n. 9
settembre 2005

 

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Alcune indicazioni pratiche per il dialogo con le religioni e le culture
di Giambattista Silini

 

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Da alcuni anni mi sto impegnando e appassionando su un argomento molto arduo, che non si può più rimandare o eludere, vale a dire: “Il dialogo con le culture e le religioni”.

Un tema, perciò, difficile da considerare per diversi motivi.

Ripenso a questi ultimi anni carichi, talora, di molteplici e complesse discussioni, a cominciare dal documento Dominus Jesus del 2000, con quanto ha suscitato come controversia. Penso altresì ad altri aspetti problematici seguiti da altrettante controversie teologiche, per esempio, penso al documento Ecclesia De Eucaristia, del 17 aprile 2003 e penso anche all’Esortazione Apostolica post-sinodale: Ecclesia in Europa, del 28 giugno 2003.

Non posso tralasciare di pensare alle controversie nate al di fuori della Chiesa ma che interpellano anch’essa, come il multiculturalismo, il conflitto tra civiltà e, in particolare, il rapporto con la civiltà islamica; penso ai conflitti interreligiosi, al rinascere di nuovi Stati ed etnocentrismi sia locali sia nazionali, come pure ai fondamentalismi a vari livelli…

Vi sono, tuttavia, anche motivi di consolanti fiducie e speranze. Leggo in proposito un passo, da un noto giornale, che esprime l’esperienza di comunione fraterna, intesa come risultato positivo, nata dopo l’incontro del cardinale Walter Kasper con il patriarca Alessio II: «Nella città di Jaroslav, una piccola comunità di cattolici collabora con il vescovo ortodosso locale nel recupero dei tossico-dipendenti». Così anche nella città di San Pietroburgo.

Un’altra nota consolante è data da un progetto ampiamente voluto e sostenuto dal Patriarca Alessio, in accordo con gli altri patriarchi. Da alcuni anni è stato elaborato un serio piano formativo e culturale per l’iter formativo-culturale per seminaristi ortodossi della Russia, realizzato con la collaborazione di diversi esperti teologi cattolici.

Per quanto concerne il problema spinoso del “proselitismo”, il cardinale Kasper garantisce che, dopo l’incontro con il patriarca Alessio, è stato trovato un accordo per affrontarlo con una commissione mista, composta da membri designati sia dalla Chiesa ortodossa, sia dai Vescovi cattolici e da un rappresentante del Pontificio Consiglio.

Positivi sono anche gli attuali rapporti tra la Chiesa caldea e la Chiesa assira, per il ritrovamento di una antichissima anafora eucaristica, anche se non contiene il racconto della istituzione della Eucaristia. Sono tradizioni liturgiche delle antiche chiese precalcedonensi.

Si tratta degli Orientamenti per l’ammissione all’Eucaristia fra la Chiesa caldea e la Chiesa assira dell’oriente. Il documento è di carattere pastorale, ma riveste un’importanza fondamentale e unica per i suoi riflessi teologici ed ecumenici.

è la speranza, perciò, che ci guida e ci muove: ad arroccarci su posizioni e nodi tra singole e particolari posizioni dottrinali si rischia di non situarci, tutti, di fronte alla parola di Dio con l’atteggiamento di conversione reciproca. Sì, perché, come l’esperienza insegna, molte volte non si tratta di problemi teologici, ma di sapere creare e costruire progressivamente nuove relazioni e di impostare dialoghi in termini nuovi.

 

La prima regola del dialogo ecumenico e interreligioso, nonché interculturale, ha il proprio fondamento nella riflessione biblica, che non lascia alibi al riguardo: «A chi ha, sarà dato; ma a chi non ha, sarà tolto anche ciò che ha» (Mc 4,25; Lc 8,18; Lc 19,26).

Chi non possiede una profonda coscienza religiosa, chi è privo di riferimenti alle proprie radici religiose e culturali, elaborate e approfondite sia a livello personale sia scientifico, corre il pericolo di impoverire, nel dialogo, anche quel minimum che ha raggiunto: è disorientato, confuso, smarrito.

Chi invece cresce ancorato armonicamente alla propria identità religiosa, sperimenterà di essere arricchito dall’altro, ascoltato, compreso, accolto. So di essere riconosciuto e accettato, perché l’altro mi ha dato il diritto all’esistenza accogliendomi nell’amore.

«Ogni vita vera è incontro», afferma Martin Buber.

La prima regola, perciò, esige di crescere dentro progressivamente, in modo dinamico. In questo quadro di riferimento il dialogo non sarà né rischioso né improvvisato. Ognuno di noi deve coltivare il dialogo, che corrisponde al grado di formazione culturale che ha approfondito e non andare oltre: è didatticamente e psicologicamente dannoso superare i limiti… soprattutto perché il dialogo propriamente teoretico esige sempre approfondimenti nuovi.

 

Seconda regola: è decisivo fare distinzione tra il dialogo con le religioni e il dialogo con gli uomini religiosi e, naturalmente, con la teologia delle religioni. Sono tre aspetti e realtà diverse.

Il primo posto spetta al dialogo con gli uomini e le donne religiose, con un vissuto profondamente religioso, perché risulta più facile nella conduzione. Infatti, si apre alle persone che hanno già una loro specifica storia, una biografia, una configurazione religiosa, che non è definibile dentro schemi prefissati, astratti, ma incentrata nel tessuto concreto del vissuto quotidiano. Il dialogo con le religioni invece ha parametri propri e specifici. Si colloca su un piano diverso da quello precedente: è sempre un po’ astratto e si sviluppa a un livello più alto con i rappresentanti delle varie religioni.

Sono incontri e approfondimenti utili perché hanno una loro validità intrinseca con “un quid” comune che attraversa tutte le religioni, un senso dell’Assoluto per la soluzione dei problemi antropologici dell’umanità, il significato profondo della vita, la ricerca della verità, della salvezza (Nostra aetate, n. 2).

Su questi aspetti il dialogo è sempre percorribile, utile, possibile, ma non è l’unica via.

Nella riflessione teologica, attualmente, il dibattito più vivo è quello relativo, invece, alla teologia delle religioni, perché si sviluppa attorno a nodi vitali: come la soteorologia, la ecclesiologia, il cristocentrismo. Il problema è: questi nodi come reggono di fronte alle altre religioni ?

è una teologia, quindi, volta ad approfondire se, come e in quale misura c’è un valore salvifico globale, come aveva affermato il concilio Vaticano II, ossia dei raggi di verità religiose seminati nel cuore e nella mente degli uomini, o nei riti e culture proprie dei popoli. Sappiamo che non tutto è negativo, perché ci sono parziali verità di quella salvezza di cui Cristo è l’autore e che chiama tutti gli uomini alla salvezza (Lumen Gentium, n. 17; Gaudium et spes, n. 22; Ad Gentes, n. 9).

Diverso, ancora, è il dialogo che si sviluppa tra le persone religiose, o il voler cercare in ogni religione delle verità parziali che esse contengono. Non esiste scritto da nessuna parte che un sistema religioso, qua talis, abbia solamente delle verità e non conosca passaggi oscuri, difficili, a volte insuperabili; perché le religioni sono nate storicamente e hanno uno specifico cammino storico.

 

La terza regola: il dialogo ha il fondamento nel battesimo di Cristo, nella grazia che ne deriva. Perciò l’unità deve essere perseguita, è un obbligo. Se siamo divisi siamo ancora nel peccato, perché le divisioni permangono a causa dei nostri peccati e delle nostre infedeltà.

Il dialogo non è solo una esigenza della vita umana, ma è anche una necessità della vita cristiana perché coinvolge tutta la vita dei singoli cristiani e delle chiese. Giovanni Paolo II sviluppa saggiamente questo concetto nella Enciclica Ut unum sint: « Il dialogo non è soltanto uno scambio di idee. In qualche modo esso è sempre “uno scambio di doni”». Addirittura, il Papa parla di una “sinergia”, cioè di cooperazione fra preghiera e dialogo (cfr. n. 33).

Questo è il motivo per cui il dialogo esiste quando ciascuno dei partners pensa realmente all’altro, o agli altri, «nella loro vita di presenza e nel loro modo di essere e si volge a loro con l’intenzione di costituire fra lui e loro una viva mutualità» (M. Buber, La vita in dialogo, p. 125).

Per un dialogo approfondito è importante un’ascesi, una conversione sia personale sia comunitaria, perché la via ecumenica non è vera e non progredisce dove manca la conversione: «Ecumenismo vero non c’è senza interiore conversione» (Ut unum sint, n. 15).

Non solo: Giovanni Paolo II si spinge ancora più in là, quando coniuga la maturità del dialogo ecumenico con il crescere della reciproca preghiera comune e al contempo se risponde alla funzione di un esame di coscienza con l’assunzione delle specifiche responsabilità (cfr. ibidem, n. 34).

 

La quarta regola: il dialogo tra le culture è proficuo nella misura in cui si è acquisita una viva e profonda coscienza della propria interiorità, dello specifico vissuto interiore e della propria identità. è una condizione, questa, che è necessaria fra i partners in dialogo nei rispettivi piani culturali, altrimenti è pericoloso e scade il livello qualitativo dell’interesse.

è la logica conseguenza e applicazione della prima regola, espressa con estrema chiarezza dalla parola evangelica: «A chi ha sarà dato, a chi non ha sarà tolto anche quello che ha».

La sfera della interiorità è sopraculturale, si sviluppa oltre la logica culturale e dunque introduce al discorso dell’incontro anche quando i linguaggi sono diversi o contrapposti. Quando l’esperienza interiore è simile cadono le barriere create dal linguaggio umano e il dialogo avviene con facilità e si snoda nella scioltezza e nella libertà.

La coscienza del proprio vissuto interiore si acquista attraverso le sequenze di un triplice cammino di conversione: conversione morale, conversione religiosa e conversione intellettuale.

La conversione morale nasce quando si vive nella dimensione di una profonda coscienza che il bene ha il sopravvento sull’interesse sia proprio sia a livello comunitario; in ogni evenienza, non cedendo mai ad alcun compromesso. Il bene è l’unica scelta vincente e in assoluto.

La conversione religiosa matura quando c’è la coscienza che Dio si deve amare prima di ogni cosa, al di là di ogni progetto, è precedente ad ogni persona e occupa il primato dell’amore senza riserve e limiti. Dio è oggetto di amore totale, preculturale o sopraculturale, quindi non proprietà di una specifica cultura nei confronti dell’altra.

Le culture hanno percorsi propri e si differenziano molto nel raccontare o parlare di Dio: molte volte, anche, nel coglierne il messaggio etico e religioso. Ogni religione, invece, può acquisire la coscienza che Dio è da amare sopra ogni cosa ed è al di sopra di tutto.

La conversione intellettuale segue un cammino segnato da difficoltà, perché la verità, qua talis, non è ciò che immediatamente accade nel fenomeno davanti a me: non è ciò che vedo, tocco, sento, sperimento, ma è la sintesi o il termine di un processo interiore di verifica, di ipotesi, di giudizi, di confronti, di valutazione, di ricerca, di scambi, di approfondimenti. Quindi, è un percorso che non si vede, non si sente, non si misura, ma ha una specifica dimensione interiore, è dentro, è parte integrante del mio essere profondo, nasce dall’esperienza delle cose. è quanto afferma l’apostolo Paolo con estrema lucidità: «Perché noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili. Le cose visibili sono d’un momento, quelle invisibili sono eterne» (2Cor 4,18).

Queste regole non hanno alcuna pretesa a livello scientifico, tanto meno pretendono di indicare percorsi specifici o dettagliati, l’unica chance, semmai, è quella di essere maturate nella riflessione e nell’esperienza degli incontri, che hanno arricchito il cammino ecumenico di questi anni.

Forse a qualcuno potranno essere utili e potrà arricchirle di altre fortunate esperienze. A me preme in questo momento porre come una postilla sul tema del dialogo fra ebrei e cristiani, come sul dialogo con l’islam, ecc.

Il dialogo con gli ebrei, invece, soprattutto in Occidente, avviene a diversi livelli:

A livello di dialogo quotidiano. - La collaborazione fra cristiani ed ebrei non solo è possibile ma deve avvenire per risolvere i gravi problemi del mondo, come la fame, le ingiustizie, le violenze, ecc. Nel campo sociale la collaborazione rimane aperta, dal momento che entrambi hanno in comune i medesimi valori, gli stessi obiettivi.

• A livello umanitario già sono in atto e proseguono molteplici casi di fattiva collaborazione: è un nobile esempio da estendersi ad altri campi.

La ricerca archeologica della Terra Santa è un altro ambito molto esteso in cui cristiani ed ebrei possono incontrarsi nel dialogo per lo scambio delle informazioni.

• A livello di riflessione teologica. - La Chiesa è fortemente sollecitata a integrare la propria storia passata, a riconoscere le proprie mancanze affinché l’argomento sia affrontato serenamente. Questo non significa che il cattolicesimo deve abbandonare la riflessione elaborata dai Padri della Chiesa o la propria Tradizione per riscoprire la tradizione ebraica.

Vuol dire riconoscere che alcuni Padri della Chiesa avevano già iniziato a dialogare con gli ebrei. Basta ricordare Giustino, Origene, Girolamo: Origene è testimone del dialogo aperto attraverso la lettura critica del testi sacri.

• A livello liturgico è già in atto la lettura dei testi dell’Antico Testamento nelle assemblee cristiane, mentre l’ebraismo ha proposto la lettura midrashica dell’Antico Testamento e, a loro volta, i cristiani hanno sempre colto l’Antico Testamento come tipo di quanto sarebbe avvenuto nella venuta di Gesù. La loro lettura si è articolata a livello tipologico e cristologico.

Riflettendo sul mistero d’Israele, i Padri della Chiesa amavano riferirsi all’immagine biblica degli esploratori mandati da Mosè nella terra di Canaan che, raggiunta la valle di Escol, tagliarono un tralcio con diversi grappoli d’uva. A motivo della loro enorme dimensione, questi grappoli furono trasportati su un palo appoggiato sulle spalle di due uomini (Nm 13,23).

Nel palo dal quale pendevano i grappoli, i Padri della chiesa vollero riconoscere la croce alla quale fu appeso Cristo, tralcio della vite nuova; nei due trasportatori, videro l’immagine della Chiesa in quelli che seguono, e l’immagine di Israele in quelli che precedono. Entrambi sono incamminati verso la stessa meta, legati dalla stessa speranza, ma i primi, pur guidando il cammino, non vedono né il grappolo né la Chiesa, mentre la Chiesa che segue, vede il fratello più anziano nella luce del Cristo crocifisso.

Il cammino di missione e di evangelizzazione della Chiesa consiste nel camminare insieme, condividendo la stessa fatica nell’annunciare al mondo l’icona del servo sofferente, che è il Salvatore: «dalle sue piaghe siamo stati salvati».

Camminare vuol dire non attardarsi, non fermarsi, ma procedere e proseguire. Il concetto di riconciliazione in divenire dinamico, e non di una riconciliazione completa, va oltre i confini secondo i quali la Chiesa avrebbe sostituito il posto di Israele nel piano della salvezza. Il popolo di Israele, nella misura in cui conserva la fede dei suoi Padri e porta il nome di Dio al mondo, resta testimone dell’elezione e delle promesse di Dio.

Dio è fedele alle sue promesse. L’alleanza non sarà, perciò, revocata anche se non sarà completamente e totalmente completa, realizzata.

La Chiesa, che non è il regno, resta il popolo di Dio costituito nell’alleanza nata dal sangue di Cristo, alleanza aperta ai pagani e agli ebrei. Esiste, dunque, un solo piano di salvezza nella diversità della alleanza: dall’alleanza stabilita con Noè all’alleanza con Abramo fino a quella nata per sempre nella redenzione di Cristo.

Si comprende il motivo per cui c’è una sola struttura fondamentale del dialogo tra Dio e il suo popolo chiamato a dare una risposta d’amore al Signore dell’Alleanza: «Egli è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un solo popolo» (Ef 2,14).

Cristo ha creato in sé dei due un solo uomo nuovo, facendo pace con i vicini e con i lontani. Nei lontani leggi i pagani, nei vicini Israele.

La strada della riconciliazione, perché sia una via autentica di dialogo, non può ammettere da parte dei cristiani una perdita della loro identità: il loro compito consiste nel presentare agli ebrei il loro fratello Gesù che non hanno voluto riconoscere nella sua prima venuta, ma che accoglieranno nel suo ritorno definitivo e glorioso.

• A livello di spiritualità. Un ulteriore livello di dialogo può nascere dalla spiritualità con le note caratteristiche della adorazione e del silenzio.

Ebraismo e cristianesimo sono sollecitati a contribuire e a vivere, con le loro specifiche tradizioni sapienziali, come se fossero abitati dal silenzio adorante e orante e allo stesso modo preoccupati della compassione per i loro fratelli e le loro sorelle. Sono aspetti, questi, che se vissuti insieme appaiono fondamentali e infondono pace e serenità nel cuore di molti uomini e di molte donne.

Interessante ed eloquente a tale riguardo è stato il comunicato congiunto ebraico-cattolico, dopo due incontri a Gerusalemme nel giugno del 2002 (Tammuz 5762) e a Grottaferrata-Roma nel febbraio 2003 (Sdhvat 5763), in cui hanno discusso sull’importanza dell’insegnamento di base della Scrittura nella società contemporanea e per l’educazione delle nuove generazioni.

Con voce concorde sono state apprezzate le dichiarazioni della Santa Sede nel condannare la violenza nei confronti degli innocenti e nella denuncia della spinta antisemita sempre rinascente:

«Attaccare le persone nei loro luoghi di preghiera è non solo crudele, ma anche vile e incompatibile con i criteri umani» e… «il sacro nome di Dio non deve mai essere utilizzato per incitare alla violenza o al terrorismo, per promuovere l’odio o l’esclusione».

L’insegnamento di base delle Sacre Scritture conduce all’approdo della fede nell’unico Creatore e Guida dell’universo, che ha creato gli esseri umani a sua immagine e donando a loro il libero arbitrio. L’intera umanità è, in questo modo, un’unica famiglia costituita da membri in cui ognuno/a è responsabile armonicamente dell’altro/a.

Viviamo nell’unico e immenso villaggio globale che ha raggiunto progressi tecnologici scientifici mai conosciuti prima. La sfida è costituita dall’usare saggiamente ogni progresso raggiunto per il bene, a servizio di tutti, e per rendere grazie a Dio, e mai per fini malefici o per strumenti di maledizione!

La sfida per dare voce e valore alla diffusione della fede, nel mondo a noi contemporaneo, esige testimoni viventi di giustizia, di carità, di tolleranza, come annuncia il profeta Michea: «Uomo, ti è stato fatto sapere ciò che è bene, ciò che il Signore reclama da te: niente altro che compiere la giustizia, che amare la bontà e camminare umilmente con il tuo Dio» (Mi 6,8).

I responsabili religiosi e gli educatori hanno il dovere di istruire le loro comunità all’impegno della nascita e della crescita della pace, unito alla ricerca del benessere comune. Ogni figlio di Abramo, come ogni credente, deve bandire dalla terra le armi della guerra e della distruzione: «Persegui la pace e ricercala» (Sl 33,15).

Attualmente, non possiamo che condividere il dolore di quanti soffrono ancora in Terra Santa, sia come singoli, sia come famiglie e comunità. La speranza, unita alla preghiera, deve essere la prova più convincente perché abbiano fine le prove e le tribolazioni nella terra da tutti considerata santa.

 

Incontrare i musulmani?

Nel documento: Incontrare i musulmani del Comitato “Islam in Europa”, del Consiglio delle conferenze episcopali d’Europa (CCEE) e della Conferenza delle Chiese europee (KEK) nel corso dell’anno 2003, viene proposta alle Chiese una riflessione e una pratica di comportamento per l’incontro con i musulmani.

Il testo, ricco di riferimenti biblici, parte dalla necessità di considerare come un “segno del nostro tempo, attraverso il quale Dio ci interpella”, la presenza dei musulmani nelle nostre società occidentali, secolarizzate e insieme alla ricerca delle proprie radici culturali e religiose.

Definisce il nostro, un “tempo favorevole” in quanto anche i cristiani «non vogliono più che la religione sia una causa della guerra e di nuove divisioni».

In questo quadro di riferimento, e rimanendo sempre “audaci e prudenti nello Spirito”, sono indicate tappe di comportamento da percorrere nell’incontro, che «vanno adottate a seconda del contesto e delle esigenze della testimonianza», in un mondo che non si restringe più al villaggio, alla città o alla nazione.

Nel cammino dell’umanità verso il Padre comune, che non rifiuta nessuno dei suoi figli, il punto nodale è il richiamo evangelico al cristiano che è chiamato a fare il primo passo, sempre pronto a tendere la mano (Mt 18,21).

Come sintesi, suggeriamo di avere sempre presente sette punti, o incitamenti, a vivere bene la propria identità di creature:

Il perdono nasce quando prendiamo coscienza delle nostre ferite storiche.

Imparare a considerare e guardare l’altro/a con gli occhi di Dio e amarlo/a con il cuore di Dio.

Esprimere i nostri valori nello sforzo di ascolto dell’altro/a che si racconta.

Riconoscere le nostre colpe passate.

La fraternità cresce nella misura in cui vogliamo essere fratelli e sorelle riconoscendo le nostre somiglianze e differenze.

Rendere conto della nostra speranza (1Pt 3,15).

Favorire la pace e la giustizia nella differenza e nel mutuo rispetto.

 

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