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dei discepoli che si allontanano sfiduciati da Gerusalemme il giorno
della risurrezione e che, proprio in quel momento, vengono avvicinati da
Gesù che cammina con loro, e si fa loro compagno di viaggio, è forse una
delle icone più toccanti e commoventi di tutto il Nuovo Testamento. Ha
ispirato artisti e poeti, è stata vista come l’icona del cammino
cristiano e, in modo particolare, della celebrazione eucaristica, da
generazioni di cristiani e di teologi. Non è quindi fuori luogo il
considerarla anche immagine privilegiata dell’accompagnamento spirituale2,
soprattutto oggi che tale ministero ha perso molto dell’impostazione
prevalentemente direttiva che lo caratterizzava in passato e che viene
sempre più visto, ed esercitato, come un porsi accanto al fratello, o
alla sorella, camminando con lui, o lei, per aiutarlo/a a discernere le
vie attraverso le quali lo Spirito santo li guida.
Tale lettura non è semplicemente suggestiva,
in quanto ci permette, da una parte, di cogliere la straordinaria
attualità di questo carisma in un periodo storico nel quale non solo i
lontani, ma anche molti credenti si sentono incapaci di leggere gli
avvenimenti con gli occhi di Dio e darne una spiegazione e una risposta
alla luce della fede; dall’altra parte, ci permette di vedere come
questo costituisca una sfida per la vita consacrata odierna, chiamata a
«inserirsi nel cammino non sempre facile né chiaro del popolo di Dio in
questo mondo, ad esercitare un dialogo accogliente e capace di
discernere le utopie e le ferite dell’umanità di oggi»3.
E’ in questa accoglienza e, soprattutto,
nella capacità di ascoltare e soccorrere il fratello, o la sorella –
sempre più confuso/a di fronte alle molteplici interpretazioni della
vita che gli vengono offerte, e sempre più da esse deluso/a e ferito/a
nel cuore e nello spirito, – che si situa una rinnovata comprensione del
ministero dell’accompagnamento spirituale, nel quale la vita consacrata,
soprattutto femminile, può giocare un ruolo importante e decisivo per un
rilancio del ministero stesso.
Si può dire che ciascuna religiosa sia
chiamata ad affiancarsi, insieme a Gesù, ai fratelli e alle sorelle che
si trovano a “sette miglia da Gerusalemme”, per ascoltare le loro
ragioni e poterli/e così illuminare e indirizzare per la strada del
“ritorno a Gerusalemme”.
“Sette miglia da Gerusalemme...”
Chi erano i discepoli di Emmaus? Non certo
degli sprovveduti, ma delle persone addentro alla fede, persone che non
solo conoscevano la Legge, ma erano stati addirittura alla scuola di
Gesù, erano vissuti con Lui, avevano ascoltato la sua Parola. Nonostante
tutto, ecco che, di fronte allo scandalo della morte del Maestro, si
lasciano prendere dallo scoraggiamento e tornano indietro.
Chi sono oggi i due personaggi che “si
allontanano da Gerusalemme”? Anzitutto bisogna precisare che sono
discepoli nel vero senso del termine, ossia persone che frequentano le
nostre parrocchie e comunità ecclesiali, che cercano di percorrere il
cammino della vita cristiana. Si tratta per lo più di giovani, ma anche
di ragazzi e di persone adulte, tutti accomunati da uno stesso senso di
delusione di fronte alla vita e dalla incapacità di impegnarsi fino in
fondo a vivere concretamente la fede, per poter dare risposte giuste ai
loro dubbi e alle loro angosce. A volte ciò dipende dall’ignoranza delle
Scritture o del Magistero, più spesso dall’influenza di una mentalità,
ormai dilagante, che tende a diffondere una visione pessimistica
dell’esistenza, mettendo sistematicamente da parte o, addirittura,
ridicolizzando, quelli che sono i valori fondamentali della nostra fede,
primo fra tutti la speranza. Credo che le conseguenze negative di tale
modo di pensare e di essere si possano sintetizzare in due atteggiamenti
fondamentali, direttamente in contrasto con la visione di fede,
riscontrabili soprattutto nei più giovani: bassa stima di se stessi e
conseguente sfiducia nella misericordia divina.
Tali caratteristiche sono da collegarsi
strettamente con il mito dell’efficienza e del successo a tutti i costi,
tipico della nostra società. Esso fa sì che anche nell’ambito della vita
cristiana si cerchino risultati facili e immediati, sia per quanto
riguarda la propria vita spirituale, sia per ciò che concerne l’attività
apostolica. Di conseguenza, le inevitabili cadute – dovute alla
debolezza della natura umana, come anche gli insuccessi nell’apostolato,
spesso frutto non di incapacità nell’agire ma della libertà umana di
accogliere o meno la grazia di Dio – non vengono accettate né perdonate
a se stessi e agli altri.
Questo genera un profondo senso di
frustrazione nella persona, che non riesce più a vedersi come un
capolavoro di Dio e, invece di trarre forza dalla propria debolezza
volgendo lo sguardo alla misericordia divina, tende a colpevolizzarsi e
a scoraggiarsi perdendo la forza e gli stimoli per andare avanti. Nello
stesso tempo, il ripiegamento su se stessi e l’incapacità di affidarsi a
Dio nella propria miseria, impedisce di fare l’esperienza fondamentale
dell’incontro con l’amore e il perdono del Padre, presupposto necessario
e indispensabile per diventare, a nostra volta, strumenti di
misericordia per il prossimo. Da qui la decisione, a volte inconscia, ma
più spesso perfettamente consapevole, di lasciar stare, di allontanarsi
da un cammino di fede più impegnato, per ritornare a un’esistenza più
“tranquilla” e meno problematica, senza alcun tipo di impegno concreto
nella comunità.
Abbiamo così cristiani sinceramente
affascinati dalla persona e dal messaggio di Gesù che, in teoria,
accettano e condividono, ma che poi, in pratica, seguono il
comportamento della massa, sconfessando nella vita ciò che praticano
nella liturgia. E, cosa ancora più grave, anche quando si rendono conto
di questa discrepanza, non riescono comunque a fare marcia indietro,
perché circondati da “maestri” sempre pronti a trovare mille ragioni per
farli continuare su quella strada.
Può sembrare strano infatti, eppure questi
moderni discepoli hanno più facilità a trovare, tra queste persone,
compagni di viaggio disposti ad ascoltarli e a camminare con loro che
non tra i cristiani stessi, sacerdoti e religiosi compresi, presi spesso
da tanti impegni, al punto da non trovare più il tempo per il contatto
personale con i loro fratelli e sorelle nella fede, dei quali, e delle
quali, non riescono più a capire ragioni e drammi e che, quindi, sono
più propensi a giudicare che non a sanare con una vicinanza discreta e
continua.
Accade, così, che la tentazione di chiudersi
in se stessi, di cedere allo scoraggiamento, allontanandosi dalla meta
della vita e della speranza divina che si è chiamati a testimoniare tra
i fratelli e le sorelle, diventi sempre più forte e insidiosa, come
anche quella di continuare a “lamentarsi”, comunicandosi a vicenda i
reciproci dubbi, senza rischiararli alla luce di quella fede che pure si
è ricevuta e sperimentata. E’ in tal modo che, lentamente, il “noi
speravamo...” dei discepoli di Emmaus prende il posto della speranza
cristiana e della capacità di invertire la rotta e darsi da fare per
adempiere la missione alla quale sì è chiamati come cristiani.
«Gesù... si accostò e camminava con loro...»
Una simile situazione di disagio e di
infermità spirituale non può essere curata che con un intervento
personale nei confronti di questi nostri fratelli e sorelle, così
come ha fatto Gesù con i due discepoli del Vangelo. E’ molto bello
vedere come Egli, guardando al loro sconforto, che pure è causato da una
mancanza di fede e di speranza, prenda l’iniziativa non solo di cercarli
e di accostarsi, ma anche di camminare con loro per un tratto di strada,
nella direzione opposta a quella di Gerusalemme, ascoltando le loro
ragioni.
D’altra parte, non è certo la prima volta che
Gesù agisce così. Rientra nel suo stile e nella sua pedagogia il
prevenire, cercare, accogliere, ancor prima di essere cercato. In questo
caso, tuttavia, è da sottolineare, in modo particolare, la sua
delicatezza nel portare i discepoli a prendere coscienza essi stessi del
loro stato interiore, a partire da un dialogo fondato sull’attenzione
alle loro persone, alla situazione concreta che stanno vivendo.
Dalle parole di Luca si nota come, prima di
prendere la parola per istruirli alla luce della Sacra Scrittura, li fa
parlare, ascoltandoli con pazienza, nonostante già conosca ciò che
vogliono dire. Il clamore di ciò che era successo avrebbe giustificato
anche un intervento di tipo diverso, più immediato, dal momento che i
due sono meravigliati che il misterioso viandante non conosca i fatti.
Eppure il Maestro preferisce che siano essi stessi a esporli, dando
loro, in questo modo, la possibilità di riordinare le idee, guardarsi
dentro e fare il punto sui loro sentimenti profondi.
E’ solo a questo punto che interviene con
forza, richiamandoli a mettere al centro la Parola di Dio e a
interpretare alla sua luce gli avvenimenti. Egli lo fa, cosa molto
importante, senza fermarsi, continuando a condividere il loro
cammino, fino a quando essi stessi non lo invitano a fermarsi con
loro, lo riconoscono e ritornano finalmente a Gerusalemme, profondamente
cambiati e pronti per adempiere la loro missione di testimoni del
Risorto.
Il Maestro ci lascia, così, un esempio
luminoso di come agire, anche nel nostro contesto, per poter aiutare i
fratelli e le sorelle in difficoltà a “ritornare a Gerusalemme”. Si
tratta, in pratica, di riscoprire il ministero dell’accompagnamento
spirituale nel suo senso più genuino di “cammino”, fatto insieme a un
fratello o a una sorella nella fede, che aiuti a discernere l’azione
dello Spirito nella persona, e anche come questo possa essere un mezzo
privilegiato di apostolato, quasi una sfida, per la vita consacrata
odierna. C’è bisogno, infatti, non solo di recuperare quell’attenzione
alla persona che era tipica già dei padri e delle madri
del deserto, sempre disponibili ad accogliere e ad ascoltare coloro che
si recavano da loro per consiglio e aiuto spirituale, ma anche di
riuscire a intuire e precedere tale richiesta, oggi spesso inespressa,
attraverso una testimonianza quotidiana di vicinanza fraterna e di
attenzione al vissuto di chi ci è accanto, per fargli capire
l’importanza di un cammino di fede più impegnato.
Sulle orme del Maestro... con cuore di donna
Inteso in questo modo, si capisce come
l’accompagnamento spirituale rappresenti un ambito privilegiato d’azione
per tutta la vita consacrata, sia maschile che femminile. Vorrei,
tuttavia, sottolineare in modo particolare l’apporto specifico che
possono darvi le religiose, dal momento che si tratta di un campo che
per molto tempo, in quanto donne, è stato loro interdetto, almeno a
livello ufficiale4.
Esso era considerato come esclusivamente legato alla confessione
sacramentale e, quindi, in stretta correlazione con il sacerdozio
ministeriale, lasciando intendere che si potesse fare un cammino di vita
spirituale solo con l’aiuto di un sacerdote.
La storia della spiritualità ha dimostrato
invece come la prassi in molti casi abbia smentito questa affermazione5,
tanto che oggi non è più un problema, sia pure a livello teorico, il
fatto di riconoscerlo come un carisma non legato, in quanto tale, né al
sesso, né al ministero sacerdotale6.
Le resistenze, tuttavia, permangono ancora in campo pratico, non solo
all’esterno, ma anche e soprattutto tra le religiose stesse, in quanto
si nota una certa fatica a vedere questo servizio come un’opera di
apostolato vero e proprio e a dedicargli il tempo e l’attenzione che
merita. Penso che ciò sia dovuto, principalmente, a una comprensione
troppo limitata del concetto stesso di “apostolato”, che viene molto
spesso inteso nel senso riduttivo di “fare” qualcosa per gli altri
mentre, in realtà, è da intendersi nel senso più ampio di “donare se
stessi”.
In questa accezione, anche offrire il proprio
tempo per l’ascolto è apostolato e, data la situazione attuale, ne
rappresenta la forma più urgente, alla quale devono tendere e cooperare
tutte le altre forme di azione e di impegno della vita religiosa
femminile. Le religiose, infatti, sono forse le persone più adatte a
svolgere questo tipo di ministero, non solo per la particolare vicinanza
con la gente nelle varie opere apostoliche e per la maggiore libertà
d’azione derivante dal non essere legate dagli impegni propri del
ministero sacerdotale, ma anche per il loro essere femminile, che le
rende particolarmente adatte all’accoglienza e alla comprensione
materna.
La donna, predisposta già nel suo corpo ad
essere “spazio accogliente” per vita, ne è la custode privilegiata nel
suo svolgersi successivo e questo le consente di sviluppare, anche in
campo spirituale, un atteggiamento di grande pazienza nei confronti
della germinazione della vita, seguendone il successivo sviluppo con
amore e speranza7.
Questo la porta a privilegiare e curare in modo particolare l’ambito
delle relazioni interpersonali, piuttosto che quelle di massa, e ad
avere una sensibilità e un rispetto particolare per il cammino
spirituale di ciascuno, riconoscendolo/a come unico/a e irripetibile.
Tale aspetto specifico rende
l’accompagnamento spirituale al femminile particolarmente adatto proprio
per le persone portate allo scoraggiamento e alla mancanza di fiducia in
se stesse. Così come, infatti, sul piano naturale la madre interviene
con dolcezza e fermezza a sostenere e incitare i figli ad andare avanti,
nonostante le difficoltà, così su quello spirituale, la donna che ha
ricevuto il carisma di guida nello Spirito sa incoraggiare e incitare,
pur senza indulgere a compromessi, ad avanzare con fiducia sulla via che
ella percepisce tracciata da Dio per la persona concreta che ha davanti.
Non credo sia un caso che Luca annoti come, in un periodo non certamente
facile per i discepoli, quale era quello immediatamente precedente alla
Pentecoste, Maria fosse abitualmente presente con loro nel Cenacolo,
senza dubbio quale punto di riferimento e presenza materna incoraggiante
per tutti e per ciascuno.
Si capisce come, in tale prospettiva, sia
particolarmente urgente incrementare, in tutte le opere di apostolato,
queste nostre caratteristiche peculiari, mettendole al servizio della
grazia, soprattutto attraverso il potenziamento dei rapporti
interpersonali. I fratelli e le sorelle in difficoltà infatti,
sentendosi cercati e accolti nella quotidianità del loro cammino, e
avvertendo la nostra disponibilità all’ascolto dei loro problemi, anche
diversi da quelli della fede, si sentono incoraggiati ad aprire il loro
animo, anche perché oggi è sempre più difficile trovare persone che
abbiano il tempo, la voglia e, forse, anche la capacità di ascoltare.
Certo, inizialmente essi lo fanno solo per sfogarsi o per chiedere
consiglio e aiuto, senza alcuna intenzione di iniziare un rapporto di
accompagnamento spirituale, proprio come è accaduto ai discepoli di
Emmaus. Questo potrebbe dare l’impressione alla religiosa di star
perdendo il proprio tempo, di “camminare con loro nella direzione
opposta a quella di Gerusalemme” invece che riportarli sulla strada
giusta. Eppure è proprio qui, in questa fase iniziale, che si gioca il
futuro del ministero.
Se, come il Maestro, ma con la sensibilità
propria del nostro essere femminile, riusciamo ad avere la costanza di
accompagnarli/e maternamente per questo scorcio di strada,
ascoltandoli/e con pazienza nei loro dubbi, nelle loro ragioni, essi/e
riusciranno ad esprimere il proprio vissuto, manifesteranno le proprie
ferite, prendendone finalmente coscienza. Solo a questo punto, con
grande fermezza, ma anche con il rispetto verso l’opera dello Spirito
nella persona, si può cominciare il cammino di accompagnamento vero e
proprio, che consiste, soprattutto, nel portarli/e all’incontro con
Cristo, presente nell’Eucaristia, attraverso la sua Parola, unica Luce
che può illuminare la vita di ogni credente che l’accoglie con fede e
amore, dando una risposta autentica ai suoi dubbi e alle sue paure. E’
questo incontro che permetterà loro di capire l’importanza della guida
spirituale per un cammino di fede, che non perda di vista la meta alla
quale si è chiamati/e, portandoli/e a chiedere esplicitamente aiuto in
tal senso, anche perché certi di trovare la disponibilità della
religiosa.
Si capisce che, per poter arrivare a questo,
l’accompagnatrice non può prescindere da una vita spirituale impegnata
ed autentica8
che la porti giorno dopo giorno a fare personalmente l’esperienza di Dio
e della sua misericordia nella preghiera e nella meditazione della
Parola. Infatti, «sperimentando Dio, sperimentiamo un amore grande per
l’essere umano, in particolare il più piccolo e il più debole;
incontrando il povero e il ferito, il nostro cuore si commuove e i
nostri occhi scorgono in questi l’immagine di Dio, anche se sfigurata e
disprezzata»9.
In tal modo diventiamo, quasi senza accorgercene, con la nostra stessa
vita, trasparenza di quel volto materno di Dio sempre pronto a chinarsi
sull’uomo malato, nel cuore e nello spirito, per sollevarlo e sanarlo,
testimoniando come questo amore sia più forte di tutte le debolezze
della natura umana, e ridonando speranza a chi è preso dallo
scoraggiamento e dalla tentazione di lasciarsi andare.
E’ per questo che è particolarmente urgente
prendere coscienza di come il potenziale insito nel nostro essere donne
e religiose sia importante per un ministero che, come poche forme di
apostolato oggi, risponde alle esigenze dei tempi. C’è solo bisogno di
un po’ di coraggio per uscire da schemi apostolici forse un po’ troppo
consolidati e metterci in cammino, sulle orme del Maestro, per la strada
di Emmaus, facendoci con Lui pellegrine di amore e di speranza per
e con i nostri fratelli e le nostre sorelle.