Il luogo della vita
cristiana
IIn un
precedente articolo abbiamo sostenuto che è indispensabile tenere conto
di come il mondo sta cambiando, se si vuole che il Vangelo venga
percepito come una verità decisiva anche per il nostro tempo.
Nell’attuale contesto si configura una modalità di vivere la fede che
abbiamo denominato “cristianesimo planetario”1.
Non è altro che una attualizzazione dell’atteggiamento proposto da Gesù
con la parabola del buon samaritano: l’amore cristiano è un farsi
prossimo, mettersi al servizio delle ferite altrui al di là di ogni
diversità. Come ha fatto Dio con l’umanità, senza fare distinzioni. Al
tempo della globalizzazione, diversamente dal passato, ciò può avvenire
in una condizione di eterogeneità, perché il contatto con il diverso –
per razza, cultura, valori, religione… – è all’ordine del giorno. Il che
vuol dire essere nella situazione di praticare una prossimità davvero
universale, incarnando nel senso più pieno l’insegnamento della
parabola.
La grande rivoluzione che i segni dei tempi prospettano alla Chiesa è
quella di una maggiore estroversione. Non rivolgere il proprio
sguardo solo su se stessa, ma abbracciare con esso il mondo intero. Non
vivere nell’autoreferenzialità di una società tutta cristiana (ormai
tramontata), ma coinvolgersi nella complessità multiforme di una società
pluralista. Il farsi prossimi ai diversi vuol dire testimoniare il
Vangelo in una maniera veramente cattolica.
Non è un’idea di oggi. La si ritrova nel Concilio. Ad esempio, in
apertura della Gaudium et spes si dichiara la solidarietà della
Chiesa con l’intero genere umano. Prima ancora, alcuni precursori
avevano già evidenziato che oggi la missione richiede obbligatoriamente
l’estroversione. H.U. von Balthasar, negli anni Cinquanta, reclamava
l’abbattimento dei bastioni della civitas fortificata in cui la
Chiesa dimorava dal medioevo. Se il mondo è cambiato, la Chiesa non può
arroccarsi, ma deve “tuffarsi” nel tumulto del tempo per acquistare una
nuova sensibilità. Solo così può partecipare alle ansie e speranze di
tutta l’umanità gettando in esse il seme del Vangelo2.
Purtroppo, la svolta conciliare ha esercitato la propria influenza ad un
livello tutto sommato elitario, senza avere ancora permeato diffusamente
la prassi e la spiritualità del cristiano “comune”. Il problema
centrale è senz’altro quello della comunità cristiana. È a questo
livello che il cambio di mentalità non è avvenuto. Non ci sarebbe
nemmeno fede, senza comunità. Ci sarebbe soltanto uno spiritualismo
inconsistente che omologa l’esperienza cristiana ai desideri del
narcisismo individualistico. Il cristianesimo verrebbe così ridotto a
messaggio consolatorio che asseconda i sentimenti soggettivi3.
La fede, invece, è un’esperienza unificatrice: genera comunione con
Cristo nello Spirito, spinge oltre l’autosufficienza. «Dio volle
santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun
legame tra loro, ma volle costituire di loro un popolo» (Lumen
gentium, n. 9). Da qui la celebrazione, l’ascolto della Parola e la
carità che non sono atti individuali, ma comunitari (Atti 2,43-47). A
sua volta, la comunità testimonia la fede tramandandola di generazione
in generazione.
Non a caso il Papa, nel programma della Chiesa per il terzo millennio,
si sofferma sulla realizzazione della comunione, manifestazione di
quell’amore che, sgorgando dal cuore dell’eterno Padre, si riversa in
noi attraverso lo Spirito che Gesù ci dona (cfr. Rm 5,5), per fare di
tutti noi «un cuore solo e un’anima sola» (At 4,32): «Fare della Chiesa
la casa e la scuola della comunione: ecco la grande sfida che ci sta
davanti nel millennio che inizia, se vogliamo essere fedeli al disegno
di Dio e rispondere anche alle attese profonde del mondo» (Novo
millennio ineunte, n. 43).
Ciò si costruisce educandosi ad una spiritualità di comunione,
fondata sul mistero della Trinità che abita in noi, la quale rende
capaci di sentire l’altro come uno che mi appartiene, per saper
condividere le sue gioie e le sue sofferenze, per intuire i suoi
desideri e prendersi cura dei suoi bisogni, per offrirgli una vera e
profonda amicizia. La chiave della nuova evangelizzazione è la comunità,
che sia diocesana, parrocchiale o religiosa.
Mettersi in ricerca
Quale volto di comunità realizza oggi questa spiritualità di comunione?
Come si concretizza tale spiritualità e come viverla?
Si tratta di uscire dalle sabbie mobili dello spiritualismo che proietta
la fede tutta sull’interiorità, senza riferimenti ai modi ordinari di
vita (famiglia, lavoro, rapporti sociali, politica…). Ciò è determinato
dall’odierna cultura diffusa, la quale ha nella coscienza privata –
eletta a criterio assoluto di giudizio morale – e nell’individualismo
dei consumi il suo asse portante4.
La cultura attuale trova oggettivazione in forme del vivere sociale che
nella sostanza sono spesso nettamente divergenti dalla logica
evangelica. «L’identità umana prende forma infatti attraverso un
processo pratico, un processo dunque dell’agire, che ha indubbio profilo
morale. Comporta dunque il rimando ad imperativi dalla cui osservanza
appunto dipende la stessa possibilità per il soggetto di definire la
propria identità»5.
La crisi della fede è connessa al progressivo esaurimento delle pratiche
ecclesiastiche tradizionali; esaurimento, s’intende, della loro capacità
formativa per rapporto alla coscienza personale. Le proposte delle
nostre comunità, lo stile di vita che presentano, non vanno ad incidere
significativamente sui modi di vita ordinari che seguono logiche
proprie. La portata del messaggio evangelico si circoscrive così ad
ambienti ristretti, a circostanze particolari, ad alcuni momenti
rituali, all’intimo del proprio cuore, senza suscitare un’autentica
conversione che investa la vita nella sua totalità.
Ecco in che cosa consiste la ricerca di una spiritualità di comunione a
cui le nostre comunità sono chiamate: dare corpo ad uno stile di vita
il quale incarni l’amore del Dio che condivide nelle situazioni odierne.
Dove con stile di vita si intende un modo di esistere individuale e/o
collettivo connotato da una pluralità di tratti specifici che realizzano
nel quotidiano la sequela. Esso è l’espressione di una fede che
permea i modi ordinari di vita, ne diviene l’orientamento, invece di
rimanere un aspetto marginale. Intanto, le nostre energie si dissipano
nel riprodurre tali e quali le stesse pratiche in attesa di
un’inversione di tendenza che non arriva mai. Al più ci si consola con
il rinnovato prestigio pubblico della Chiesa e con la tentazione di un
senso di identificazione con il cattolicesimo tanto generalizzato quanto
vago e labile.
Nella prospettiva qui adottata diventa irrilevante la contrapposizione
tra chi sostiene le certezze offerte da una Chiesa intransigente nel
mantenere inalterato ogni dettaglio della propria tradizione e chi
persegue l’ideale di una Chiesa che sappia avvicinarsi di più alla
società. La spiritualità di comunione non può consistere
nell’applicazione rigida di uno schema. La nostra testimonianza sarebbe
insopportabilmente povera, se noi non fossimo contemplatori del volto
del Signore: il volto del Figlio, dolente nella passione e nella croce,
splendente nella risurrezione (Novo millennio ineunte, n. 16).
C’è Chiesa solo a partire da Cristo.
Una comunità cristiana che contempla il volto del Signore si preoccupa
innanzi tutto di celebrare e vivere la fede a sua imitazione. Senza
trascurare la propria tradizione, ma senza nemmeno farne una gabbia
paralizzante. La strada di Cristo è quella del dono di sé; seguirlo
richiede molta fedeltà e nel contempo molta libertà. Anche quando ciò
sembra portare su una strada di fragilità e sconfitta. Non è il successo
immediato a fare la qualità della Chiesa, ma la sequela persino sulla
via della croce.
«L’immancabile fragilità della testimonianza cristiana dovrebbe liberare
la Chiesa dallo spirito di “performance” che pervade il mondo attuale
all’insegna della triplice “P”: potere, prestigio, possesso. Nel mondo
postmoderno la Chiesa è invitata a contemplare la kenosi di Dio
in Cristo al fine di testimoniare il suo venire al mondo spoglio di
onnipotenza e rivestito di fragile carne»6.
Se l’essenza del cristianesimo risiede nell’amore di Dio che la
relazione con Gesù offre all’uomo, ne deriva che la qualità cristiana
dell’impegno non è nell’ordine dell’efficienza, ma della testimonianza.
La differenza tra l’impegno cristiano e ogni altra forma di impegno non
risiede in ciò che produce, che pure può e deve essere buono, ma in ciò
che in esso traspare.
Ogni comunità,
pertanto, non può che essere in ricerca per discernere se e come il
proprio stile di vita lascia trasparire nei fatti il volto del Risorto,
l’amore salvifico di Dio per l’umanità, dentro i contesti della vita di
oggi. Senza nascondersi, ma anzi andando incontro a tutti. In questa
prospettiva il dinamismo della fede giunge a maturità quando diviene
stile di vita – personale e comunitario – aperto al mutamento, ma
stabile nel suo orientamento.
Per una comunità responsabile
I tratti di una comunità del genere sono stati efficacemente descritti
da S. Morandini che adotta la denominazione di “comunità responsabile”7.
Egli coniuga la riflessione sulla comunità cristiana con l’esigenza del
nostro tempo di dare luogo ad un rinnovamento degli stili di vita in
direzione della responsabilità per rispondere alla grave crisi etica
contemporanea, come si riscontra anche in diversi documenti del
magistero (p. es. Sollicitudo rei socialis, n. 47; Centesimus
annus, nn. 36.52.58).
La comunità cristiana è il luogo ideale per uno stile di vita rinnovato,
perché esso non è mai solo una creazione individuale, ma è sempre in
qualche misura adottato, ricevuto entro un’intersoggettività. Occorre un
contesto nel quale sia possibile incontrare, apprezzare, sperimentare e
adottare modelli di vita etici anche quando essi siano alternativi alla
mentalità maggioritaria. L’accento sulla responsabilità verso l’altro,
un atteggiamento controcorrente in una società che ha perso riferimenti
etici condivisi e nella quale tende a prevalere la ricerca della
gratificazione istantanea, cioè il vantaggio immediato e personale, sta
a significare in primo luogo il rispetto insindacabile per la dignità
altrui: l’altro è una persona al pari di me e vale tanto quanto me. In
un’ottica di comunione, siamo reciprocamente uniti, ci apparteniamo e le
estraneità vengono meno; la sorte di ciascuno sta a cuore a tutti e le
scelte di comportamento sono conseguenti a tale atteggiamento.
Ripercorriamo ora brevemente i tratti fondamentali della comunità
responsabile presentati da Morandini.
1) Comunità del patto,
cioè comprende se stessa come alleanza dei santi, fondata su un
patto in cui Dio stesso è coinvolto. In essa tutti sono chiamati dalla
Parola di Dio ad un attivo rinnovamento dell’esistenza personale e
comunitaria, che si estende fino ad interessare la dimensione
socio-politica. La comunità cristiana non è mai riducibile ad
aggregazione sociologica o culturale. La radice unificante è il
riferimento al Dio di Gesù Cristo, dentro a una storia di fede, che non
può mai manifestarsi solo esteriormente o ritualisticamente, ma impegna
all’elaborazione creativa di stili di vita efficaci e testimoniali. La
nozione di patto, nel contesto della globalizzazione, implica anche la
creazione di legami di solidarietà con altre comunità per agire insieme,
al di là delle imprescindibili istanze locali. L’intreccio di località e
globalità appare interessante per una comunità ecclesiale che si vuole
profondamente radicata nelle diverse realtà geografiche e culturali, ma
anche capace di proporsi come cattolicità dall’orizzonte planetario che
coniuga unità e diversità.
2) Comunità morale.
Il radicamento in Dio fa sì che la Chiesa non sia fine a se
stessa, ma sia una comunità per gli altri. Strumento di
compimento della volontà di Dio per la vita sulla terra; anticipazione
profetica, nello spazio e nel momento presenti, dell’orizzonte offerto
da Dio agli uomini in Gesù Cristo. In quest’ottica, l’esigenza di stili
di vita responsabili – caratterizzati dalla cura, dall’accoglienza,
dall’essenzialità nell’uso dei beni, dalla giustizia, dal rispetto per
il creato – apparirà imprescindibile per il vissuto comunitario. Essa si
esprimerà, infatti, nella percezione del coinvolgimento di tutti e di
ciascuno nell’agire di Dio per il mondo, nella sua volontà di
realizzare relazionalità buone entro lo spazio sociale.
La Chiesa non solo ha, ma è un’etica di comunione da attuare nei modi
ordinari di vita.
3) Comunità nel mondo.
La sottolineatura della dimensione etica della Chiesa non potrà
tradursi nella pretesa, settaria quanto illusoria, di fare della
comunità l’orizzonte totalizzante dell’esistenza cristiana. Nelle
società complesse, ognuno conduce la propria esistenza in una pluralità
di ambienti (famiglia, lavoro, scuola, consumo, tempo libero…) ben di
rado caratterizzati da unità culturale. Attraversiamo luoghi diversi e
fatichiamo a trovare il filo rosso di un’identità stabile e di un
percorso coerente. Affinché la fede non rimanga un’esperienza marginale
ed estranea al vissuto, il credente e la comunità ecclesiale dovranno
mettere in atto una “lettura dei segni dei tempi”, secondo l’indicazione
della Pacem in terris e della Gaudium et spes. Ciò solleva
due priorità: l’ascolto e la comunicazione.
La prima comporta attenzione alle voci della cultura del nostro tempo
«per discernere i semi del Verbo già presenti in essa anche al di là dei
confini visibili della Chiesa» (Comunicare il Vangelo in un mondo che
cambia, n. 34). L’ascolto fa nascere nei credenti l’impegno a
chiedersi come uno stile di vita che nasce dal Vangelo possa rispondere
con pienezza e persuasività alle istanze del mondo di oggi. La seconda
priorità richiede un impegno a conoscere e impiegare le occasioni di
comunicazione e i linguaggi del nostro tempo per far risuonare il
messaggio cristiano in un mondo complesso e multiforme.
Ascolto e comunicazione sono i due presupposti per dare corpo ad una
comunità che non sia isolata, ma sappia testimoniare il Vangelo nei
luoghi della convivenza, raggiungendo anche i cosiddetti “lontani”. Solo
tenendo presenti entrambe le priorità si possono individuare le linee
portanti di uno stile di vita cristiana che, dentro ai luoghi molteplici
e frammentati del mondo complesso, mostri nei fatti che il meglio per
l’uomo sta dalla parte di Gesù.
4) Comunità che celebra.
È l’incontro con Dio nei sacramenti che alimenta la comunità
cristiana, il suo stile di vita e ne sancisce la specificità rispetto ad
altre forme di aggregazione umana. La celebrazione, parafrasando la
Sacrosantum Concilium, è la fonte da cui la comunità attinge e in
cui la sua vita raggiunge il culmine. Da lì viene lo stimolo ad una
condotta che segua i passi di Gesù. E sempre lì convergono tutti i
momenti del suo itinerario nel mondo. La liturgia, in altre parole, è il
luogo in cui la tela della nostra esistenza – personale e comunitaria –
viene trasfigurata e collegata con la storia di Gesù, per essere
ritessuta all’interno di una più ampia prospettiva escatologica che le
conferisce senso, direzione, vocazione. Nella trasformazione del pane e
del vino si ridisegna pure la nostra collocazione nel mondo, mentre si
apre la possibilità di un nuovo operare. La narrazione liturgica della
storia della salvezza si fa invito ad inserire in essa la nostra storia
– anche nella sua dimensione mondana – orientandola così alla carità.
Liturgia e vita non rimangono momenti separati, chiusi in compartimenti
stagni, ma si compenetrano nel cammino verso l’umanità giusta e fraterna
del Regno. L’Eucaristia appare il punto focale di una vita all’insegna
della carità. Siamo qui agli antipodi di una liturgia che si trascina
per inerzia o si esaurisce nella ossessione della forma.
5) Comunità di formazione.
Una fede autentica e consapevole, alla quale corrispondono stili
di vita secondo il Vangelo, è una fede “adulta e pensata”, capace di
tenere assieme i vari aspetti della vita facendo unità di tutto in
Cristo (Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, n. 50). Ciò
significa che il vero credente non si uniforma passivamente a quel che
riceve da altri, pastori, teologi o leader spirituali… In tal caso si
ridurrebbe ad un contenitore riempito da un’autorità spirituale che
presidia la sua libertà. La scelta della fede, invece, avviene nella
coscienza personale, è esperienza di incontro con Cristo nella mia vita,
ma senza prescindere dalla comunità. Quest’ultima non può essere solo il
contesto che riunisce chi è già adulto nella fede, una sorta di cenacolo
per “eletti” e “illuminati”. La comunità dovrebbe offrire strumenti ed
occasioni per il cammino di fede a persone in situazioni diversificate.
Non cercare aderenti che si adagino nel conformismo, ma stimolare una
ricerca condivisa da parte di persone libere in uno spirito di
collaborazione e corresponsabilità. È proprio per un fatto di carenza
formativa che la vita cristiana viene largamente percepita come
osservanza esteriore di un insieme di norme, esecuzione ritualistica di
atti codificati, piuttosto che come elevazione alla pienezza
divino-umana di Gesù, partecipazione alla comunione trinitaria.
Nell’esperienza diffusa, il credente viene così concepito
inappropriatamente come colui che dipende da un’istituzione religiosa e
dai suoi rappresentanti e ne esegue le direttive.
6) Comunità dialogante.
Non c’è uno stile di vita che sia normativo ed universalmente
valido, come se fosse l’unico in grado di testimoniare la verità del
Vangelo. Anche una comunità potrà (e forse dovrà) esprimere una
pluralità di organizzazioni del discorso etico, senza che questo
implichi relativismo o indifferentismo. La diversità dei percorsi e
delle radici non può essere annullata senza impoverire i singoli e la
comunità stessa. L’intreccio delle relazioni comunitarie deve però
tradursi nella fatica della ricerca di una parola comune in cui si
esprime almeno ciò che è condiviso, pur nel riconoscimento della
distanza che permane. Resta essenziale individuare gli elementi nei
quali si focalizza la dimensione comune, convergenti nella persona di
Gesù Cristo.
Il pluralismo di fatto e l’esigenza di dialogo non sono solo dimensioni
interne. Di fronte alla complessità del mondo, l’alternativa è secca: o
la ritirata nei territori rassicuranti del fondamentalismo da un lato e
dell’apatia dall’altro o l’incontro vivificante sotto il segno del
dialogo. Il quale non è rinuncia alla propria identità. Per dialogare
dobbiamo sapere chi siamo. L’unica opzione che abbia un futuro per il
cristianesimo oggi è andare incontro all’altro con la disponibilità ad
un confronto sincero, abitando i luoghi della convivenza all’insegna di
stili di vita evangelici e collaborando nelle questioni di interesse
comune. Senza l’ossessione di realizzare conversioni, ma rendendosi
docili al soffio dello Spirito. Si tratta di liberarsi dalla pretesa che
la fede dipenda da noi, dalla nostra bravura. La fede è un dono di
grazia, non si trasmette per merito di chi la predica e del suo carisma.
Può essere solo testimoniata lasciando agire lo Spirito in noi e in
coloro che incontriamo nel mondo. Da noi dipende la fiducia nella
Provvidenza, il saper abbandonare i nostri schemi per fare del Vangelo
la sola regola della nostra vita. È un traguardo che richiede umiltà e,
soprattutto, il discernimento e la reciproca correzione che
contraddistinguono un’autentica comunità.
Una comunità responsabile costituisce un segno che annuncia il Vangelo
agli uomini di oggi. Come scrive E. Bianchi: «La verità della fede è
testimoniata dalla verità e dalla bellezza della vita che suscita»8.
E già affermava anticamente san Massimo il Confessore: «La Pasqua genera
la fede. La fede genera l’amore. Questo è tutto il Vangelo». Gli uomini
che si scoprono amati da Dio ne rimangono affascinati e persuasi. Ciò
trasforma tutta la loro vita.
Una comunità responsabile, pertanto, non è altro
che una comunità dei nostri tempi fondata sulla fede pasquale.