n. 12
dicembre 2005

 

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Il pasto e la reciprocità
L'Eucaristia educa a una "vita responsoriale"

di Antonella Meneghetti*

 

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Mangiare e bere sono una necessità, ma nell’esperienza comune questa necessità biologica, quando è compiuta insieme ad altri, può acquistare una valenza di ordine superiore. Stare a tavola tra parenti e amici diventa un rito sociale che, più o meno formalizzato, rinsalda vincoli di appartenenza, di amicizia, di solidarietà reciproca. Condividere lo stesso pasto è come condividere la stessa vita che da esso è nutrita. A nozze o a cena fra intimi, ciò che vale non è prendere cibo come necessità vitale, ma incontrarsi, vivere il piacere dello scambio di parole, di gesti, di cordialità, di sentimenti.

è la relazione che conta perché l’uomo\donna crescono, diventano persona attraverso la relazione.

Alla luce delle moderne scienze umane, la relazione assume una ‘centralità’ assoluta. Teologia, antropologia, psicologia, pedagogia, spiritualità si confrontano con sempre maggior convinzione con questa fondamentale dimensione della vita umana. Uno sguardo anche superficiale alla psichiatria e alla psicologia del profondo basta a dimostrarlo. Chi di noi non sperimenta il valore ‘nutritivo’ della relazione e il fatto che la sua assenza è infelicità? Chi non sa che la perdita di ogni relazione è peggio della morte?

Ogni comunione si fonda quindi sulla relazione, sul dialogo, sulla comunicazione. Così è della comunione tra Dio e la sua famiglia in Cristo, la Chiesa. Per questo il più alto segno della comunione cristiana si realizza nel pasto eucaristico.

Di questo mistero sono state fatte infinite letture: biblica, teologica, spirituale, antropologica, storica. Ma c’è anche una lettura liturgica, che non è meno teologica, ma si differenzia e si caratterizza dalle altre, perché parte dal vissuto della Chiesa, dalla sua fede celebrata.

L’itinerario liturgico della celebrazione è quello di cui i credenti hanno il primo impatto immediato.

Il Concilio, nella Costituzione liturgica n. 48, ha affermato che l’esperienza del mistero passa attraverso l’esperienza del rito. I fedeli, infatti, non dovrebbero assistere come muti spettatori al grande mistero della fede, ma comprenderlo bene – attraverso i riti e le preghiere, – partecipando all’azione sacra «consapevolmente, piamente, attivamente».

Era il metodo classico dei Padri che è ancora il nostro. Direbbe s. Agostino che la celebrazione è parola visibile in cui si incarna l’agire di Dio, cioè tutto il dramma della Storia della Salvezza che cammina verso la Pasqua. Un tale agire di Dio è volontà di comunicare amore e salvezza e comunicando esige, invoca una risposta.

 

La relazione salvifica intessuta di dialogo

Il sussidio per la formazione liturgica, In Spirito e Verità, del 1992, al n. 40 afferma: «La liturgia è un dialogo permanente tra Dio e il suo popolo, stretti e vincolati da un patto d’alleanza per la salvezza dell’uomo». Dio convoca il suo popolo perché vuol comunicare: ha una volontà da far conoscere, un dono da fare, un compito da assegnare. E il popolo, mosso da quella chiamata, è provocato a una risposta.

Così ha sempre agito Dio. Le sue offerte non sono imposizioni. Il dialogo è parte essenziale di queste proposte. E continua: «Così fu nella vocazione di Abramo e nel patto del Sinai, nelle promesse a Davide e Salomone, nelle grandiose convocazioni di Popolo da parte di Giosuè (Gs 8,32s), di Ezechia (2Cr 20), di Giosia (2 Cr 35) e di Esdra (Ne 8). Così fu nella misteriosa e imprevedibile offerta a Maria di Nazaret (Lc 1,26-35), penultimo atto in attesa di quello definitivo, supremo, della croce».

Dio incontra la sua creatura, o il suo popolo, sta ai patti, gli ricorda gli impegni assunti e, dall’altra parte, il popolo ascolta, comprende, risponde con la lode e il ringraziamento o la domanda di perdono. Di questo movimento, di questo ammirevole scambio tra Dio e il suo popolo, vive la liturgia.

Tutto si svolge lungo la linea dell’incontro dialogico. Lo esige l’economia dell’Alleanza.

 

La celebrazione eucaristica e la sua forza comunicativa

La celebrazione eucaristica, nella quale si attua il mistero pasquale di Cristo, si presenta strutturalmente nella dinamica di un rapporto dialogico declinato alternativamente sui temi dell’ascolto, del riconoscimento, dell’accettazione, della gratitudine, della dedicazione, dell’amore. Nella celebrazione eucaristica questa comunicazione si apre con un dialogo introduttivo, dove in una ricca sequenza di riti e parole si stabiliscono quei contatti comunicativi tra Dio e il suo popolo, dentro ai quali ogni singola persona è accolta là dove essa si trova di fatto nella fede, nella speranza e nella carità, ed è invitata a prendere parte all’esperienza dell’incontro con Dio in Cristo e con il suo Corpo, la Chiesa.

L’azione liturgica continua, poi, con una sorta di ascolto che diventa riconoscimento e comunicazione con Dio, che parla attraverso le Scritture.

La celebrazione, quindi, si apre in una sequenza di gesti e parole che dicono accoglienza di un Dono-Persona: Dio che si offre in Cristo, attualizzando il memoriale del suo sacrificio; e dicono anche invito a offrirsi con lui, ringraziando, lodando, benedicendo.

Infine, nei riti di comunione, la comunicazione si fa corpo comunitario, dove la differenza-alterità delle persone è in Cristo principio e ragione di comunione ricca e profonda, dove l’invocazione con Gesù del Padre suo e nostro, «la processione riconoscente alla mensa, la mano di tanti stesa nell’atto di mendicare il medesimo Pane di vita, l’amen che attesta in modo personale l’identica fede della Chiesa, il canto all’unisono, il silenzio per ringraziare, tutto è attuazione del Vangelo della comunione e invito alla sua pratica esistenziale»1.

 

Una proposta di dialogo che trasforma

Quando osserviamo la celebrazione eucaristica, troviamo che la struttura dialogica appare con più evidenza nella liturgia della parola. Le varie componenti dell’assemblea, di volta in volta, parlano o ascoltano per entrare in comunicazione, per partecipare vitalmente a quanto è detto o udito e non solo per esprimere una qualche verità2.

In questo comunicare dialogico, l’ascolto ha il primo posto; un ascolto che sa recepire intenzionalmente la parola come interpellante. L’ascolto vero sa fare spazio alla parola nella sua potenzialità fecondante3. Non c’è, infatti, miglior uditore di colui che sa farsi grembo, ambito, spazio vitale alla forza della parola.

Nella dinamica del comunicare, il vero ascolto non è solo un udire intenzionato ad accogliere il messaggio e a lasciarsi trasformare. è anche un udire condizionato dal tempo. Come atto che prende in carico una parola interpellante, non può abbreviare, economizzare o annullare il tempo; non può “fare questione di tempo”4. Sa sostare, sa “perdere” tempo, sa porsi attivamente nella dinamica della ricerca che va verso la decisione, mettendo in atto, nell’apertura fiduciosa e amante, la propria creatività. Il rischio della decisione è la meta richiesta dalla dinamica dialogica del comunicare attraverso la parola e alla parola5.

Questa dialettica è vera per ogni comunicazione, ma è maggiormente vera nella comunicazione di fede alla parola di Dio. La comunione a Cristo e al suo corpo sacramentale ed ecclesiale parte anzitutto dalla comunione alla sua parola.

L’ascolto della sua parola non consiste tanto in una recezione di contenuti, quanto piuttosto nel riconoscimento dell’Autore nascosto dietro quei contenuti.

Così si comprende ciò che viene proclamato anche quando alla fine il lettore conclude: “Parola di Dio”, pur avendo dichiarato all’inizio trattarsi del contenuto di una lettera di Paolo, o di Pietro, o di Giovanni. Una parola diventata “presenza di Dio”, proprio perché messa in atto dentro a un’azione liturgica. «Alla base di ciò sta il fatto che nella proclamazione non “leggo” qualcosa, ma qualcuno mi parla; lo scritto non è più solo una parola, non è più logos, ma dia-logos»6.

Ed è proprio in questo dialogo che avviene il riconoscimento dell’Altro, di Dio che parla al singolo e alla comunità e attende una risposta.

Ma comunicare alla Parola è anche comunione di fede, è anche esperienza comunitaria perché è ascolto credente dentro a un’azione comunitaria.

C’è qualcuno (il lettore) che parla “al posto di” e c’è chi ascolta. Ma tutti gli uditori sono “sotto la stessa parola”7: colui che proclama (anche lui uditore), colui che presiede e ciascun presente, tutti sono parte viva di un corpo, l’assemblea. Coloro che ascoltano e coloro che proclamano agiscono in comunione con gli altri, per comunicare la stessa fede alla stessa storia di salvezza, partecipata da Dio al suo popolo.

è decisivo, credo, sottolineare questa comunione di ascolto e di annuncio che rende visibile l’unità della fede e che costituisce e fonda l’unità del corpo, tanto quanto la comunione al corpo spezzato e al sangue versato della celebrazione eucaristica in senso stretto.

Comunicare alla Parola è senz’altro un’esperienza comunitaria, soprattutto se liturgica, che stimola anche la crescita del singolo nella comprensione della Parola e nella sua attuazione storica, per tornare poi ancora a beneficio della comunità ecclesiale e civile. Scrive s. Gregorio Magno: «So che spesso molte cose che nella Scrittura da solo non riuscivo a comprendere, le ho capite quando mi sono trovato in mezzo ai fratelli»8. Il ritrovarsi fedele attorno alla Parola celebrata aiuta a interpretare insieme più efficacemente la storia e i nodi più critici dei tempi in cui viviamo e del vissuto dei singoli e delle comunità, e a trovare poi le forme più adeguate di evangelizzazione, sorrette dalla concreta condivisione e dalla fattiva solidarietà.

 

“Azione” di offrirsi e “parola” da accogliere

Il riconoscimento di Dio, fatto attraverso l’accoglienza della sua parola, provoca riconoscenza e offerta di sé. La liturgia eucaristica sta proprio in questa linea dell’offerta- ringraziamento a Dio da parte della comunità che lo accoglie e lo ringrazia per mezzo di Gesù9.

Del resto, tutta la storia della salvezza può essere felicemente letta in questa linea di riconoscimento dialogico da parte dell’umanità in Gesù e di riconoscenza (eucaristia = ringraziamento) oblativa della stessa umanità per mezzo di Gesù. è la dinamica dialogica dell’alleanza che nell’Eucaristia si fa comunione10. Parola e azione del donarsi sono ugualmente presenti nella liturgia della parola e in quella eucaristica, ma con accenti diversi11. Là è la parola che è legata all’azione, all’atto oblativo del proclamare, qui è l’azione che si fa annuncio. L’azione dell’offrire il cibo è la “parola” (messaggio) da accogliere: «Questo è il mio corpo dato... Mangiatene...» (Lc 22,19).

E il comunicare di Dio è, al contempo, sia il rivelarsi attraverso la sua parola, sia l’atto del darsi in cibo e bevanda nel suo corpo e nel suo sangue.

 

Chiamati a consegnarsi in cibo

ll darsi di Dio non aspetta il contro-dono. Egli rompe i nostri schemi economici del do ut des. Si lascia mangiare, consumare. La sua è la rottura di tutte le logiche economiche e mercificanti e si comprende solo nella linea dell’eccedenza, del paradosso, della follia12.

C’è chi afferma che il dono esclude il contro-dono13. Nella dinamica fredda della ricompensa, certamente sì. Il comunicare di Dio non è finalizzato a riavere in contraccambio, ma è gratuito, non ha precomprensioni.

Eppure, comunicare al corpo donato e al sangue versato immette nella stessa corrente oblativa, suscita una risposta, esige (chiama) la partecipazione alla sorte di Lui.

La conseguenza logica e operativa è semplice e disarmante. Se comunicare è partecipare alla stessa sorte, occorre lasciarsi spezzare come lui, essere dati in cibo come lui.

L’esortazione paolina della lettera ai Romani (12,1) di offrirsi in sacrificio vivente, come una ripetizione del memoriale eucaristico: «Fate questo in memoria di me», invita a diventare come lui eucaristia per Dio. «Egli si è offerto a Dio in sacrificio di soave odore; offritevi anche voi in sacrificio vivente e gradito a Dio! Ma è Gesù stesso che ci esorta a fare così (...); egli, infatti, non intendeva dire soltanto: Fate esattamente i gesti che ho fatto io, (...) ma intendeva dire anche: Fate la sostanza di ciò che ho fatto io; offrite anche voi il vostro corpo in sacrificio, come vedete che ho fatto io! (...) Permettetemi di offrire al Padre il mio stesso corpo che siete voi; non mi impedite di offrire me stesso al Padre; io non posso offrirmi totalmente al Padre finché c’è un solo membro del mio corpo che si rifiuta di offrirsi con me! Completate dunque ciò che manca alla mia offerta»14.

“Spezzare” se stessi secondo la volontà di Dio, come ha fatto Gesù, significa anche “darsi in cibo” come lui, farsi padri e madri che nutrono la mente, il cuore, la fede, il bisogno di giustizia, il bisogno di senso, il bisogno di educazione che l’uomo ricerca. «Date voi stessi da mangiare» (Mt 14,15), risponde Gesù agli Apostoli che vogliono rimandare sbrigativamente la folla affamata15. Nella partecipazione al mistero eucaristico Gesù ci invita al dono senza riserve, senza limiti, mettendo a disposizione tutto, fosse anche solo cinque pani e due pesci (Mt 14,18).

E tale disponibilità può essere vissuta, anche e semplicemente, come una restituzione di noi stessi a Dio nell’obbedienza libera della fede, un ritorno a lui, riconosciuto come il Signore, davanti alla continua suggestione di sentirsi e credersi centro orgoglioso e disperato di tutto. Dare se stessi in questo modo non è nella linea del contro-dono, che stempera la gratuità del dono, ma in quella dell’amore che si sorprende di esistere, come i giusti nel giudizio, secondo Matteo, che non sembrano consapevoli di aver fatto del bene (Mt 25,39).

 

Trasformati dallo stesso comunicare al suo corpo

Comunicare al suo corpo e sangue è fare un solo corpo. «Il pane che noi spezziamo non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti siamo un corpo solo» (1Cor 10,16-17).

Non a caso i Padri della Chiesa hanno chiamato sia l’Eucaristia che la Chiesa “corpo di Cristo”: mangiare il corpo di Cristo non è nient’altro che diventare il Corpo di Cristo16.

Anche il concilio Vaticano II, citando s. Paolo e la liturgia del Giovedì santo, ricorda la memoria eucaristica dell’origine, da cui la Chiesa è generata ed espressa: «Ogni volta che il sacrificio della croce, col quale Cristo nostra Pasqua è stato immolato (1Cor 5,7), viene celebrato sull’altare, si attua l’opera della nostra redenzione. E insieme, col sacramento del pane eucaristico, viene rappresentata e prodotta l’unità dei fedeli, che costituiscono un sol corpo in Cristo (1Cor 10,17)»17.

La comunione ecclesiale che nasce dall’Eucaristia è ancora, quindi, dono, proposta. Non si produce da sé, non si autogenera, ma si riceve. Non è frutto dello sforzo della ricerca dell’uomo, ma l’offerta libera e gratuita di un dono, che non è meritato, né meritabile. è data dalla gratuita partecipazione al mistero di morte e risurrezione del Signore attraverso l’invito (è ancora una proposta) del mangiare all’unica mensa e bere all’unica coppa. Nessun espediente umano può generare un rapporto così intimo e reale, nessuna esaltazione collettiva, pur provocata da perfette strategie pedagogiche, potrà realizzare l’unità delle membra di Cristo. 

Una trasformazione reale nel corpo ecclesiale avverrà solo per il dono della comunione al suo corpo sacramentale. Una comunione che provoca vera comunione nella carità di Cristo, nella forza dello Spirito santo. «A noi che ci nutriamo del corpo e sangue del tuo Figlio, dona la pienezza dello Spirito santo perché diventiamo (e questo ‘diventare’ è carico di tutta la forza trasformatrice dell’epiclesi) in Cristo un solo corpo e un solo spirito»18.

Ripercorrendo la dinamica di una relazione che mira a creare una comunione matura e maturante tra Dio e il suo popolo, abbiamo tracciato in filigrana un progetto formativo fondato sul sacramento centrale della nostra fede celebrata.

L’Eucaristia – qui riletta nella sua dinamica propria di azione fatta di parole, cose e gesti intenzionati, che veicolano messaggi e muovono alla partecipazione in un continuo interscambio vitale – è apparsa come il luogo per eccellenza che unifica la persona e la proietta nel dono di sé maturante e felice.

Il dialogo che nasce dall’ascolto disponibile di una parola proclamata, ma anche detta nell’azione del dare\darsi in cibo, suscita una risposta coinvolgente che, per la forza dello Spirito, trasforma. E trasforma in corpo suo, la Chiesa.

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