c), sia la necessità per l’uomo di cambiare i propri schemi mentali e di organizzazione sociale (VC 57a), per una autentica reciprocità (VC 58a): così “il genio femminile” darà davvero vita a un “nuovo femminismo” positivo e liberante per l’umanità intera (VC 58c)»27. Forse che, in questi tempi, il messaggio del femminismo, evangelicamente pensato e vissuto nella reciprocità dei doni e dei carismi, sia lo specifico delle donne consacrate per salvare l’umano? Non lo è stato, prima ancora e in modo originale ed eccelso, di Maria di Nazaret, nel cui grembo il divino si è congiunto sponsalmente con l’umano?

Per abitare il mondo, che presenta i colori delle differenze etniche, culturali e religiosi e le sfumature del pluralismo, per amarlo alla luce dell’Incarnazione-Redenzione-Risurrezione, e comunicare ad esso il Vangelo, è necessario essere donne mature, adulte nella fede e culturalmente preparate. Di per sé lo status stesso di communitas, quale luogo di relazionalità, è condizione di crescita umana, culturale e spirituale: l’intersoggettività dinamica, arricchente, terapeutica aiuta a cogliere del sé e del reale i vari livelli. E non é poco. Nel nostro caso, essendo la communitas convocata dallo Spirito del Signore Gesù, in forza del carisma di consacrazione e dell’ispirazione originaria di fondazione, è o dovrebbe essere una comunità pentecostale, in cui ogni persona e ogni cultura parlano la propria lingua e sono comprese dalle altre. E’, questo, un dono dall’Alto da invocare ogni giorno nella preghiera e da realizzare mediante la comunità stessa, dinamicamente configurata come laboratorio di studio e di dialogo. Mediante la ricerca supportata dal discernimento personale, e comunicata alle consorelle, si creano momenti di attenzione ai problemi dell’operare apostolico, di rettifica di impostazioni, di contenuti e di metodologie, di condivisione attorno alle finalità da perseguire e ai valori da trasmettere. Di conseguenza il laboratorio di studio diviene laboratorio di dialogo e di cultura, perché «la comunicazione genera cultura e la cultura si trasmette mediante la comunicazione»28. Effettivamente in comunità, come in ogni ambiente, piccolo o grande che sia, non si può non comunicare. O parliamo insieme o moriamo insieme. Il dilemma, che è di tutto il pianeta, come sostiene Zygmunt Bauman29, è anche delle comunità religiose.

Le comunità pentecostali sono sollecite «ad ampliare i loro orizzonti nell’interpretazione dei carismi, come risposta alle sfide culturali [...]. Il carisma esprime la nostra modalità di entrare nella storia, di assumerci una parte del compito ecclesiale, di dare forma alla forza salvifica della memoria Christi. Deve essere una memoria che scuote, che apre sentieri nuovi, che sollecita a una nuova fraternità, sempre più ampia. Dobbiamo avere il coraggio di non isolarci al di là del Giordano, a piangere la perdita, ma di scendere alla riva e attraversarlo sempre di nuovo, con l’audacia dei nostri padri e madri»30. Attraversarlo con la forza critica, o discernimento spirituale, acquisita e alimentata dall’attenzione al mondo guardato ad occhi aperti, plasmata dalla parola di Dio, permeata dal carisma di consacrazione e di fondazione a cui armonizzare i carismi personali. Con la testimonianza del nostro essere soggetti di comunità multiculturali e internazionali: per abitare il mondo come comunità alternative alla disumanizzazione, all’uniformità tecnologico-economica che tende a sradicare gente dalle proprie radici culturali e religiose, e all’appiattimento su orizzonti che si chiudono nello scientismo e materialismo. Comunità alternative che, nello slancio della dimensione profetica, si riappropriano dell’orizzonte escatologico. Tendono alla casa del Dio Tri-unità in cui è l’umanità assunta dal Signore Gesù, che è la Sapienza.

   

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