n. 6
giugno 2005

 

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COME LEGGERE IL PRESENTE
per esprimere in forme nuove
la cultura evangelica

di Giuseppe Chicchi*

 

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Il cristianesimo, e la vita religiosa in particolare, sono stati sempre sollecitati, per non dire sfidati, dalla contemporaneità della storia, della cultura, del pensiero che durante i secoli li hanno attraversati. Questo capita anche a noi religiosi/e di oggi, chiamati a dare la nostra testimonianza evangelica nel presente. Ma conosciamo il presente per poter dare una testimonianza credibile e dialogante con le istanze di cui esso è portatore? I cambiamenti del mondo che ci circonda non possono non riguardarci e non possiamo fare a meno di imparare a leggerli, o avere almeno qualche chiave interpretativa per confrontarci con essi, per raccogliere la sfida che ci lanciano, in modo da poterla rilanciare, a nostra volta.

Una consapevolezza forse ce l’abbiamo: siamo in cammino e ogni situazione vitale che attraversiamo è punto di arrivo e punto di partenza. Pur se poco, questo può aiutarci a essere aperti e ospitali verso il presente che ci visita, ci segna e ci trasforma. La vita religiosa, infatti, non è l’uscita dal mondo o dalla storia, ma una più intensa e matura immersione in essi; un’immersione che sa ospitare tutto ciò che è nel mondo e nella storia, incluse le resistenze inospitali che li attraversano. La vita religiosa sfida questa inospitalità accogliendola, perché Cristo è il Dio che abbraccia il mondo e la storia entrandovi, abitando le zone sismiche e dilacerate della terra, delle relazioni e dei cuori umani.

Il presente ci ricorda che la storia è ancora e sempre solcata dall’inimicizia e dall’inospitalità, ma come religiosi/e osiamo anche credere che lo Spirito, soffio agitatore di forme imprevedibili, sia capace di ribaltare il lato tombale degli eventi, per avviarci su percorsi di un nuovo sentire, che scoprono, nel volto dell’altro il riflesso della Differenza divina, il roveto ardente del Suo insondabile mistero. Il Dio della storia, il Dio di Gesù Cristo crocifisso è anche l’Energia creatrice di nuove, inedite possibilità che risorgono dai sepolcri dalle nostre logiche di autosalvezza, facendo brillare, nell’umile condizione mondana, il sovrappiù della Sua immaginazione e misericordia creatrice.

A partire da queste considerazioni, possiamo avventurarci a confrontare la vita religiosa con la cultura, la società e la storia di oggi. Tuttavia, per comprendere meglio tale rapporto e ricavarne indicazioni valide, in vista di un dialogo fecondo con la contemporaneità, è necessario avere uno sguardo complessivo che si estenda attraverso le varie epoche e raccolga elementi significativi e utili a ingaggiare questo dialogo-sfida.

Per cominciare, si potrebbe dire che il doppio versante della questione si coniuga con due dimensioni antiche quanto il cristianesimo: la vigilanza, che chiede l’attenzione ai segni dei tempi in cui ci ritrova a vivere, e la testimonianza, che spinge sempre a rendere ragione della propria fede e, in qualche modo, della propria vocazione all’interno dell’unica fede.

 

La vigilanza: la sfida accolta

Per sfidare qualcuno occorre accogliere la sfida rappresentata dalla sua presenza, ossia, dal suo occupare un tempo e uno spazio che è anche il nostro. I religiosi e le religiose sono chiamate/i, anzitutto, ad accorgersi di tale presenza e, in primo luogo, a vigilare su quel “presente” che è abitato da tante esistenze, sensibilità e culture. Qui, però, si pone subito un problema che riguarda la cristianità e, in particolare, la vita religiosa. Questa, infatti, viene da un’antica tradizione, che è stata segnata da diversi mutamenti e che, soprattutto, deve fare i conti con svolte epocali, alcune delle quali non ha ancora metabolizzate.

La vita religiosa, che è nata nell’epoca patristica e ha contribuito allo svolgimento della lunga storia medioevale, in tempi più recenti ha dovuto confrontarsi col mondo moderno, con il quale, forse, non ha raggiunto ancora una situazione di equilibrio. Ma, cosa ancora più inquietante, mentre sta cercando questo equilibrio con la modernità, gli si prospetta una nuova fase della storia, se non, addirittura, una nuova epoca, definita da tanti come postmoderna. Il religioso e la religiosa vigilante si trovano, così, a doversi confrontare con la duplice sfida della modernità e della postmodernità.

a) La sfida moderna: la novità senza tradizione. - Di fronte al Medioevo, inteso come un’epoca particolarmente riuscita nell’integrazione tra fede e cultura, la modernità è stata recepita, da tanti cristiani e religiosi/e, come una particolare rottura di quella integrazione. Superati i tempi della contrapposizione si è tentato, da una parte più o meno consistente della Chiesa, di accogliere in modo costruttivo la sfida della modernità. Una sfida a cui la Chiesa non si può sottrarre, se si tiene presente che l’aggettivo modernus è stato utilizzato nel V secolo proprio per definire la novità del cristianesimo rispetto all’antico mondo greco-romano.

La cultura greco-romana (pagana) era stata definita col termine antiquus per il suo essere pre-cristiana rispetto a quella cultura; la fede cristiana rappresentava, invece, la modernità nel senso di ciò che è recente, di ciò che è odierno: modernus, hodiernus. Il cristianesimo è segnato dal “post” (post-antico, post-pagano) e dall’“oggi” (recente, attuale, presente). Col trascorrere dei secoli, però, esso si trova nella necessità di non smarrire il legame con le proprie origini evangeliche e apostoliche. Il sempre più marcato legame con la tradizione porta il cristianesimo a connotare diversamente i termini “antico” e “moderno”, al punto da invertire la loro valutazione: l’antico diventa la tradizione cristiana e, quindi, ha un senso positivo, mentre il moderno è ogni novità che attenta all’autorità di quella tradizione. In epoca medievale tutto ciò che appare moderno viene visto con sospetto.

Il cristianesimo, nato come modernità finisce per riqualificarsi come antichità, soprattutto quando insorge quell’epoca più recente (soprattutto a partire dal XVII secolo) che siamo abituati a chiamare “moderna”. Avviene, così, che il cristianesimo, nato come il post-antico, quanto l’antico era pre-cristiano, diventa il pre-moderno, quanto il moderno si qualifica come post-cristiano. In tutto ciò vi è, anzitutto, una ragione per così dire formale, secondo la quale ogni fenomeno culturale, non escluso il cristianesimo, si difende (o attacca) legandosi al tempo passato o presente (antico o moderno), nel quale riconosce la propria identità. Vi è, però, anche una ragione più contenutistica. Nel cristianesimo, e non solo in esso, i numerosi tentativi di rinnovamento si qualificano, per lo più, come ritorno alle origini. In altri termini, se la Chiesa si sente una novità radicale rispetto alla cultura greco-latina, la novità che vive al proprio interno la sente, per lo più, come ritorno alle autentiche “origini” della fede. E’ quanto appare, in modo emblematico, nella storia monastica, dove i ripetuti richiami al rinnovamento coincidono con il richiamo all’antica regola o alla tradizione primitiva: il cambiamento ha il valore di una “riforma”, ossia di una novità nella tradizione.

Proprio su questo punto, l’epoca che definiamo moderna ha prodotto una ben diversa concezione, che porta dalla riforma alla “rivoluzione”. L’idea della novità, soprattutto a partire dalla rivoluzione francese, non si qualifica come un ritorno a fasi precedenti della storia, ma come abbandono di tale passato anche in ciò che, per il suo valore normativo, era chiamato tradizione. Con la modernità, infatti, si ha la novità senza tradizione. Questa è la sfida che il moderno pone al consacrato e alla consacrata. Vi sono, ovviamente, molti altri aspetti della cultura moderna: si pensi, per esempio, alla rilevanza assunta dalla sfera individuale e dalla libertà soggettiva, come pure dalla razionalità oggettiva e dall’autorità della scienza rispetto a qualsiasi altra autorità. Con alcune di queste espressioni della modernità, la vita consacrata sembra aver fatto i conti già da tempo, mentre di altre si può già decretare l’invecchiamento se non il decesso.

La questione centrale è costituita, a mio avviso, dalla suddetta concezione del rinnovamento come rivoluzione, dove la novità non viene più legittimata ricorrendo alle fonti, alle origini, alla tradizione. Sebbene sia impensabile per la vita religiosa, come per tanti altri fenomeni culturali, esibire un’identità che non mutui almeno alcune caratteristiche dal passato, rimane insuperabile l’esigenza (la sfida) di sapere integrare in quell’identità anche ciò che non è mai esistito nel passato.

 

b) La sfida postmoderna: la differenza senza fondamento. - Le vergini imprudenti corrono ai ripari, quando è ormai troppo tardi. Il tempo trascorso segna l’avvento di una nuova epoca nella quale suona l’inesorabile parola del Dio della storia: «Non vi conosco». Può avvenire qualcosa di simile ai religiosi e alle religiose, che assopiti nella notte della tradizione non sono stati pronti all’avvento della modernità, oppure che si affannano per rincorrere il moderno, ma non si accorgono della nuova alba, nella quale brillano altri colori, o emergono altre zone buie.

Il postmoderno, avanzando tra luci e ombre, mette comunque in discussione alcuni miti della modernità, come l’indiscussa fiducia nella ragione, nel progresso tecnico-scientifico, nell’illuminato dominio dell’uomo sulla natura. Questo atteggiamento critico non deve far dimenticare che almeno su un punto il postmoderno è in linea con il moderno: in quell’atteggiamento critico, appunto, inteso come superamento del passato, in nome di una novità che non si legittima solo grazie al passato. Sappiamo che tutta la storia dell’umanità può essere letta secondo questa dinamica: un presente che in parte dipende dal passato e che in parte si emancipa da esso. La modernità e la postmodernità, però, sembrano avere preso piena coscienza di una tale dinamica, includendo nella propria ottica non solo le riforme ma anche le rivoluzioni.

Se ora consideriamo le caratteristiche del postmoderno, possiamo affermare che, al di là delle complesse dinamiche che ne sono state fatte, i punti nodali possono riassumersi nell’insistenza sul problema ecologico, nell’atteggiamento tollerante e nel valore attribuito alla differenza. Nonostante le tante eccezioni, sembra innegabile una nuova sensibilità tanto verso l’ambiente naturale, quanto verso i gruppi sociali; una sensibilità decisamente avversa a quell’atteggiamento che postula la subordinazione dell’ambiente alla razionalità tecnica e l’assorbimento delle diverse società nell’unico modello occidentale. In entrambi i casi emerge il principio della “differenza”: sia la natura, sia le diverse culture umane devono essere rispettate nella loro alterità rispetto alla razionalità tecnica e alla civiltà occidentale.

Come è stato osservato, la differenza è una delle parole d’ordine della cultura postmoderna. Anche il cristianesimo antico e il mondo contemporaneo hanno il senso della differenza. Nell’ambito del vissuto ecclesiale, infatti, sono ammesse diverse espressioni teoriche e pratiche, anche se all’interno di una visione globale unitaria e, soprattutto, entro il fondamento inalienabile della fede. La modernità sembra ugualmente sensibile alle differenze, promuovendo anche quelle escluse dalla cultura cristiana, ma rimanda, o almeno presuppone, a qualcosa di universale e necessario che non può essere negoziato: la razionalità argomentativa e dimostrativa. In tutti i casi, si ha la differenza a partire dal fondamento.

La postmodernità compie un passo decisivo verso l’abbandono di ogni riferimento universale e necessario. Si pensi, per esempio, al rapporto che essa instaura con la tradizione. Il postmodernismo, con il suo eclettismo accoglie la tradizione o per lo meno le tradizioni, anziché respingerle spavaldamente come il modernismo, ma così facendo le relativizza tutte, promuovendo una novità radicale rispetto a quella concezione secondo la quale ogni tradizione assolutizza se stessa. In questo caso, è il criterio stesso di identità che cambia: Il sé postmoderno si pensa piuttosto come entità discontinua, come un’identità (o una serie di identità) costantemente plasmata e riplasmata in un tempo neutro.

Così facendo, la stessa verità non è più formulata come unica, ma intesa come singola interpretazione, come formulazione singola, com-possibile con infinite altre. Il mondo contemporaneo è sempre più segnato da questo pluralismo, che spesso si trasforma nel vuoto ideologico, nell’assenza di ogni senso e di ogni orientamento. Poiché non vi è alcuna formulazione che possa esaurire la verità, poiché non vi è nessun grande racconto che orienti in modo fondativo l’esistenza, il pensiero risulta inevitabilmente debole, ossia un infinito gioco interpretativo che non raggiunge mai un referente forte.

Per certi versi il postmoderno può essere definito come il cimitero delle grandi illusioni. Esso decreta la morte di Dio, dell’uomo, della comunità, del soggetto, della ragione. In tutti questi decessi si registra la scomparsa di identità forti e fondanti: identità che in passato erano caratterizzate dalla necessità e dall’universalità. Oggi, l’interesse è sempre più rivolto al contingente che appare nella fluorescenza delle immagini massmediali.

La realtà, come cosa in sé, è l’inimmaginabile e, quindi, l’irreale. Ciò appare, soprattutto, se si considera il lento ma inarrestabile abbandono di quella ricerca dell’universale che ha caratterizzato, sia pure con modelli molto diversi, tanto l’antichità (pagana e cristiana) quanto la modernità. Ora emerge il valore del particolare, del singolare, che non può essere subordinato a un punto di vista ritenuto assoluto, perché universale. La differenza tra le parti (tra gli individui, le società o le culture) è così radicale da non ammettere un fondamento universale che la superi: tutto è differenza senza fondamento.

La vita religiosa, che dalla modernità riceveva la sfida del nuovo senza tradizione, ora, dalla postmodernità, riceve la sfida della differenza senza fondamento.

 

 

La testimonianza: la sfida lanciata

 

La sfida accolta è già, in parte, un modo di “sfidare”, dato che si accetta il confronto proponendo la propria presenza. La presenza religiosa, presa nella sua globalità, potrebbe essere intesa come riconfigurazione della novità e della differenza: una riconfigurazione che, a mio avviso, dovrebbe assumere il volto dell’esodo e dell’eccedenza.

 

a) L’esodo come cifra religiosa della novità. - Nella vita religiosa tutto sembra derivare dalla tradizione. Il profilarsi statico dei monaci negli stalli sembra la negazione più radicale di ogni cambiamento, di ogni novità, di ogni proposta che trasgredisca le consuetudini fissate nel passato. Tutto è così pesante da apparire inamovibile. Questo atteggiamento però, se ci si riflette un momento, può essere interpretato in modo molto diverso o addirittura opposto. Per un verso, si può osservare che l’estrema staticità della vita monastica costituisce una sfida formidabile e, anzi, una vera e propria “novità” rispetto alla velocità delle mode e alla frenesia degli impegni che caratterizzano le società moderne.

La novità della vita religiosa consisterebbe proprio nel non rincorrere affannosamente la novità! Anzi, consisterebbe nel non correre affatto, ma nello “stare”. Ma dove “sta” il religioso, la religiosa? Qual è il luogo del suo “stare”? Cercare delle differenze nelle cose che fa, o nel modo in cui le fa, è indubbiamente corretto, ma può anche ingenerare illusione e confusione.

Una questione centrale è quella del modo di vivere il tempo. Anche su questo punto, però, si possono ingenerare delle illusioni. Si può sentire un forte disagio tanto in una vita frenetica quanto in una vita rallentata. In entrambi i casi, il tempo viene vissuto come un processo inesorabile che ci pone tra passato e futuro, tra vecchio e nuovo, tra antico e moderno. La modernità ha provato a rompere la continuità inesorabile del tempo e della storia trovando nel lavoro, nell’impegno, nella trasformazione del mondo la novità senza tradizione che propugna. Ma tutto ciò, pure ottimo, non è bastato. Non è riuscita e non riesce a interrompere l’inesorabile fluire del tempo. Occorre qualcosa che riesca ad interrompere la logica stessa del lavoro. Che cosa? La preghiera.

 

La preghiera costituisce l’interruzione del lavoro, dell’ufficio. Essa non è un altro lavoro, un altro “ufficio”, ma l’interruzione della logica stessa di qualsiasi lavoro o ufficio. Se durante la preghiera si lavora, allora non si prega. Il lavoro si può sospendere per riposarsi e ricrearsi, ma questo spazio extralavorativo non ha a che fare con il senso dell’esistenza.

Per il consacrato e per la consacrata, invece, la preghiera, che è extralavorativa, è il senso dell’esistenza. Anzi essa è il senso dell’esistenza proprio perché è extralavorativa, ossia perché scorge un centro diverso dall’Io, dalle sue capacità, dalle sue realizzazioni, dal suo tempo… dalla sua tradizione. In tal modo il consacrato, o la consacrata, vive la novità senza tradizione, non perché ne abbandona una, per esempio quella antica, per assumerne un’altra, per esempio quella moderna, ma perché sospende la logica di ogni tradizione, ossia il primato dell’uomo che fa la storia. Si potrebbe subito obiettare che la vita religiosa ha una tradizione, ma nell’atto inoperoso della preghiera, l’orante abbandona ogni radice e ogni tradizione. Il primato che la vita consacrata riconosce alla preghiera è il primato di una “novità inoperosa” che è veramente una “novità senza tradizione”. Indubbiamente, la preghiera è una caratteristica di tutta la comunità credente. Il consacrato, o la consacrata, si limita a sottolineare l’importanza che per la fede ha ciò che, di per sé, è di ogni credente: la preghiera nella sua forma inoperosa. L’esodo del consacrato, o della consacrata, si pone proprio in questa sottolineatura: l’uscita dalla logica operosa dell’Io che fa la storia e la tradizione, verso la logica gratuita dell’Io decentrato. Evidentemente, anche la preghiera è parte di una tradizione, ma il punto è che nel momento in cui si compie “non” viene vissuta come tradizione: si prega veramente quando non ci si accorge di pregare! Il tempo è sospeso. Così si compie veramente l’esodo, ossia il passaggio da un tempo misurato sull’Io, verso il tempo smisurato della grazia.

 

b) L’eccedenza come cifra religiosa della differenza. - La sfida più impegnativa viene, forse, dal postmoderno, dato che in esso non vi sono più preclusioni né verso il vecchio né verso il nuovo, ma tutto sembra perdersi nelle innumerevoli proposte, prospettive, tradizioni, culture, senza alcun riferimento stabile. Le differenze tendono a essere rispettate in un giudizio che le rende equivalenti: ma proprio questa equivalenza finisce per smarrire ogni possibilità di orientamento, indebolendo il senso delle cose e rendendo tutto indifferente. La differenza senza fondamento può portare alla negazione della differenza, all’in-differenza. Il cristiano che vuole essere il più possibile aperto al mondo e alle diverse culture dell’umanità, talvolta sembra smarrire la specificità irrinunciabile della propria fede. D’altra parte, chi insiste su questa specificità, non raramente mostra il volto dell’aggressore e del colonizzatore, incapace di cogliere le ragioni degli altri modi di vedere.

In entrambi i casi, a mio avviso, vi è una eccessiva concentrazione o attenzione a conoscere e spiegare il mondo a partire dal mondo stesso (introversione mondana). Come cristiani noi siamo nel mondo, ma non del mondo. L’incarnazione di Dio porta inevitabilmente a porre l’attenzione al mondo e alla storia. Il rischio è di in-tendere questo mondo nella sua spiegazione ideologica, sia pure di matrice cristiana. Tanto il pluralismo quanto l’integralismo possono muoversi su questo versante ideologico, dove il fondamento o è troppo lontano e quasi perduto, o troppo vicino e quasi posseduto.

La vita consacrata è non tanto un’alternativa al mondo, quanto un appello a quello che chiamerei “estroversione mondana”, dove si assume tutto il mondo per tendere verso ciò che è al di là del mondo e, soprattutto, al di là delle ideologie che spiegano il mondo. Quante volte abbiamo sentito dire che il cristiano è colui che guarda il mondo con gli occhi di Dio. L’interesse per il mondo da parte di una religiosa deve essere perciò sgombro di una volontà di dominio sul mondo stesso. La vita religiosa non si oppone al mondo, ma sospende l’interesse di dominio su di esso. Anzi, proprio perché volge il suo interesse a Dio, accetta più profondamente la sua condizione mondana. La vita religiosa è il mondo che, nell’umile e debole condizione mondana, volge lo sguardo a Dio.

Questa che abbiamo chiamato “estroversione mondana” non passa attraverso un sistema ideologico fatto di concetti universali, ma attraverso un’esperienza concreta fatta di incontri singolari. Il religioso, o la religiosa, incontra Dio nella sua “differenza”, si volge a Lui nella sua singolarità. Il singolare espone sempre alla differenza dell’altro, sia esso Dio, sia esso essere umano. Quando l’altro è Dio, però, quella differenza è senza limiti, eccede ogni possibile confine, è un’eccedenza. Proprio questa differenza eccedente di Dio fonda la vita consacrata, le dà senso e la spinge a testimoniare il Vangelo che la abilita, a incontrare e a ospitare qualsiasi differenza, come faceva Gesù, che riconosceva, nell’eccedenza e nella differenza del Padre, il suo fondamento.

Il senso dell’esistenza e del mondo non consiste nell’aver capito. Il senso del mondo e dell’esistenza è il senso di appartenere a qualcuno anche se non si sa quasi nulla di lui; fondamento non è ciò che viene compreso ma l’incomprensibile mistero di Dio. Il consacrato, o la consacrata, è colui, o colei, che si espone al desiderio di tale mistero e vuole testimoniarlo. Desiderare veramente qualcuno significa chiedere di farsi ospitare nel suo mistero. Essere ospitati da questo mistero di massima differenza (totalmente altro) ci abilita ad ospitare come consacrate/i qualunque differenza. A questo possiamo e dobbiamo prepararci oggi, se vogliamo testimoniare il Vangelo.

 

 

Tra vigilanza e testimonianza, l’ospitalità

 

Il valore della testimonianza è proporzionale alla capacità di vigilanza. Come religiosi/e non possiamo proporre la nostra “sfida” senza lasciarci sfidare, non possiamo proporre una “conversione” senza convertirci. Solo lo spirito di fede, condiviso nel dialogo, può aiutare i discepoli a discernere ciò che è da abbandonare e ciò che è da accogliere. Tutto nasce, per la persona consacrata, dalla “simpatia” per Cristo, ossia dal pathos coinvolgente che si attua nell’ascolto. Ascolto dentro e fuori le mura del convento o della comunità. Un ascolto che abolisce ogni dominio e consiste in una vita sentita con altri: è la sim-patia dell’ascolto.

Tale atteggiamento di testimonianza è molto vicino a un’altra dimensione della vita consacrata: la comunione. Questa oggi ci chiede di farci prossimi alla periferia e scoprire la città degli altri, metterci in relazione con loro, entrare in dialogo, ospitare ed essere ospitati, rendendoci reciprocamente onore. Sono, ormai, tante le diversità che quotidianamente bussano alle porte dei nostri conventi e chiedono una risposta da parte nostra, una testimonianza. La prima testimonianza evangelica, di grande attualità per l’oggi, mi pare proprio ospitare il diverso, lo straniero, chi la pensa diversamente da noi.

Ospitare rientra tra le cose in-utili ed è ciò che ci spetta di fare come servi inutili del Vangelo, riguardo al mondo contemporaneo e alle sfide che lancia, in modo da rendere onore proprio a ciò che è in-utile, ossia a ciò che vale per se stesso. Sta a noi religiose/i cogliere il valore dell’oggi con tutta la sua complessità, ma anche la sua bellezza. Come ha fatto Cristo. L’ospitalità, infatti, è un atteggiamento “cristologico”, un atteggiamento di fondo che Cristo ha mostrato nei riguardi di qualsiasi diversità, ma che anche noi possiamo mettere in atto, dato che nell’ospite scorgiamo Cristo, anche quando non appartiene alla nostra comunità, alle nostre sicurezze umane e spirituali. Anzi, l’ospite è tale perché è prossimo alla casa che abitiamo, proprio perché è da noi ospitato. L’ospitalità è una casa aperta: non tanto un edificio, ma un “Io” aperto. L’apertura è la cifra dell’ospitalità. Ma l’apertura è precisamente l’opposto dell’esclusione, del rifiuto, della discriminazione. Un’apertura che discrimina è una mascherata: la cattiva maschera della chiusura. Indubbiamente, devono essere posti dei limiti fisici all’ospitalità intesa come accoglienza in un edificio; ma non possono essere posti dei limiti all’ospitalità intesa come capacità di incontro, anche fuori dall’edificio.

Qui vi è un punto fondamentale. L’ospitalità è come la porta di una casa: serve tanto per entrare quanto per uscire. Se la porta serve solo per entrare, la casa è una prigione. Il religioso, o la religiosa, è ospitale non solo perché incontra le persone che entrano, ma anche perché le incontra uscendo. Le due funzioni della porta, l’entrata e l’uscita, sono decisive, dato che l’esclusione di una, prima o poi, porta all’esclusione, almeno psicologica, dell’altra. Un’ospitalità reclusa agevola più la chiusura che l’apertura, ossia agevola un atteggiamento inospitale, fatto di discriminazioni e di esclusioni. Il religioso, o la religiosa, è ospitale se, dentro o fuori del convento, incontra qualsiasi tipo di persona, cogliendo nella differenza di origine, di sesso, di professione, di vocazione, di religione un modo di incontrare la grande Differenza divina. Qualsiasi tipo di chiusura che si oppone a questa logica della differenza è propriamente in-differenza: indifferenza, più o meno esplicita, verso gli uomini e, infine, verso Dio.

L’ospitalità pone la vita religiosa a confronto con se stessa e, prima di tutto, con la propria fede. Cristo è il Dio che entra nel mondo: chi ne esce non è da Dio. La vita consacrata non è l’uscita dal mondo, ma una più intensa e matura immersione in esso: un’immersione che sa ospitare tutto ciò che è nel mondo. Il fatto è che il mondo rifiuta se stesso, perché in esso vi sono divisioni, lotte, pregiudizi, discriminazioni. Nel mondo c’è sempre qualcuno che rifiuta qualcun altro. Nel mondo di oggi c’è l’inospitalità.

La vita religiosa è chiamata a dare la sua testimonianza evangelica e le ragioni della sua speranza sfidando questa inospitalità, sfidando il mondo proprio accogliendolo. Il mondo non accoglie se stesso: questo è lo spirito che la vita religiosa rifiuta. Ma il rifiuto dello spirito (inospitale) del mondo consiste proprio nell’accoglienza (ospitale) del mondo. Dio ha creato il mondo, ma il nemico ha spinto i primi uomini a rifiutare il loro stato di creature mondane per “diventare come Dio”. Siamo, invece, a “immagine e somiglianza di Dio” proprio quando accettiamo di essere le creature mondane che sono uscite dalle mani di Dio. Perché su questo punto non ci fosse alcun inganno, Dio si è fatto uomo, carne, creatura mondana, da accogliere con amore.

Siamo “a immagine e somiglianza di Dio” non perché siamo “come” Dio, ma perché siamo mondo: esseri creati. Pertanto siamo chiamati ad accogliere come tali noi stessi e gli altri nel mondo che con essi condividiamo. Questo è il mistero, tanto mondano quanto divino, da testimoniare nella nostra vita consacrata. Come per la Trinità santa, anche per noi il massimo della comunione con il mondo rivela il massimo della differenza. Questa divina e umana ospitalità siamo chiamati a testimoniare, oggi, alle sfide del nostro tempo**.

 

* Monaco camaldolese e Maestro dei novizi, nel Monastero di Camaldoli (AR).

** Relazione tenuta alle responsabili USMI dell’Umbria, in occasione di una loro giornata formativa

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