n. 9
settembre 2004

 

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Una spiritualità comunitaria
per il terzo millennio

di Christian Albini *

 

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Il luogo della vita cristiana

IIn un precedente articolo abbiamo sostenuto che è indispensabile tenere conto di come il mondo sta cambiando, se si vuole che il Vangelo venga percepito come una verità decisiva anche per il nostro tempo. Nell’attuale contesto si configura una modalità di vivere la fede che abbiamo denominato “cristianesimo planetario”1. Non è altro che una attualizzazione dell’atteggiamento proposto da Gesù con la parabola del buon samaritano: l’amore cristiano è un farsi prossimo, mettersi al servizio delle ferite altrui al di là di ogni diversità. Come ha fatto Dio con l’umanità, senza fare distinzioni. Al tempo della globalizzazione, diversamente dal passato, ciò può avvenire in una condizione di eterogeneità, perché il contatto con il diverso – per razza, cultura, valori, religione… – è all’ordine del giorno. Il che vuol dire essere nella situazione di praticare una prossimità davvero universale, incarnando nel senso più pieno l’insegnamento della parabola.

La grande rivoluzione che i segni dei tempi prospettano alla Chiesa è quella di una maggiore estroversione. Non rivolgere il proprio sguardo solo su se stessa, ma abbracciare con esso il mondo intero. Non vivere nell’autoreferenzialità di una società tutta cristiana (ormai tramontata), ma coinvolgersi nella complessità multiforme di una società pluralista. Il farsi prossimi ai diversi vuol dire testimoniare il Vangelo in una maniera veramente cattolica.

Non è un’idea di oggi. La si ritrova nel Concilio. Ad esempio, in apertura della Gaudium et spes si dichiara la solidarietà della Chiesa con l’intero genere umano. Prima ancora, alcuni precursori avevano già evidenziato che oggi la missione richiede obbligatoriamente l’estroversione. H.U. von Balthasar, negli anni Cinquanta, reclamava l’abbattimento dei bastioni della civitas fortificata in cui la Chiesa dimorava dal medioevo. Se il mondo è cambiato, la Chiesa non può arroccarsi, ma deve “tuffarsi” nel tumulto del tempo per acquistare una nuova sensibilità. Solo così può partecipare alle ansie e speranze di tutta l’umanità gettando in esse il seme del Vangelo2.

Purtroppo, la svolta conciliare ha esercitato la propria influenza ad un livello tutto sommato elitario, senza avere ancora permeato diffusamente la prassi e la spiritualità del cristiano “comune”. Il problema centrale è senz’altro quello della comunità cristiana. È a questo livello che il cambio di mentalità non è avvenuto. Non ci sarebbe nemmeno fede, senza comunità. Ci sarebbe soltanto uno spiritualismo inconsistente che omologa l’esperienza cristiana ai desideri del narcisismo individualistico. Il cristianesimo verrebbe così ridotto a messaggio consolatorio che asseconda i sentimenti soggettivi3. La fede, invece, è un’esperienza unificatrice: genera comunione con Cristo nello Spirito, spinge oltre l’autosufficienza. «Dio volle santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame tra loro, ma volle costituire di loro un popolo» (Lumen gentium, n. 9). Da qui la celebrazione, l’ascolto della Parola e la carità che non sono atti individuali, ma comunitari (Atti 2,43-47). A sua volta, la comunità testimonia la fede tramandandola di generazione in generazione.

Non a caso il Papa, nel programma della Chiesa per il terzo millennio, si sofferma sulla realizzazione della comunione, manifestazione di quell’amore che, sgorgando dal cuore dell’eterno Padre, si riversa in noi attraverso lo Spirito che Gesù ci dona (cfr. Rm 5,5), per fare di tutti noi «un cuore solo e un’anima sola» (At 4,32): «Fare della Chiesa la casa e la scuola della comunione: ecco la grande sfida che ci sta davanti nel millennio che inizia, se vogliamo essere fedeli al disegno di Dio e rispondere anche alle attese profonde del mondo» (Novo millennio ineunte, n. 43).

Ciò si costruisce educandosi ad una spiritualità di comunione, fondata sul mistero della Trinità che abita in noi, la quale rende capaci di sentire l’altro come uno che mi appartiene, per saper condividere le sue gioie e le sue sofferenze, per intuire i suoi desideri e prendersi cura dei suoi bisogni, per offrirgli una vera e profonda amicizia. La chiave della nuova evangelizzazione è la comunità, che sia diocesana, parrocchiale o religiosa.

 

Mettersi in ricerca

Quale volto di comunità realizza oggi questa spiritualità di comunione? Come si concretizza tale spiritualità e come viverla?

Si tratta di uscire dalle sabbie mobili dello spiritualismo che proietta la fede tutta sull’interiorità, senza riferimenti ai modi ordinari di vita (famiglia, lavoro, rapporti sociali, politica…). Ciò è determinato dall’odierna cultura diffusa, la quale ha nella coscienza privata – eletta a criterio assoluto di giudizio morale – e nell’individualismo dei consumi il suo asse portante4. La cultura attuale trova oggettivazione in forme del vivere sociale che nella sostanza sono spesso nettamente divergenti dalla logica evangelica. «L’identità umana prende forma infatti attraverso un processo pratico, un processo dunque dell’agire, che ha indubbio profilo morale. Comporta dunque il rimando ad imperativi dalla cui osservanza appunto dipende la stessa possibilità per il soggetto di definire la propria identità»5. La crisi della fede è connessa al progressivo esaurimento delle pratiche ecclesiastiche tradizionali; esaurimento, s’intende, della loro capacità formativa per rapporto alla coscienza personale. Le proposte delle nostre comunità, lo stile di vita che presentano, non vanno ad incidere significativamente sui modi di vita ordinari che seguono logiche proprie. La portata del messaggio evangelico si circoscrive così ad ambienti ristretti, a circostanze particolari, ad alcuni momenti rituali, all’intimo del proprio cuore, senza suscitare un’autentica conversione che investa la vita nella sua totalità.

Ecco in che cosa consiste la ricerca di una spiritualità di comunione a cui le nostre comunità sono chiamate: dare corpo ad uno stile di vita il quale incarni l’amore del Dio che condivide nelle situazioni odierne. Dove con stile di vita si intende un modo di esistere individuale e/o collettivo connotato da una pluralità di tratti specifici che realizzano nel quotidiano la sequela. Esso è l’espressione di una fede che permea i modi ordinari di vita, ne diviene l’orientamento, invece di rimanere un aspetto marginale. Intanto, le nostre energie si dissipano nel riprodurre tali e quali le stesse pratiche in attesa di un’inversione di tendenza che non arriva mai. Al più ci si consola con il rinnovato prestigio pubblico della Chiesa e con la tentazione di un senso di identificazione con il cattolicesimo tanto generalizzato quanto vago e labile.

Nella prospettiva qui adottata diventa irrilevante la contrapposizione tra chi sostiene le certezze offerte da una Chiesa intransigente nel mantenere inalterato ogni dettaglio della propria tradizione e chi persegue l’ideale di una Chiesa che sappia avvicinarsi di più alla società. La spiritualità di comunione non può consistere nell’applicazione rigida di uno schema. La nostra testimonianza sarebbe insopportabilmente povera, se noi non fossimo contemplatori del volto del Signore: il volto del Figlio, dolente nella passione e nella croce, splendente nella risurrezione (Novo millennio ineunte, n. 16). C’è Chiesa solo a partire da Cristo.

Una comunità cristiana che contempla il volto del Signore si preoccupa innanzi tutto di celebrare e vivere la fede a sua imitazione. Senza trascurare la propria tradizione, ma senza nemmeno farne una gabbia paralizzante. La strada di Cristo è quella del dono di sé; seguirlo richiede molta fedeltà e nel contempo molta libertà. Anche quando ciò sembra portare su una strada di fragilità e sconfitta. Non è il successo immediato a fare la qualità della Chiesa, ma la sequela persino sulla via della croce.

«L’immancabile fragilità della testimonianza cristiana dovrebbe liberare la Chiesa dallo spirito di “performance” che pervade il mondo attuale all’insegna della triplice “P”: potere, prestigio, possesso. Nel mondo postmoderno la Chiesa è invitata a contemplare la kenosi di Dio in Cristo al fine di testimoniare il suo venire al mondo spoglio di onnipotenza e rivestito di fragile carne»6.

Se l’essenza del cristianesimo risiede nell’amore di Dio che la relazione con Gesù offre all’uomo, ne deriva che la qualità cristiana dell’impegno non è nell’ordine dell’efficienza, ma della testimonianza. La differenza tra l’impegno cristiano e ogni altra forma di impegno non risiede in ciò che produce, che pure può e deve essere buono, ma in ciò che in esso traspare.

Ogni comunità, pertanto, non può che essere in ricerca per discernere se e come il proprio stile di vita lascia trasparire nei fatti il volto del Risorto, l’amore salvifico di Dio per l’umanità, dentro i contesti della vita di oggi. Senza nascondersi, ma anzi andando incontro a tutti. In questa prospettiva il dinamismo della fede giunge a maturità quando diviene stile di vita – personale e comunitario – aperto al mutamento, ma stabile nel suo orientamento.

  

Per una comunità responsabile

I tratti di una comunità del genere sono stati efficacemente descritti da S. Morandini che adotta la denominazione di “comunità responsabile”7. Egli coniuga la riflessione sulla comunità cristiana con l’esigenza del nostro tempo di dare luogo ad un rinnovamento degli stili di vita in direzione della responsabilità per rispondere alla grave crisi etica contemporanea, come si riscontra anche in diversi documenti del magistero (p. es. Sollicitudo rei socialis, n. 47; Centesimus annus, nn. 36.52.58).

La comunità cristiana è il luogo ideale per uno stile di vita rinnovato, perché esso non è mai solo una creazione individuale, ma è sempre in qualche misura adottato, ricevuto entro un’intersoggettività. Occorre un contesto nel quale sia possibile incontrare, apprezzare, sperimentare e adottare modelli di vita etici anche quando essi siano alternativi alla mentalità maggioritaria. L’accento sulla responsabilità verso l’altro, un atteggiamento controcorrente in una società che ha perso riferimenti etici condivisi e nella quale tende a prevalere la ricerca della gratificazione istantanea, cioè il vantaggio immediato e personale, sta a significare in primo luogo il rispetto insindacabile per la dignità altrui: l’altro è una persona al pari di me e vale tanto quanto me. In un’ottica di comunione, siamo reciprocamente uniti, ci apparteniamo e le estraneità vengono meno; la sorte di ciascuno sta a cuore a tutti e le scelte di comportamento sono conseguenti a tale atteggiamento.

Ripercorriamo ora brevemente i tratti fondamentali della comunità responsabile presentati da Morandini.

1) Comunità del patto, cioè comprende se stessa come alleanza dei santi, fondata su un patto in cui Dio stesso è coinvolto. In essa tutti sono chiamati dalla Parola di Dio ad un attivo rinnovamento dell’esistenza personale e comunitaria, che si estende fino ad interessare la dimensione socio-politica. La comunità cristiana non è mai riducibile ad aggregazione sociologica o culturale. La radice unificante è il riferimento al Dio di Gesù Cristo, dentro a una storia di fede, che non può mai manifestarsi solo esteriormente o ritualisticamente, ma impegna all’elaborazione creativa di stili di vita efficaci e testimoniali. La nozione di patto, nel contesto della globalizzazione, implica anche la creazione di legami di solidarietà con altre comunità per agire insieme, al di là delle imprescindibili istanze locali. L’intreccio di località e globalità appare interessante per una comunità ecclesiale che si vuole profondamente radicata nelle diverse realtà geografiche e culturali, ma anche capace di proporsi come cattolicità dall’orizzonte planetario che coniuga unità e diversità.

2) Comunità morale. Il radicamento in Dio fa sì che la Chiesa non sia fine a se stessa, ma sia una comunità per gli altri. Strumento di compimento della volontà di Dio per la vita sulla terra; anticipazione profetica, nello spazio e nel momento presenti, dell’orizzonte offerto da Dio agli uomini in Gesù Cristo. In quest’ottica, l’esigenza di stili di vita responsabili – caratterizzati dalla cura, dall’accoglienza, dall’essenzialità nell’uso dei beni, dalla giustizia, dal rispetto per il creato – apparirà imprescindibile per il vissuto comunitario. Essa si esprimerà, infatti, nella percezione del coinvolgimento di tutti e di ciascuno nell’agire di Dio per il mondo, nella sua volontà di realizzare relazionalità buone entro lo spazio sociale.

La Chiesa non solo ha, ma è un’etica di comunione da attuare nei modi ordinari di vita.

3) Comunità nel mondo. La sottolineatura della dimensione etica della Chiesa non potrà tradursi nella pretesa, settaria quanto illusoria, di fare della comunità l’orizzonte totalizzante dell’esistenza cristiana. Nelle società complesse, ognuno conduce la propria esistenza in una pluralità di ambienti (famiglia, lavoro, scuola, consumo, tempo libero…) ben di rado caratterizzati da unità culturale. Attraversiamo luoghi diversi e fatichiamo a trovare il filo rosso di un’identità stabile e di un percorso coerente. Affinché la fede non rimanga un’esperienza marginale ed estranea al vissuto, il credente e la comunità ecclesiale dovranno mettere in atto una “lettura dei segni dei tempi”, secondo l’indicazione della Pacem in terris e della Gaudium et spes. Ciò solleva due priorità: l’ascolto e la comunicazione.

La prima comporta attenzione alle voci della cultura del nostro tempo «per discernere i semi del Verbo già presenti in essa anche al di là dei confini visibili della Chiesa» (Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, n. 34). L’ascolto fa nascere nei credenti l’impegno a chiedersi come uno stile di vita che nasce dal Vangelo possa rispondere con pienezza e persuasività alle istanze del mondo di oggi. La seconda priorità richiede un impegno a conoscere e impiegare le occasioni di comunicazione e i linguaggi del nostro tempo per far risuonare il messaggio cristiano in un mondo complesso e multiforme.

Ascolto e comunicazione sono i due presupposti per dare corpo ad una comunità che non sia isolata, ma sappia testimoniare il Vangelo nei luoghi della convivenza, raggiungendo anche i cosiddetti “lontani”. Solo tenendo presenti entrambe le priorità si possono individuare le linee portanti di uno stile di vita cristiana che, dentro ai luoghi molteplici e frammentati del mondo complesso, mostri nei fatti che il meglio per l’uomo sta dalla parte di Gesù.

4) Comunità che celebra. È l’incontro con Dio nei sacramenti che alimenta la comunità cristiana, il suo stile di vita e ne sancisce la specificità rispetto ad altre forme di aggregazione umana. La celebrazione, parafrasando la Sacrosantum Concilium, è la fonte da cui la comunità attinge e in cui la sua vita raggiunge il culmine. Da lì viene lo stimolo ad una condotta che segua i passi di Gesù. E sempre lì convergono tutti i momenti del suo itinerario nel mondo. La liturgia, in altre parole, è il luogo in cui la tela della nostra esistenza – personale e comunitaria – viene trasfigurata e collegata con la storia di Gesù, per essere ritessuta all’interno di una più ampia prospettiva escatologica che le conferisce senso, direzione, vocazione. Nella trasformazione del pane e del vino si ridisegna pure la nostra collocazione nel mondo, mentre si apre la possibilità di un nuovo operare. La narrazione liturgica della storia della salvezza si fa invito ad inserire in essa la nostra storia – anche nella sua dimensione mondana – orientandola così alla carità. Liturgia e vita non rimangono momenti separati, chiusi in compartimenti stagni, ma si compenetrano nel cammino verso l’umanità giusta e fraterna del Regno. L’Eucaristia appare il punto focale di una vita all’insegna della carità. Siamo qui agli antipodi di una liturgia che si trascina per inerzia o si esaurisce nella ossessione della forma.

5) Comunità di formazione. Una fede autentica e consapevole, alla quale corrispondono stili di vita secondo il Vangelo, è una fede “adulta e pensata”, capace di tenere assieme i vari aspetti della vita facendo unità di tutto in Cristo (Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, n. 50). Ciò significa che il vero credente non si uniforma passivamente a quel che riceve da altri, pastori, teologi o leader spirituali… In tal caso si ridurrebbe ad un contenitore riempito da un’autorità spirituale che presidia la sua libertà. La scelta della fede, invece, avviene nella coscienza personale, è esperienza di incontro con Cristo nella mia vita, ma senza prescindere dalla comunità. Quest’ultima non può essere solo il contesto che riunisce chi è già adulto nella fede, una sorta di cenacolo per “eletti” e “illuminati”. La comunità dovrebbe offrire strumenti ed occasioni per il cammino di fede a persone in situazioni diversificate. Non cercare aderenti che si adagino nel conformismo, ma stimolare una ricerca condivisa da parte di persone libere in uno spirito di collaborazione e corresponsabilità. È proprio per un fatto di carenza formativa che la vita cristiana viene largamente percepita come osservanza esteriore di un insieme di norme, esecuzione ritualistica di atti codificati, piuttosto che come elevazione alla pienezza divino-umana di Gesù, partecipazione alla comunione trinitaria. Nell’esperienza diffusa, il credente viene così concepito inappropriatamente come colui che dipende da un’istituzione religiosa e dai suoi rappresentanti e ne esegue le direttive.

6) Comunità dialogante. Non c’è uno stile di vita che sia normativo ed universalmente valido, come se fosse l’unico in grado di testimoniare la verità del Vangelo. Anche una comunità potrà (e forse dovrà) esprimere una pluralità di organizzazioni del discorso etico, senza che questo implichi relativismo o indifferentismo. La diversità dei percorsi e delle radici non può essere annullata senza impoverire i singoli e la comunità stessa. L’intreccio delle relazioni comunitarie deve però tradursi nella fatica della ricerca di una parola comune in cui si esprime almeno ciò che è condiviso, pur nel riconoscimento della distanza che permane. Resta essenziale individuare gli elementi nei quali si focalizza la dimensione comune, convergenti nella persona di Gesù Cristo.

Il pluralismo di fatto e l’esigenza di dialogo non sono solo dimensioni interne. Di fronte alla complessità del mondo, l’alternativa è secca: o la ritirata nei territori rassicuranti del fondamentalismo da un lato e dell’apatia dall’altro o l’incontro vivificante sotto il segno del dialogo. Il quale non è rinuncia alla propria identità. Per dialogare dobbiamo sapere chi siamo. L’unica opzione che abbia un futuro per il cristianesimo oggi è andare incontro all’altro con la disponibilità ad un confronto sincero, abitando i luoghi della convivenza all’insegna di stili di vita evangelici e collaborando nelle questioni di interesse comune. Senza l’ossessione di realizzare conversioni, ma rendendosi docili al soffio dello Spirito. Si tratta di liberarsi dalla pretesa che la fede dipenda da noi, dalla nostra bravura. La fede è un dono di grazia, non si trasmette per merito di chi la predica e del suo carisma. Può essere solo testimoniata lasciando agire lo Spirito in noi e in coloro che incontriamo nel mondo. Da noi dipende la fiducia nella Provvidenza, il saper abbandonare i nostri schemi per fare del Vangelo la sola regola della nostra vita. È un traguardo che richiede umiltà e, soprattutto, il discernimento e la reciproca correzione che contraddistinguono un’autentica comunità.

Una comunità responsabile costituisce un segno che annuncia il Vangelo agli uomini di oggi. Come scrive E. Bianchi: «La verità della fede è testimoniata dalla verità e dalla bellezza della vita che suscita»8. E già affermava anticamente san Massimo il Confessore: «La Pasqua genera la fede. La fede genera l’amore. Questo è tutto il Vangelo». Gli uomini che si scoprono amati da Dio ne rimangono affascinati e persuasi. Ciò trasforma tutta la loro vita.

Una comunità responsabile, pertanto, non è altro che una comunità dei nostri tempi fondata sulla fede pasquale.

 

   

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