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a alcuni anni mi
sto impegnando e appassionando su un argomento molto arduo, che non si
può più rimandare o eludere, vale a dire: “Il dialogo con le culture e
le religioni”.
Un tema, perciò, difficile da considerare per
diversi motivi.
Ripenso a questi ultimi anni carichi, talora,
di molteplici e complesse discussioni, a cominciare dal documento
Dominus Jesus del 2000, con quanto ha suscitato come
controversia. Penso altresì ad altri aspetti problematici seguiti da
altrettante controversie teologiche, per esempio, penso al documento
Ecclesia De Eucaristia, del 17 aprile 2003 e penso anche
all’Esortazione Apostolica post-sinodale: Ecclesia in Europa, del
28 giugno 2003.
Non posso tralasciare di pensare alle
controversie nate al di fuori della Chiesa ma che interpellano
anch’essa, come il multiculturalismo, il conflitto tra civiltà e, in
particolare, il rapporto con la civiltà islamica; penso ai conflitti
interreligiosi, al rinascere di nuovi Stati ed etnocentrismi sia locali
sia nazionali, come pure ai fondamentalismi a vari livelli…
Vi sono, tuttavia, anche motivi di consolanti
fiducie e speranze. Leggo in proposito un passo, da un noto giornale,
che esprime l’esperienza di comunione fraterna, intesa come risultato
positivo, nata dopo l’incontro del cardinale Walter Kasper con il
patriarca Alessio II: «Nella città di Jaroslav, una piccola comunità di
cattolici collabora con il vescovo ortodosso locale nel recupero dei
tossico-dipendenti». Così anche nella città di San Pietroburgo.
Un’altra nota consolante è data da un
progetto ampiamente voluto e sostenuto dal Patriarca Alessio, in accordo
con gli altri patriarchi. Da alcuni anni è stato elaborato un serio
piano formativo e culturale per l’iter formativo-culturale per
seminaristi ortodossi della Russia, realizzato con la collaborazione di
diversi esperti teologi cattolici.
Per quanto concerne il problema spinoso del
“proselitismo”, il cardinale Kasper garantisce che, dopo l’incontro con
il patriarca Alessio, è stato trovato un accordo per affrontarlo con una
commissione mista, composta da membri designati sia dalla Chiesa
ortodossa, sia dai Vescovi cattolici e da un rappresentante del
Pontificio Consiglio.
Positivi sono anche gli attuali rapporti tra
la Chiesa caldea e la Chiesa assira, per il ritrovamento di una
antichissima anafora eucaristica, anche se non contiene il racconto
della istituzione della Eucaristia. Sono tradizioni liturgiche delle
antiche chiese precalcedonensi.
Si tratta degli Orientamenti per l’ammissione
all’Eucaristia fra la Chiesa caldea e la Chiesa assira dell’oriente. Il
documento è di carattere pastorale, ma riveste un’importanza
fondamentale e unica per i suoi riflessi teologici ed ecumenici.
è
la speranza, perciò, che ci guida e ci muove: ad arroccarci su posizioni
e nodi tra singole e particolari posizioni dottrinali si rischia di non
situarci, tutti, di fronte alla parola di Dio con l’atteggiamento di
conversione reciproca. Sì, perché, come l’esperienza insegna, molte
volte non si tratta di problemi teologici, ma di sapere creare e
costruire progressivamente nuove relazioni e di impostare dialoghi in
termini nuovi.
La prima regola
del dialogo ecumenico e interreligioso,
nonché interculturale, ha il proprio fondamento nella riflessione
biblica, che non lascia alibi al riguardo: «A chi ha, sarà dato; ma a
chi non ha, sarà tolto anche ciò che ha» (Mc 4,25; Lc 8,18; Lc 19,26).
Chi non possiede una profonda coscienza
religiosa, chi è privo di riferimenti alle proprie radici religiose e
culturali, elaborate e approfondite sia a livello personale sia
scientifico, corre il pericolo di impoverire, nel dialogo, anche quel
minimum che ha raggiunto: è disorientato, confuso, smarrito.
Chi invece cresce ancorato armonicamente alla
propria identità religiosa, sperimenterà di essere arricchito
dall’altro, ascoltato, compreso, accolto. So di essere riconosciuto e
accettato, perché l’altro mi ha dato il diritto all’esistenza
accogliendomi nell’amore.
«Ogni vita vera è incontro», afferma Martin
Buber.
La prima regola, perciò, esige di crescere
dentro progressivamente, in modo dinamico. In questo quadro di
riferimento il dialogo non sarà né rischioso né improvvisato. Ognuno di
noi deve coltivare il dialogo, che corrisponde al grado di formazione
culturale che ha approfondito e non andare oltre: è didatticamente e
psicologicamente dannoso superare i limiti… soprattutto perché il
dialogo propriamente teoretico esige sempre approfondimenti nuovi.
Seconda regola:
è decisivo fare distinzione tra il
dialogo con le religioni e il dialogo con gli uomini religiosi e,
naturalmente, con la teologia delle religioni. Sono tre aspetti e realtà
diverse.
Il primo posto spetta al dialogo con gli
uomini e le donne religiose, con un vissuto profondamente religioso,
perché risulta più facile nella conduzione. Infatti, si apre alle
persone che hanno già una loro specifica storia, una biografia, una
configurazione religiosa, che non è definibile dentro schemi prefissati,
astratti, ma incentrata nel tessuto concreto del vissuto quotidiano. Il
dialogo con le religioni invece ha parametri propri e specifici. Si
colloca su un piano diverso da quello precedente: è sempre un po’
astratto e si sviluppa a un livello più alto con i rappresentanti delle
varie religioni.
Sono incontri e approfondimenti utili perché
hanno una loro validità intrinseca con “un quid” comune che
attraversa tutte le religioni, un senso dell’Assoluto per la soluzione
dei problemi antropologici dell’umanità, il significato profondo della
vita, la ricerca della verità, della salvezza (Nostra aetate, n.
2).
Su questi aspetti il dialogo è sempre
percorribile, utile, possibile, ma non è l’unica via.
Nella riflessione teologica, attualmente, il
dibattito più vivo è quello relativo, invece, alla teologia delle
religioni, perché si sviluppa attorno a nodi vitali: come la
soteorologia, la ecclesiologia, il cristocentrismo. Il problema è:
questi nodi come reggono di fronte alle altre religioni ?
è
una teologia, quindi, volta ad approfondire se, come e in
quale misura c’è un valore salvifico globale, come aveva affermato
il concilio Vaticano II, ossia dei raggi di verità religiose seminati
nel cuore e nella mente degli uomini, o nei riti e culture proprie dei
popoli. Sappiamo che non tutto è negativo, perché ci sono parziali
verità di quella salvezza di cui Cristo è l’autore e che chiama tutti
gli uomini alla salvezza (Lumen Gentium, n. 17; Gaudium et
spes, n. 22; Ad Gentes, n. 9).
Diverso, ancora, è il dialogo che si sviluppa
tra le persone religiose, o il voler cercare in ogni religione delle
verità parziali che esse contengono. Non esiste scritto da nessuna parte
che un sistema religioso, qua talis, abbia solamente delle verità
e non conosca passaggi oscuri, difficili, a volte insuperabili; perché
le religioni sono nate storicamente e hanno uno specifico cammino
storico.
La terza regola:
il dialogo ha il fondamento nel battesimo di Cristo, nella grazia che ne
deriva. Perciò l’unità deve essere perseguita, è un obbligo. Se siamo
divisi siamo ancora nel peccato, perché le divisioni permangono a causa
dei nostri peccati e delle nostre infedeltà.
Il dialogo non è solo una esigenza della vita
umana, ma è anche una necessità della vita cristiana perché coinvolge
tutta la vita dei singoli cristiani e delle chiese. Giovanni Paolo II
sviluppa saggiamente questo concetto nella Enciclica Ut unum sint: «
Il dialogo non è soltanto uno scambio di idee. In qualche modo esso
è sempre “uno scambio di doni”». Addirittura, il Papa parla di una
“sinergia”, cioè di cooperazione fra preghiera e dialogo (cfr. n. 33).
Questo è il motivo per cui il dialogo esiste
quando ciascuno dei partners pensa realmente all’altro, o agli altri,
«nella loro vita di presenza e nel loro modo di essere e si volge a loro
con l’intenzione di costituire fra lui e loro una viva mutualità» (M.
Buber, La vita in dialogo, p. 125).
Per un dialogo approfondito è importante
un’ascesi, una conversione sia personale sia comunitaria, perché la via
ecumenica non è vera e non progredisce dove manca la conversione:
«Ecumenismo vero non c’è senza interiore conversione» (Ut unum
sint, n. 15).
Non solo: Giovanni Paolo II si spinge ancora
più in là, quando coniuga la maturità del dialogo ecumenico con il
crescere della reciproca preghiera comune e al contempo se risponde alla
funzione di un esame di coscienza con l’assunzione delle specifiche
responsabilità (cfr. ibidem, n. 34).
La quarta regola:
il dialogo tra le culture è proficuo nella misura in cui si è acquisita
una viva e profonda coscienza della propria interiorità, dello specifico
vissuto interiore e della propria identità.
è una condizione, questa,
che è necessaria fra i partners in dialogo nei rispettivi piani
culturali, altrimenti è pericoloso e scade il livello qualitativo
dell’interesse.
è
la logica conseguenza e applicazione della prima regola, espressa con
estrema chiarezza dalla parola evangelica: «A chi ha sarà dato, a chi
non ha sarà tolto anche quello che ha».
La sfera della interiorità è sopraculturale,
si sviluppa oltre la logica culturale e dunque introduce al discorso
dell’incontro anche quando i linguaggi sono diversi o contrapposti.
Quando l’esperienza interiore è simile cadono le barriere create dal
linguaggio umano e il dialogo avviene con facilità e si snoda nella
scioltezza e nella libertà.
La coscienza del proprio vissuto interiore si
acquista attraverso le sequenze di un
triplice cammino di
conversione:
conversione morale, conversione
religiosa e conversione intellettuale.
La conversione morale
nasce quando si vive nella dimensione di una profonda coscienza che il
bene ha il sopravvento sull’interesse sia proprio sia a livello
comunitario; in ogni evenienza, non cedendo mai ad alcun compromesso. Il
bene è l’unica scelta vincente e in assoluto.
La conversione religiosa
matura quando c’è la coscienza che Dio si deve amare prima di ogni cosa,
al di là di ogni progetto, è precedente ad ogni persona e occupa il
primato dell’amore senza riserve e limiti. Dio è oggetto di amore
totale, preculturale o sopraculturale, quindi non proprietà di una
specifica cultura nei confronti dell’altra.
Le culture hanno percorsi propri e si
differenziano molto nel raccontare o parlare di Dio: molte volte, anche,
nel coglierne il messaggio etico e religioso. Ogni religione, invece,
può acquisire la coscienza che Dio è da amare sopra ogni cosa ed è al di
sopra di tutto.
La conversione intellettuale
segue un cammino segnato da
difficoltà, perché la verità, qua talis, non è ciò che
immediatamente accade nel fenomeno davanti a me: non è ciò che vedo,
tocco, sento, sperimento, ma è la sintesi o il termine di un processo
interiore di verifica, di ipotesi, di giudizi, di confronti, di
valutazione, di ricerca, di scambi, di approfondimenti. Quindi, è un
percorso che non si vede, non si sente, non si misura, ma ha una
specifica dimensione interiore, è dentro, è parte integrante del mio
essere profondo, nasce dall’esperienza delle cose.
è quanto afferma
l’apostolo Paolo con estrema lucidità: «Perché noi non fissiamo lo
sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili. Le cose visibili
sono d’un momento, quelle invisibili sono eterne» (2Cor 4,18).
Queste regole non hanno alcuna pretesa a
livello scientifico, tanto meno pretendono di indicare percorsi
specifici o dettagliati, l’unica chance, semmai, è quella di
essere maturate nella riflessione e nell’esperienza degli incontri, che
hanno arricchito il cammino ecumenico di questi anni.
Forse a qualcuno potranno essere utili e
potrà arricchirle di altre fortunate esperienze. A me preme in questo
momento porre come una postilla sul tema del dialogo fra ebrei e
cristiani, come sul dialogo con l’islam, ecc.
Il dialogo con gli ebrei, invece, soprattutto
in Occidente, avviene a diversi livelli:
• A livello di dialogo quotidiano.
- La collaborazione fra cristiani
ed ebrei non solo è possibile ma deve avvenire per
risolvere i gravi problemi del mondo, come la fame, le ingiustizie, le
violenze, ecc. Nel campo sociale la collaborazione rimane aperta, dal
momento che entrambi hanno in comune i medesimi valori, gli stessi
obiettivi.
• A livello umanitario
già sono in atto e proseguono
molteplici casi di fattiva collaborazione: è un nobile esempio da
estendersi ad altri campi.
La ricerca archeologica della Terra Santa è
un altro ambito molto esteso in cui cristiani ed ebrei possono
incontrarsi nel dialogo per lo scambio delle informazioni.
• A livello di riflessione teologica.
- La Chiesa è fortemente sollecitata a integrare la propria storia
passata, a riconoscere le proprie mancanze affinché l’argomento sia
affrontato serenamente. Questo non significa che il cattolicesimo deve
abbandonare la riflessione elaborata dai Padri della Chiesa o la propria
Tradizione per riscoprire la tradizione ebraica.
Vuol dire riconoscere che alcuni Padri della
Chiesa avevano già iniziato a dialogare con gli ebrei. Basta ricordare
Giustino, Origene, Girolamo: Origene è testimone del dialogo aperto
attraverso la lettura critica del testi sacri.
• A livello liturgico
è già in atto la lettura dei testi dell’Antico Testamento nelle
assemblee cristiane, mentre l’ebraismo ha proposto la lettura
midrashica dell’Antico Testamento e, a loro volta, i cristiani hanno
sempre colto l’Antico Testamento come tipo di quanto sarebbe
avvenuto nella venuta di Gesù. La loro lettura si è articolata a livello
tipologico e cristologico.
Riflettendo sul mistero d’Israele, i Padri
della Chiesa amavano riferirsi all’immagine biblica degli esploratori
mandati da Mosè nella terra di Canaan che, raggiunta la valle di Escol,
tagliarono un tralcio con diversi grappoli d’uva. A motivo della loro
enorme dimensione, questi grappoli furono trasportati su un palo
appoggiato sulle spalle di due uomini (Nm 13,23).
Nel palo dal quale pendevano i grappoli, i
Padri della chiesa vollero riconoscere la croce alla quale fu appeso
Cristo, tralcio della vite nuova; nei due trasportatori, videro
l’immagine della Chiesa in quelli che seguono, e l’immagine di Israele
in quelli che precedono. Entrambi sono incamminati verso la stessa meta,
legati dalla stessa speranza, ma i primi, pur guidando il cammino, non
vedono né il grappolo né la Chiesa, mentre la Chiesa che segue, vede il
fratello più anziano nella luce del Cristo crocifisso.
Il cammino di missione e di evangelizzazione
della Chiesa consiste nel camminare insieme, condividendo la stessa
fatica nell’annunciare al mondo l’icona del servo sofferente, che è il
Salvatore: «dalle sue piaghe siamo stati salvati».
Camminare vuol dire non attardarsi, non
fermarsi, ma procedere e proseguire. Il concetto di riconciliazione in
divenire dinamico, e non di una riconciliazione completa, va oltre i
confini secondo i quali la Chiesa avrebbe sostituito il posto di Israele
nel piano della salvezza. Il popolo di Israele, nella misura in cui
conserva la fede dei suoi Padri e porta il nome di Dio al mondo, resta
testimone dell’elezione e delle promesse di Dio.
Dio è fedele alle sue promesse. L’alleanza
non sarà, perciò, revocata anche se non sarà completamente e totalmente
completa, realizzata.
La Chiesa, che non è il regno, resta il
popolo di Dio costituito nell’alleanza nata dal sangue di Cristo,
alleanza aperta ai pagani e agli ebrei. Esiste, dunque, un solo piano di
salvezza nella diversità della alleanza: dall’alleanza stabilita con Noè
all’alleanza con Abramo fino a quella nata per sempre nella redenzione
di Cristo.
Si comprende il motivo per cui c’è una sola
struttura fondamentale del dialogo tra Dio e il suo popolo chiamato a
dare una risposta d’amore al Signore dell’Alleanza: «Egli è la nostra
pace, colui che ha fatto dei due un solo popolo» (Ef 2,14).
Cristo ha creato in sé dei due un solo uomo
nuovo, facendo pace con i vicini e con i lontani. Nei lontani leggi i
pagani, nei vicini Israele.
La strada della riconciliazione, perché sia
una via autentica di dialogo, non può ammettere da parte dei cristiani
una perdita della loro identità: il loro compito consiste nel presentare
agli ebrei il loro fratello Gesù che non hanno voluto riconoscere nella
sua prima venuta, ma che accoglieranno nel suo ritorno definitivo e
glorioso.
• A livello di spiritualità.
Un ulteriore livello di dialogo
può nascere dalla spiritualità con le note caratteristiche della
adorazione e del silenzio.
Ebraismo e cristianesimo sono sollecitati a
contribuire e a vivere, con le loro specifiche tradizioni sapienziali,
come se fossero abitati dal silenzio adorante e orante e allo stesso
modo preoccupati della compassione per i loro fratelli e le loro
sorelle. Sono aspetti, questi, che se vissuti insieme appaiono
fondamentali e infondono pace e serenità nel cuore di molti uomini e di
molte donne.
Interessante ed eloquente a tale riguardo è
stato il comunicato congiunto ebraico-cattolico, dopo due incontri a
Gerusalemme nel giugno del 2002 (Tammuz 5762) e a Grottaferrata-Roma nel
febbraio 2003 (Sdhvat 5763), in cui hanno discusso sull’importanza
dell’insegnamento di base della Scrittura nella società contemporanea e
per l’educazione delle nuove generazioni.
Con voce concorde sono state apprezzate le
dichiarazioni della Santa Sede nel condannare la violenza nei confronti
degli innocenti e nella denuncia della spinta antisemita sempre
rinascente:
«Attaccare le persone nei loro luoghi di
preghiera è non solo crudele, ma anche vile e incompatibile con i
criteri umani» e… «il sacro nome di Dio non deve mai essere utilizzato
per incitare alla violenza o al terrorismo, per promuovere l’odio o
l’esclusione».
L’insegnamento di base delle Sacre Scritture
conduce all’approdo della fede nell’unico Creatore e Guida
dell’universo, che ha creato gli esseri umani a sua immagine e donando a
loro il libero arbitrio. L’intera umanità è, in questo modo, un’unica
famiglia costituita da membri in cui ognuno/a è responsabile
armonicamente dell’altro/a.
Viviamo nell’unico e immenso villaggio
globale che ha raggiunto progressi tecnologici scientifici mai
conosciuti prima. La sfida è costituita dall’usare saggiamente ogni
progresso raggiunto per il bene, a servizio di tutti, e per rendere
grazie a Dio, e mai per fini malefici o per strumenti di maledizione!
La sfida per dare voce e valore alla
diffusione della fede, nel mondo a noi contemporaneo, esige testimoni
viventi di giustizia, di carità, di tolleranza, come annuncia il profeta
Michea: «Uomo, ti è stato fatto sapere ciò che è bene, ciò che il
Signore reclama da te: niente altro che compiere la giustizia, che amare
la bontà e camminare umilmente con il tuo Dio» (Mi 6,8).
I responsabili religiosi e gli educatori
hanno il dovere di istruire le loro comunità all’impegno della nascita e
della crescita della pace, unito alla ricerca del benessere comune. Ogni
figlio di Abramo, come ogni credente, deve bandire dalla terra le armi
della guerra e della distruzione: «Persegui la pace e ricercala» (Sl
33,15).
Attualmente, non possiamo che condividere il
dolore di quanti soffrono ancora in Terra Santa, sia come singoli, sia
come famiglie e comunità. La speranza, unita alla preghiera, deve essere
la prova più convincente perché abbiano fine le prove e le tribolazioni
nella terra da tutti considerata santa.
Incontrare i musulmani?
Nel documento: Incontrare i musulmani
del Comitato “Islam in Europa”, del Consiglio delle conferenze
episcopali d’Europa (CCEE) e della Conferenza delle Chiese europee (KEK)
nel corso dell’anno 2003, viene proposta alle Chiese una riflessione e
una pratica di comportamento per l’incontro con i musulmani.
Il testo, ricco di riferimenti biblici, parte
dalla necessità di considerare come un “segno del nostro tempo,
attraverso il quale Dio ci interpella”, la presenza dei musulmani nelle
nostre società occidentali, secolarizzate e insieme alla ricerca delle
proprie radici culturali e religiose.
Definisce il nostro, un “tempo favorevole” in
quanto anche i cristiani «non vogliono più che la religione sia una
causa della guerra e di nuove divisioni».
In questo quadro di riferimento, e rimanendo
sempre “audaci e prudenti nello Spirito”, sono indicate tappe di
comportamento da percorrere nell’incontro, che «vanno adottate a seconda
del contesto e delle esigenze della testimonianza», in un mondo che non
si restringe più al villaggio, alla città o alla nazione.
Nel cammino dell’umanità verso il Padre
comune, che non rifiuta nessuno dei suoi figli, il punto nodale è il
richiamo evangelico al cristiano che è chiamato a fare il primo passo,
sempre pronto a tendere la mano (Mt 18,21).
Come sintesi, suggeriamo di avere sempre
presente sette punti, o incitamenti, a vivere bene la propria identità
di creature:
Il perdono nasce quando prendiamo coscienza
delle nostre ferite storiche.
Imparare a considerare e guardare l’altro/a
con gli occhi di Dio e amarlo/a con il cuore di Dio.
Esprimere i nostri valori nello sforzo di
ascolto dell’altro/a che si racconta.
Riconoscere le nostre colpe passate.
La fraternità cresce nella misura in cui
vogliamo essere fratelli e sorelle riconoscendo le nostre somiglianze e
differenze.
Rendere conto della nostra speranza (1Pt
3,15).
Favorire la pace e la giustizia nella
differenza e nel mutuo rispetto.