l
cristianesimo, e la vita religiosa in particolare, sono stati sempre
sollecitati, per non dire sfidati, dalla contemporaneità della storia,
della cultura, del pensiero che durante i secoli li hanno attraversati.
Questo capita anche a noi religiosi/e di oggi, chiamati a dare la nostra
testimonianza evangelica nel presente. Ma conosciamo il presente per
poter dare una testimonianza credibile e dialogante con le istanze di
cui esso è portatore? I cambiamenti del mondo che ci circonda non
possono non riguardarci e non possiamo fare a meno di imparare a
leggerli, o avere almeno qualche chiave interpretativa per confrontarci
con essi, per raccogliere la sfida che ci lanciano, in modo da poterla
rilanciare, a nostra volta.
Una consapevolezza forse ce l’abbiamo: siamo
in cammino e ogni situazione vitale che attraversiamo è punto di arrivo
e punto di partenza. Pur se poco, questo può aiutarci a essere aperti e
ospitali verso il presente che ci visita, ci segna e ci trasforma. La
vita religiosa, infatti, non è l’uscita dal mondo o dalla storia, ma una
più intensa e matura immersione in essi; un’immersione che sa ospitare
tutto ciò che è nel mondo e nella storia, incluse le resistenze
inospitali che li attraversano. La vita religiosa sfida questa
inospitalità accogliendola, perché Cristo è il Dio che abbraccia il
mondo e la storia entrandovi, abitando le zone sismiche e dilacerate
della terra, delle relazioni e dei cuori umani.
Il presente ci ricorda che la storia è ancora
e sempre solcata dall’inimicizia e dall’inospitalità, ma come
religiosi/e osiamo anche credere che lo Spirito, soffio agitatore di
forme imprevedibili, sia capace di ribaltare il lato tombale degli
eventi, per avviarci su percorsi di un nuovo sentire, che scoprono, nel
volto dell’altro il riflesso della Differenza divina, il roveto ardente
del Suo insondabile mistero. Il Dio della storia, il Dio di Gesù Cristo
crocifisso è anche l’Energia creatrice di nuove, inedite possibilità che
risorgono dai sepolcri dalle nostre logiche di autosalvezza, facendo
brillare, nell’umile condizione mondana, il sovrappiù della Sua
immaginazione e misericordia creatrice.
A partire da queste considerazioni, possiamo
avventurarci a confrontare la vita religiosa con la cultura, la società
e la storia di oggi. Tuttavia, per comprendere meglio tale rapporto e
ricavarne indicazioni valide, in vista di un dialogo fecondo con la
contemporaneità, è necessario avere uno sguardo complessivo che si
estenda attraverso le varie epoche e raccolga elementi significativi e
utili a ingaggiare questo dialogo-sfida.
Per cominciare, si potrebbe dire che il
doppio versante della questione si coniuga con due dimensioni antiche
quanto il cristianesimo: la vigilanza, che chiede l’attenzione ai
segni dei tempi in cui ci ritrova a vivere, e la testimonianza,
che spinge sempre a rendere ragione della propria fede e, in qualche
modo, della propria vocazione all’interno dell’unica fede.
La vigilanza: la sfida accolta
Per sfidare qualcuno occorre accogliere la
sfida rappresentata dalla sua presenza, ossia, dal suo occupare un tempo
e uno spazio che è anche il nostro. I religiosi e le religiose sono
chiamate/i, anzitutto, ad accorgersi di tale presenza e, in primo luogo,
a vigilare su quel “presente” che è abitato da tante esistenze,
sensibilità e culture. Qui, però, si pone subito un problema che
riguarda la cristianità e, in particolare, la vita religiosa. Questa,
infatti, viene da un’antica tradizione, che è stata segnata da diversi
mutamenti e che, soprattutto, deve fare i conti con svolte epocali,
alcune delle quali non ha ancora metabolizzate.
La vita religiosa, che è nata nell’epoca
patristica e ha contribuito allo svolgimento della lunga storia
medioevale, in tempi più recenti ha dovuto confrontarsi col mondo
moderno, con il quale, forse, non ha raggiunto ancora una situazione di
equilibrio. Ma, cosa ancora più inquietante, mentre sta cercando questo
equilibrio con la modernità, gli si prospetta una nuova fase della
storia, se non, addirittura, una nuova epoca, definita da tanti come
postmoderna. Il religioso e la religiosa vigilante si trovano, così, a
doversi confrontare con la duplice sfida della modernità e della
postmodernità.
a) La sfida moderna: la novità senza
tradizione. -
Di fronte al Medioevo, inteso come un’epoca
particolarmente riuscita nell’integrazione tra fede e cultura, la
modernità è stata recepita, da tanti cristiani e religiosi/e, come una
particolare rottura di quella integrazione. Superati i tempi della
contrapposizione si è tentato, da una parte più o meno consistente della
Chiesa, di accogliere in modo costruttivo la sfida della modernità. Una
sfida a cui la Chiesa non si può sottrarre, se si tiene presente che
l’aggettivo modernus è stato utilizzato nel V secolo proprio per
definire la novità del cristianesimo rispetto all’antico mondo
greco-romano.
La cultura greco-romana (pagana) era stata
definita col termine antiquus per il suo essere pre-cristiana
rispetto a quella cultura; la fede cristiana rappresentava, invece, la
modernità nel senso di ciò che è recente, di ciò che è odierno:
modernus, hodiernus. Il cristianesimo è segnato dal “post”
(post-antico, post-pagano) e dall’“oggi” (recente, attuale, presente).
Col trascorrere dei secoli, però, esso si trova nella necessità di non
smarrire il legame con le proprie origini evangeliche e apostoliche. Il
sempre più marcato legame con la tradizione porta il cristianesimo a
connotare diversamente i termini “antico” e “moderno”, al punto da
invertire la loro valutazione: l’antico diventa la tradizione
cristiana e, quindi, ha un senso positivo, mentre il moderno è
ogni novità che attenta all’autorità di quella tradizione. In epoca
medievale tutto ciò che appare moderno viene visto con sospetto.
Il cristianesimo, nato come modernità finisce
per riqualificarsi come antichità, soprattutto quando insorge quell’epoca
più recente (soprattutto a partire dal XVII secolo) che siamo abituati a
chiamare “moderna”. Avviene, così, che il cristianesimo, nato come il
post-antico, quanto l’antico era pre-cristiano, diventa il pre-moderno,
quanto il moderno si qualifica come post-cristiano. In tutto ciò vi è,
anzitutto, una ragione per così dire formale, secondo la quale ogni
fenomeno culturale, non escluso il cristianesimo, si difende (o attacca)
legandosi al tempo passato o presente (antico o moderno), nel quale
riconosce la propria identità. Vi è, però, anche una ragione più
contenutistica. Nel cristianesimo, e non solo in esso, i numerosi
tentativi di rinnovamento si qualificano, per lo più, come ritorno alle
origini. In altri termini, se la Chiesa si sente una novità radicale
rispetto alla cultura greco-latina, la novità che vive al proprio
interno la sente, per lo più, come ritorno alle autentiche “origini”
della fede. E’ quanto appare, in modo emblematico, nella storia
monastica, dove i ripetuti richiami al rinnovamento coincidono con il
richiamo all’antica regola o alla tradizione primitiva: il cambiamento
ha il valore di una “riforma”, ossia di una novità nella tradizione.
Proprio su questo punto, l’epoca che
definiamo moderna ha prodotto una ben diversa concezione, che porta
dalla riforma alla “rivoluzione”. L’idea della novità, soprattutto a
partire dalla rivoluzione francese, non si qualifica come un ritorno a
fasi precedenti della storia, ma come abbandono di tale passato anche in
ciò che, per il suo valore normativo, era chiamato tradizione. Con la
modernità, infatti, si ha la novità senza tradizione. Questa è la
sfida che il moderno pone al consacrato e alla consacrata. Vi sono,
ovviamente, molti altri aspetti della cultura moderna: si pensi, per
esempio, alla rilevanza assunta dalla sfera individuale e dalla libertà
soggettiva, come pure dalla razionalità oggettiva e dall’autorità della
scienza rispetto a qualsiasi altra autorità. Con alcune di queste
espressioni della modernità, la vita consacrata sembra aver fatto i
conti già da tempo, mentre di altre si può già decretare
l’invecchiamento se non il decesso.
La questione centrale è costituita, a mio
avviso, dalla suddetta concezione del rinnovamento come rivoluzione,
dove la novità non viene più legittimata ricorrendo alle fonti, alle
origini, alla tradizione. Sebbene sia impensabile per la vita religiosa,
come per tanti altri fenomeni culturali, esibire un’identità che non
mutui almeno alcune caratteristiche dal passato, rimane insuperabile
l’esigenza (la sfida) di sapere integrare in quell’identità anche ciò
che non è mai esistito nel passato.
b) La sfida postmoderna: la differenza senza
fondamento. -
Le vergini imprudenti corrono ai ripari,
quando è ormai troppo tardi. Il tempo trascorso segna l’avvento di una
nuova epoca nella quale suona l’inesorabile parola del Dio della storia:
«Non vi conosco». Può avvenire qualcosa di simile ai religiosi e alle
religiose, che assopiti nella notte della tradizione non sono stati
pronti all’avvento della modernità, oppure che si affannano per
rincorrere il moderno, ma non si accorgono della nuova alba, nella quale
brillano altri colori, o emergono altre zone buie.
Il postmoderno, avanzando tra luci e ombre,
mette comunque in discussione alcuni miti della modernità, come
l’indiscussa fiducia nella ragione, nel progresso tecnico-scientifico,
nell’illuminato dominio dell’uomo sulla natura. Questo atteggiamento
critico non deve far dimenticare che almeno su un punto il postmoderno è
in linea con il moderno: in quell’atteggiamento critico, appunto, inteso
come superamento del passato, in nome di una novità che non si legittima
solo grazie al passato. Sappiamo che tutta la storia dell’umanità può
essere letta secondo questa dinamica: un presente che in parte dipende
dal passato e che in parte si emancipa da esso. La modernità e la
postmodernità, però, sembrano avere preso piena coscienza di una tale
dinamica, includendo nella propria ottica non solo le riforme ma anche
le rivoluzioni.
Se ora consideriamo le caratteristiche del
postmoderno, possiamo affermare che, al di là delle complesse dinamiche
che ne sono state fatte, i punti nodali possono riassumersi
nell’insistenza sul problema ecologico, nell’atteggiamento tollerante e
nel valore attribuito alla differenza. Nonostante le tante eccezioni,
sembra innegabile una nuova sensibilità tanto verso l’ambiente naturale,
quanto verso i gruppi sociali; una sensibilità decisamente avversa a
quell’atteggiamento che postula la subordinazione dell’ambiente alla
razionalità tecnica e l’assorbimento delle diverse società nell’unico
modello occidentale. In entrambi i casi emerge il principio della
“differenza”: sia la natura, sia le diverse culture umane devono essere
rispettate nella loro alterità rispetto alla razionalità tecnica e alla
civiltà occidentale.
Come è stato osservato, la differenza è
una delle parole d’ordine della cultura postmoderna. Anche il
cristianesimo antico e il mondo contemporaneo hanno il senso della
differenza. Nell’ambito del vissuto ecclesiale, infatti, sono ammesse
diverse espressioni teoriche e pratiche, anche se all’interno di una
visione globale unitaria e, soprattutto, entro il fondamento
inalienabile della fede. La modernità sembra ugualmente sensibile alle
differenze, promuovendo anche quelle escluse dalla cultura cristiana, ma
rimanda, o almeno presuppone, a qualcosa di universale e necessario che
non può essere negoziato: la razionalità argomentativa e dimostrativa.
In tutti i casi, si ha la differenza a partire dal fondamento.
La postmodernità compie un passo decisivo
verso l’abbandono di ogni riferimento universale e necessario. Si pensi,
per esempio, al rapporto che essa instaura con la tradizione. Il
postmodernismo, con il suo eclettismo accoglie la tradizione o per lo
meno le tradizioni, anziché respingerle spavaldamente come il modernismo,
ma così facendo le relativizza tutte, promuovendo una novità radicale
rispetto a quella concezione secondo la quale ogni tradizione
assolutizza se stessa. In questo caso, è il criterio stesso di identità
che cambia: Il sé postmoderno si pensa piuttosto come entità
discontinua, come un’identità (o una serie di identità) costantemente
plasmata e riplasmata in un tempo neutro.
Così facendo, la stessa verità non è più
formulata come unica, ma intesa come singola interpretazione, come
formulazione singola, com-possibile con infinite altre. Il mondo
contemporaneo è sempre più segnato da questo pluralismo, che spesso si
trasforma nel vuoto ideologico, nell’assenza di ogni senso e di ogni
orientamento. Poiché non vi è alcuna formulazione che possa esaurire la
verità, poiché non vi è nessun grande racconto che orienti in modo
fondativo l’esistenza, il pensiero risulta inevitabilmente debole, ossia
un infinito gioco interpretativo che non raggiunge mai un referente
forte.
Per certi versi il postmoderno può essere
definito come il cimitero delle grandi illusioni. Esso decreta la morte
di Dio, dell’uomo, della comunità, del soggetto, della ragione. In tutti
questi decessi si registra la scomparsa di identità forti e fondanti:
identità che in passato erano caratterizzate dalla necessità e
dall’universalità. Oggi, l’interesse è sempre più rivolto al contingente
che appare nella fluorescenza delle immagini massmediali.
La realtà, come cosa in sé, è
l’inimmaginabile e, quindi, l’irreale. Ciò appare, soprattutto, se si
considera il lento ma inarrestabile abbandono di quella ricerca
dell’universale che ha caratterizzato, sia pure con modelli molto
diversi, tanto l’antichità (pagana e cristiana) quanto la modernità. Ora
emerge il valore del particolare, del singolare, che non può essere
subordinato a un punto di vista ritenuto assoluto, perché universale. La
differenza tra le parti (tra gli individui, le società o le culture) è
così radicale da non ammettere un fondamento universale che la superi:
tutto è differenza senza fondamento.
La vita religiosa, che dalla modernità
riceveva la sfida del nuovo senza tradizione, ora, dalla postmodernità,
riceve la sfida della differenza senza fondamento.
La testimonianza: la sfida lanciata
La sfida accolta è già, in parte, un modo di
“sfidare”, dato che si accetta il confronto proponendo la propria
presenza. La presenza religiosa, presa nella sua globalità, potrebbe
essere intesa come riconfigurazione della novità e della
differenza: una riconfigurazione che, a mio avviso, dovrebbe
assumere il volto dell’esodo e dell’eccedenza.
a) L’esodo come cifra religiosa della
novità. -
Nella vita religiosa tutto sembra derivare
dalla tradizione. Il profilarsi statico dei monaci negli stalli sembra
la negazione più radicale di ogni cambiamento, di ogni novità, di ogni
proposta che trasgredisca le consuetudini fissate nel passato. Tutto è
così pesante da apparire inamovibile. Questo atteggiamento però, se ci
si riflette un momento, può essere interpretato in modo molto diverso o
addirittura opposto. Per un verso, si può osservare che l’estrema
staticità della vita monastica costituisce una sfida formidabile e,
anzi, una vera e propria “novità” rispetto alla velocità delle mode e
alla frenesia degli impegni che caratterizzano le società moderne.
La novità della vita religiosa consisterebbe
proprio nel non rincorrere affannosamente la novità! Anzi,
consisterebbe nel non correre affatto, ma nello “stare”. Ma dove “sta”
il religioso, la religiosa? Qual è il luogo del suo “stare”? Cercare
delle differenze nelle cose che fa, o nel modo in cui le fa, è
indubbiamente corretto, ma può anche ingenerare illusione e confusione.
Una questione centrale è quella del modo di
vivere il tempo. Anche su questo punto, però, si possono ingenerare
delle illusioni. Si può sentire un forte disagio tanto in una vita
frenetica quanto in una vita rallentata. In entrambi i casi, il tempo
viene vissuto come un processo inesorabile che ci pone tra passato e
futuro, tra vecchio e nuovo, tra antico e moderno. La modernità ha
provato a rompere la continuità inesorabile del tempo e della storia
trovando nel lavoro, nell’impegno, nella trasformazione del mondo la
novità senza tradizione che propugna. Ma tutto ciò, pure ottimo, non è
bastato. Non è riuscita e non riesce a interrompere l’inesorabile fluire
del tempo. Occorre qualcosa che riesca ad interrompere la logica stessa
del lavoro. Che cosa? La preghiera.
La preghiera costituisce l’interruzione del
lavoro, dell’ufficio. Essa non è un altro lavoro, un altro
“ufficio”, ma l’interruzione della logica stessa di qualsiasi lavoro o
ufficio. Se durante la preghiera si lavora, allora non si prega. Il
lavoro si può sospendere per riposarsi e ricrearsi, ma questo spazio
extralavorativo non ha a che fare con il senso dell’esistenza.
Per il consacrato e per la consacrata,
invece, la preghiera, che è extralavorativa, è il senso dell’esistenza.
Anzi essa è il senso dell’esistenza proprio perché è extralavorativa,
ossia perché scorge un centro diverso dall’Io, dalle sue capacità, dalle
sue realizzazioni, dal suo tempo… dalla sua tradizione. In tal modo il
consacrato, o la consacrata, vive la novità senza tradizione, non perché
ne abbandona una, per esempio quella antica, per assumerne un’altra, per
esempio quella moderna, ma perché sospende la logica di ogni tradizione,
ossia il primato dell’uomo che fa la storia. Si potrebbe subito
obiettare che la vita religiosa ha una tradizione, ma nell’atto
inoperoso della preghiera, l’orante abbandona ogni radice e ogni
tradizione. Il primato che la vita consacrata riconosce alla preghiera è
il primato di una “novità inoperosa” che è veramente una “novità senza
tradizione”. Indubbiamente, la preghiera è una caratteristica di tutta
la comunità credente. Il consacrato, o la consacrata, si limita a
sottolineare l’importanza che per la fede ha ciò che, di per sé, è di
ogni credente: la preghiera nella sua forma inoperosa. L’esodo
del consacrato, o della consacrata, si pone proprio in questa
sottolineatura: l’uscita dalla logica operosa dell’Io che fa la storia e
la tradizione, verso la logica gratuita dell’Io decentrato.
Evidentemente, anche la preghiera è parte di una tradizione, ma il punto
è che nel momento in cui si compie “non” viene vissuta come tradizione:
si prega veramente quando non ci si accorge di pregare! Il tempo è
sospeso. Così si compie veramente l’esodo, ossia il passaggio da un
tempo misurato sull’Io, verso il tempo smisurato della grazia.
b) L’eccedenza come cifra religiosa della
differenza. -
La sfida più impegnativa viene, forse, dal
postmoderno, dato che in esso non vi sono più preclusioni né verso il
vecchio né verso il nuovo, ma tutto sembra perdersi nelle innumerevoli
proposte, prospettive, tradizioni, culture, senza alcun riferimento
stabile. Le differenze tendono a essere rispettate in un giudizio che le
rende equivalenti: ma proprio questa equivalenza finisce per smarrire
ogni possibilità di orientamento, indebolendo il senso delle cose e
rendendo tutto indifferente. La differenza senza fondamento può portare
alla negazione della differenza, all’in-differenza. Il cristiano
che vuole essere il più possibile aperto al mondo e alle diverse culture
dell’umanità, talvolta sembra smarrire la specificità irrinunciabile
della propria fede. D’altra parte, chi insiste su questa specificità,
non raramente mostra il volto dell’aggressore e del colonizzatore,
incapace di cogliere le ragioni degli altri modi di vedere.
In entrambi i casi, a mio avviso, vi è una
eccessiva concentrazione o attenzione a conoscere e spiegare il mondo a
partire dal mondo stesso (introversione mondana). Come cristiani noi
siamo nel mondo, ma non del mondo. L’incarnazione di Dio porta
inevitabilmente a porre l’attenzione al mondo e alla storia. Il rischio
è di in-tendere questo mondo nella sua spiegazione ideologica,
sia pure di matrice cristiana. Tanto il pluralismo quanto l’integralismo
possono muoversi su questo versante ideologico, dove il fondamento o è
troppo lontano e quasi perduto, o troppo vicino e quasi posseduto.
La vita consacrata è non tanto un’alternativa
al mondo, quanto un appello a quello che chiamerei “estroversione
mondana”, dove si assume tutto il mondo per tendere verso ciò che è al
di là del mondo e, soprattutto, al di là delle ideologie che spiegano il
mondo. Quante volte abbiamo sentito dire che il cristiano è colui che
guarda il mondo con gli occhi di Dio. L’interesse per il mondo da parte
di una religiosa deve essere perciò sgombro di una volontà di dominio
sul mondo stesso. La vita religiosa non si oppone al mondo, ma sospende
l’interesse di dominio su di esso. Anzi, proprio perché volge il suo
interesse a Dio, accetta più profondamente la sua condizione mondana. La
vita religiosa è il mondo che, nell’umile e debole condizione mondana,
volge lo sguardo a Dio.
Questa che abbiamo chiamato “estroversione
mondana” non passa attraverso un sistema ideologico fatto di concetti
universali, ma attraverso un’esperienza concreta fatta di incontri
singolari. Il religioso, o la religiosa, incontra Dio nella sua
“differenza”, si volge a Lui nella sua singolarità. Il singolare
espone sempre alla differenza dell’altro, sia esso Dio, sia esso essere
umano. Quando l’altro è Dio, però, quella differenza è senza limiti,
eccede ogni possibile confine, è un’eccedenza. Proprio questa
differenza eccedente di Dio fonda la vita consacrata, le dà senso e la
spinge a testimoniare il Vangelo che la abilita, a incontrare e a
ospitare qualsiasi differenza, come faceva Gesù, che riconosceva,
nell’eccedenza e nella differenza del Padre, il suo fondamento.
Il senso dell’esistenza e del mondo non
consiste nell’aver capito. Il senso del mondo e dell’esistenza è
il senso di appartenere a qualcuno anche se non si sa quasi nulla di
lui; fondamento non è ciò che viene compreso ma l’incomprensibile
mistero di Dio. Il consacrato, o la consacrata, è colui, o colei, che si
espone al desiderio di tale mistero e vuole testimoniarlo. Desiderare
veramente qualcuno significa chiedere di farsi ospitare nel suo mistero.
Essere ospitati da questo mistero di massima differenza (totalmente
altro) ci abilita ad ospitare come consacrate/i qualunque differenza. A
questo possiamo e dobbiamo prepararci oggi, se vogliamo testimoniare il
Vangelo.
Tra vigilanza e testimonianza, l’ospitalità
Il valore della testimonianza è proporzionale
alla capacità di vigilanza. Come religiosi/e non possiamo proporre la
nostra “sfida” senza lasciarci sfidare, non possiamo proporre una
“conversione” senza convertirci. Solo lo spirito di fede, condiviso nel
dialogo, può aiutare i discepoli a discernere ciò che è da abbandonare e
ciò che è da accogliere. Tutto nasce, per la persona consacrata, dalla
“simpatia” per Cristo, ossia dal pathos coinvolgente che si attua
nell’ascolto. Ascolto dentro e fuori le mura del convento o della
comunità. Un ascolto che abolisce ogni dominio e consiste in una vita
sentita con altri: è la sim-patia dell’ascolto.
Tale atteggiamento di testimonianza è molto
vicino a un’altra dimensione della vita consacrata: la comunione. Questa
oggi ci chiede di farci prossimi alla periferia e scoprire la città
degli altri, metterci in relazione con loro, entrare in dialogo,
ospitare ed essere ospitati, rendendoci reciprocamente onore. Sono,
ormai, tante le diversità che quotidianamente bussano alle porte dei
nostri conventi e chiedono una risposta da parte nostra, una
testimonianza. La prima testimonianza evangelica, di grande attualità
per l’oggi, mi pare proprio ospitare il diverso, lo straniero, chi la
pensa diversamente da noi.
Ospitare rientra tra le cose in-utili
ed è ciò che ci spetta di fare come servi inutili del Vangelo, riguardo
al mondo contemporaneo e alle sfide che lancia, in modo da rendere onore
proprio a ciò che è in-utile, ossia a ciò che vale per se stesso.
Sta a noi religiose/i cogliere il valore dell’oggi con tutta la sua
complessità, ma anche la sua bellezza. Come ha fatto Cristo.
L’ospitalità, infatti, è un atteggiamento “cristologico”, un
atteggiamento di fondo che Cristo ha mostrato nei riguardi di qualsiasi
diversità, ma che anche noi possiamo mettere in atto, dato che
nell’ospite scorgiamo Cristo, anche quando non appartiene alla nostra
comunità, alle nostre sicurezze umane e spirituali. Anzi, l’ospite è
tale perché è prossimo alla casa che abitiamo, proprio perché è da noi
ospitato. L’ospitalità è una casa aperta: non tanto un edificio, ma un
“Io” aperto. L’apertura è la cifra dell’ospitalità. Ma l’apertura è
precisamente l’opposto dell’esclusione, del rifiuto, della
discriminazione. Un’apertura che discrimina è una mascherata: la cattiva
maschera della chiusura. Indubbiamente, devono essere posti dei limiti
fisici all’ospitalità intesa come accoglienza in un edificio; ma non
possono essere posti dei limiti all’ospitalità intesa come capacità di
incontro, anche fuori dall’edificio.
Qui vi è un punto fondamentale. L’ospitalità
è come la porta di una casa: serve tanto per entrare quanto per uscire.
Se la porta serve solo per entrare, la casa è una prigione. Il
religioso, o la religiosa, è ospitale non solo perché incontra le
persone che entrano, ma anche perché le incontra uscendo. Le due
funzioni della porta, l’entrata e l’uscita, sono decisive, dato che
l’esclusione di una, prima o poi, porta all’esclusione, almeno
psicologica, dell’altra. Un’ospitalità reclusa agevola più la chiusura
che l’apertura, ossia agevola un atteggiamento inospitale, fatto di
discriminazioni e di esclusioni. Il religioso, o la religiosa, è
ospitale se, dentro o fuori del convento, incontra qualsiasi tipo di
persona, cogliendo nella differenza di origine, di sesso, di
professione, di vocazione, di religione un modo di incontrare la grande
Differenza divina. Qualsiasi tipo di chiusura che si oppone a questa
logica della differenza è propriamente in-differenza:
indifferenza, più o meno esplicita, verso gli uomini e, infine, verso
Dio.
L’ospitalità pone la vita religiosa a
confronto con se stessa e, prima di tutto, con la propria fede. Cristo è
il Dio che entra nel mondo: chi ne esce non è da Dio. La vita consacrata
non è l’uscita dal mondo, ma una più intensa e matura immersione in
esso: un’immersione che sa ospitare tutto ciò che è nel mondo. Il fatto
è che il mondo rifiuta se stesso, perché in esso vi sono divisioni,
lotte, pregiudizi, discriminazioni. Nel mondo c’è sempre qualcuno che
rifiuta qualcun altro. Nel mondo di oggi c’è l’inospitalità.
La vita religiosa è chiamata a dare la sua
testimonianza evangelica e le ragioni della sua speranza sfidando questa
inospitalità, sfidando il mondo proprio accogliendolo. Il mondo non
accoglie se stesso: questo è lo spirito che la vita religiosa rifiuta.
Ma il rifiuto dello spirito (inospitale) del mondo consiste proprio
nell’accoglienza (ospitale) del mondo. Dio ha creato il mondo, ma il
nemico ha spinto i primi uomini a rifiutare il loro stato di creature
mondane per “diventare come Dio”. Siamo, invece, a “immagine e
somiglianza di Dio” proprio quando accettiamo di essere le creature
mondane che sono uscite dalle mani di Dio. Perché su questo punto non ci
fosse alcun inganno, Dio si è fatto uomo, carne, creatura mondana, da
accogliere con amore.
Siamo “a immagine e somiglianza di Dio” non
perché siamo “come” Dio, ma perché siamo mondo: esseri creati. Pertanto
siamo chiamati ad accogliere come tali noi stessi e gli altri nel mondo
che con essi condividiamo. Questo è il mistero, tanto mondano quanto
divino, da testimoniare nella nostra vita consacrata. Come per la
Trinità santa, anche per noi il massimo della comunione con il mondo
rivela il massimo della differenza. Questa divina e umana ospitalità
siamo chiamati a testimoniare, oggi, alle sfide del nostro tempo**.