Alla luce delle moderne
scienze umane, la relazione assume una ‘centralità’ assoluta. Teologia,
antropologia, psicologia, pedagogia, spiritualità si confrontano con
sempre maggior convinzione con questa fondamentale dimensione della vita
umana. Uno sguardo anche superficiale alla psichiatria e alla psicologia
del profondo basta a dimostrarlo. Chi di noi non sperimenta il valore
‘nutritivo’ della relazione e il fatto che la sua assenza è infelicità?
Chi non sa che la perdita di ogni relazione è peggio della morte?
Ogni comunione si fonda quindi sulla
relazione, sul dialogo, sulla comunicazione. Così è della comunione tra
Dio e la sua famiglia in Cristo, la Chiesa. Per questo il più alto segno
della comunione cristiana si realizza nel pasto eucaristico.
Di questo mistero sono state fatte infinite
letture: biblica, teologica, spirituale, antropologica, storica. Ma c’è
anche una lettura liturgica, che non è meno teologica, ma si differenzia
e si caratterizza dalle altre, perché parte dal vissuto della Chiesa,
dalla sua fede celebrata.
L’itinerario liturgico della celebrazione è
quello di cui i credenti hanno il primo impatto immediato.
Il Concilio, nella Costituzione liturgica n.
48, ha affermato che l’esperienza del mistero passa attraverso
l’esperienza del rito. I fedeli, infatti, non dovrebbero assistere come
muti spettatori al grande mistero della fede, ma comprenderlo bene –
attraverso i riti e le preghiere, – partecipando all’azione sacra «consapevolmente,
piamente, attivamente».
Era il metodo classico dei Padri che è ancora
il nostro. Direbbe s. Agostino che la celebrazione è parola visibile
in cui si incarna l’agire di Dio, cioè tutto il dramma della
Storia della Salvezza che cammina verso la Pasqua. Un tale agire
di Dio è volontà di comunicare amore e salvezza e comunicando esige,
invoca una risposta.
La relazione salvifica intessuta di dialogo
Il sussidio per la formazione liturgica,
In Spirito e Verità, del 1992, al n. 40 afferma: «La liturgia è un
dialogo permanente tra Dio e il suo popolo, stretti e vincolati da un
patto d’alleanza per la salvezza dell’uomo». Dio convoca il suo popolo
perché vuol comunicare: ha una volontà da far conoscere, un dono da
fare, un compito da assegnare. E il popolo, mosso da quella chiamata, è
provocato a una risposta.
Così ha sempre agito Dio. Le sue offerte non
sono imposizioni. Il dialogo è parte essenziale di queste proposte. E
continua: «Così fu nella vocazione di Abramo e nel patto del Sinai,
nelle promesse a Davide e Salomone, nelle grandiose convocazioni di
Popolo da parte di Giosuè (Gs 8,32s), di Ezechia (2Cr 20), di Giosia (2
Cr 35) e di Esdra (Ne 8). Così fu nella misteriosa e imprevedibile
offerta a Maria di Nazaret (Lc 1,26-35), penultimo atto in attesa di
quello definitivo, supremo, della croce».
Dio incontra la sua creatura, o il suo
popolo, sta ai patti, gli ricorda gli impegni assunti e, dall’altra
parte, il popolo ascolta, comprende, risponde con la lode e il
ringraziamento o la domanda di perdono. Di questo movimento, di questo
ammirevole scambio tra Dio e il suo popolo, vive la liturgia.
Tutto si svolge lungo la linea dell’incontro
dialogico. Lo esige l’economia dell’Alleanza.
La celebrazione eucaristica e la sua forza
comunicativa
La celebrazione eucaristica, nella quale si
attua il mistero pasquale di Cristo, si presenta strutturalmente nella
dinamica di un rapporto dialogico declinato alternativamente sui temi
dell’ascolto, del riconoscimento, dell’accettazione, della gratitudine,
della dedicazione, dell’amore. Nella celebrazione eucaristica questa
comunicazione si apre con un dialogo introduttivo, dove in una
ricca sequenza di riti e parole si stabiliscono quei contatti
comunicativi tra Dio e il suo popolo, dentro ai quali ogni singola
persona è accolta là dove essa si trova di fatto nella fede, nella
speranza e nella carità, ed è invitata a prendere parte all’esperienza
dell’incontro con Dio in Cristo e con il suo Corpo, la Chiesa.
L’azione liturgica continua, poi, con una
sorta di ascolto che diventa riconoscimento e comunicazione con
Dio, che parla attraverso le Scritture.
La celebrazione, quindi, si apre in una
sequenza di gesti e parole che dicono accoglienza di un
Dono-Persona: Dio che si offre in Cristo, attualizzando il memoriale del
suo sacrificio; e dicono anche invito a offrirsi con lui,
ringraziando, lodando, benedicendo.
Infine, nei riti di comunione,
la comunicazione si fa corpo comunitario, dove la differenza-alterità
delle persone è in Cristo principio e ragione di comunione ricca e
profonda, dove l’invocazione con Gesù del Padre suo e nostro, «la
processione riconoscente alla mensa, la mano di tanti stesa nell’atto di
mendicare il medesimo Pane di vita, l’amen che attesta in modo personale
l’identica fede della Chiesa, il canto all’unisono, il silenzio per
ringraziare, tutto è attuazione del Vangelo della comunione e invito
alla sua pratica esistenziale»1.
Una proposta di dialogo che trasforma
Quando osserviamo la celebrazione
eucaristica, troviamo che la struttura dialogica appare con più evidenza
nella liturgia della parola. Le varie componenti dell’assemblea, di
volta in volta, parlano o ascoltano per entrare in comunicazione, per
partecipare vitalmente a quanto è detto o udito e non solo per esprimere
una qualche verità2.
In questo comunicare dialogico, l’ascolto ha
il primo posto; un ascolto che sa recepire intenzionalmente la parola
come interpellante. L’ascolto vero sa fare spazio alla parola nella sua
potenzialità fecondante3.
Non c’è, infatti, miglior uditore di colui che sa farsi grembo, ambito,
spazio vitale alla forza della parola.
Nella dinamica del comunicare, il vero
ascolto non è solo un udire intenzionato ad accogliere il messaggio e a
lasciarsi trasformare. è
anche un udire condizionato dal tempo. Come atto che prende in carico
una parola interpellante, non può abbreviare, economizzare o annullare
il tempo; non può “fare questione di tempo”4.
Sa sostare, sa “perdere” tempo, sa porsi attivamente nella dinamica
della ricerca che va verso la decisione, mettendo in atto, nell’apertura
fiduciosa e amante, la propria creatività. Il rischio della decisione è
la meta richiesta dalla dinamica dialogica del comunicare attraverso la
parola e alla parola5.
Questa dialettica è vera per ogni
comunicazione, ma è maggiormente vera nella comunicazione di fede alla
parola di Dio. La comunione a Cristo e al suo corpo sacramentale ed
ecclesiale parte anzitutto dalla comunione alla sua parola.
L’ascolto della sua parola non consiste tanto
in una recezione di contenuti, quanto piuttosto nel riconoscimento
dell’Autore nascosto dietro quei contenuti.
Così si comprende ciò che viene proclamato
anche quando alla fine il lettore conclude: “Parola di Dio”, pur avendo
dichiarato all’inizio trattarsi del contenuto di una lettera di Paolo, o
di Pietro, o di Giovanni. Una parola diventata “presenza di Dio”,
proprio perché messa in atto dentro a un’azione liturgica. «Alla base di
ciò sta il fatto che nella proclamazione non “leggo” qualcosa, ma
qualcuno mi parla; lo scritto non è più solo una parola, non è più
logos, ma dia-logos»6.
Ed è proprio in questo dialogo che avviene il
riconoscimento dell’Altro, di Dio che parla al singolo e alla comunità e
attende una risposta.
Ma comunicare alla Parola è anche comunione
di fede, è anche esperienza comunitaria perché è ascolto credente dentro
a un’azione comunitaria.
C’è qualcuno (il lettore) che parla “al posto
di” e c’è chi ascolta. Ma tutti gli uditori sono “sotto la stessa
parola”7:
colui che proclama (anche lui uditore), colui che presiede e ciascun
presente, tutti sono parte viva di un corpo, l’assemblea. Coloro che
ascoltano e coloro che proclamano agiscono in comunione con gli altri,
per comunicare la stessa fede alla stessa storia di salvezza,
partecipata da Dio al suo popolo.
è
decisivo, credo, sottolineare questa comunione di ascolto e di annuncio
che rende visibile l’unità della fede e che costituisce e fonda l’unità
del corpo, tanto quanto la comunione al corpo spezzato e al sangue
versato della celebrazione eucaristica in senso stretto.
Comunicare alla Parola è senz’altro
un’esperienza comunitaria, soprattutto se liturgica, che stimola anche
la crescita del singolo nella comprensione della Parola e nella sua
attuazione storica, per tornare poi ancora a beneficio della comunità
ecclesiale e civile. Scrive s. Gregorio Magno: «So che spesso molte cose
che nella Scrittura da solo non riuscivo a comprendere, le ho capite
quando mi sono trovato in mezzo ai fratelli»8.
Il ritrovarsi fedele attorno alla Parola celebrata aiuta a interpretare
insieme più efficacemente la storia e i nodi più critici dei tempi in
cui viviamo e del vissuto dei singoli e delle comunità, e a trovare poi
le forme più adeguate di evangelizzazione, sorrette dalla concreta
condivisione e dalla fattiva solidarietà.
“Azione” di offrirsi e “parola” da
accogliere
Il riconoscimento di Dio, fatto attraverso
l’accoglienza della sua parola, provoca riconoscenza e offerta di sé. La
liturgia eucaristica sta proprio in questa linea dell’offerta-
ringraziamento a Dio da parte della comunità che lo accoglie e lo
ringrazia per mezzo di Gesù9.
Del resto, tutta la storia della salvezza può
essere felicemente letta in questa linea di riconoscimento dialogico da
parte dell’umanità in Gesù e di riconoscenza (eucaristia =
ringraziamento) oblativa della stessa umanità per mezzo di Gesù.
è la dinamica dialogica
dell’alleanza che nell’Eucaristia si fa comunione10.
Parola e azione del donarsi sono ugualmente presenti nella liturgia
della parola e in quella eucaristica, ma con accenti diversi11.
Là è la parola che è legata all’azione, all’atto oblativo del
proclamare, qui è l’azione che si fa annuncio. L’azione dell’offrire il
cibo è la “parola” (messaggio) da accogliere: «Questo è il mio corpo
dato... Mangiatene...» (Lc 22,19).
E il comunicare di Dio è, al contempo, sia il
rivelarsi attraverso la sua parola, sia l’atto del darsi in cibo e
bevanda nel suo corpo e nel suo sangue.
Chiamati a consegnarsi in cibo
ll darsi di Dio non aspetta il contro-dono.
Egli rompe i nostri schemi economici del do ut des. Si lascia
mangiare, consumare. La sua è la rottura di tutte le logiche economiche
e mercificanti e si comprende solo nella linea dell’eccedenza, del
paradosso, della follia12.
C’è chi afferma che il dono esclude il
contro-dono13.
Nella dinamica fredda della ricompensa, certamente sì. Il comunicare di
Dio non è finalizzato a riavere in contraccambio, ma è gratuito, non ha
precomprensioni.
Eppure, comunicare al corpo donato e al
sangue versato immette nella stessa corrente oblativa, suscita una
risposta, esige (chiama) la partecipazione alla sorte di Lui.
La conseguenza logica e operativa è semplice
e disarmante. Se comunicare è partecipare alla stessa sorte, occorre
lasciarsi spezzare come lui, essere dati in cibo come lui.
L’esortazione paolina della lettera ai Romani
(12,1) di offrirsi in sacrificio vivente, come una ripetizione del
memoriale eucaristico: «Fate questo in memoria di me», invita a
diventare come lui eucaristia per Dio. «Egli si è offerto a Dio in
sacrificio di soave odore; offritevi anche voi in sacrificio vivente e
gradito a Dio! Ma è Gesù stesso che ci esorta a fare così (...); egli,
infatti, non intendeva dire soltanto: Fate esattamente i gesti che ho
fatto io, (...) ma intendeva dire anche: Fate la sostanza di ciò che ho
fatto io; offrite anche voi il vostro corpo in sacrificio, come vedete
che ho fatto io! (...) Permettetemi di offrire al Padre il mio stesso
corpo che siete voi; non mi impedite di offrire me stesso al Padre; io
non posso offrirmi totalmente al Padre finché c’è un solo membro del mio
corpo che si rifiuta di offrirsi con me! Completate dunque ciò che manca
alla mia offerta»14.
“Spezzare” se stessi secondo la volontà di
Dio, come ha fatto Gesù, significa anche “darsi in cibo” come lui, farsi
padri e madri che nutrono la mente, il cuore, la fede, il bisogno di
giustizia, il bisogno di senso, il bisogno di educazione che l’uomo
ricerca. «Date voi stessi da mangiare» (Mt 14,15), risponde Gesù agli
Apostoli che vogliono rimandare sbrigativamente la folla affamata15.
Nella partecipazione al mistero eucaristico Gesù ci invita al dono senza
riserve, senza limiti, mettendo a disposizione tutto, fosse anche solo
cinque pani e due pesci (Mt 14,18).
E tale disponibilità può essere vissuta,
anche e semplicemente, come una restituzione di noi stessi a Dio
nell’obbedienza libera della fede, un ritorno a lui, riconosciuto come
il Signore, davanti alla continua suggestione di sentirsi e credersi
centro orgoglioso e disperato di tutto. Dare se stessi in questo modo
non è nella linea del contro-dono, che stempera la gratuità del dono, ma
in quella dell’amore che si sorprende di esistere, come i giusti nel
giudizio, secondo Matteo, che non sembrano consapevoli di aver fatto del
bene (Mt 25,39).
Trasformati dallo stesso comunicare al suo
corpo
Comunicare al suo corpo e sangue è fare un
solo corpo. «Il pane che noi spezziamo non è forse comunione con il
corpo di Cristo? Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti siamo
un corpo solo» (1Cor 10,16-17).
Non a caso i Padri della Chiesa hanno
chiamato sia l’Eucaristia che la Chiesa “corpo di Cristo”: mangiare il
corpo di Cristo non è nient’altro che diventare il Corpo di Cristo16.
Anche il concilio Vaticano II, citando s.
Paolo e la liturgia del Giovedì santo, ricorda la memoria eucaristica
dell’origine, da cui la Chiesa è generata ed espressa: «Ogni volta che
il sacrificio della croce, col quale Cristo nostra Pasqua è stato
immolato (1Cor 5,7), viene celebrato sull’altare, si attua l’opera della
nostra redenzione. E insieme, col sacramento del pane eucaristico, viene
rappresentata e prodotta l’unità dei fedeli, che costituiscono un sol
corpo in Cristo (1Cor 10,17)»17.
La comunione ecclesiale che nasce
dall’Eucaristia è ancora, quindi, dono, proposta. Non si produce da sé,
non si autogenera, ma si riceve. Non è frutto dello sforzo della ricerca
dell’uomo, ma l’offerta libera e gratuita di un dono, che non è
meritato, né meritabile. è
data dalla gratuita partecipazione al mistero di morte e risurrezione
del Signore attraverso l’invito (è ancora una proposta) del mangiare
all’unica mensa e bere all’unica coppa. Nessun espediente umano può
generare un rapporto così intimo e reale, nessuna esaltazione
collettiva, pur provocata da perfette strategie pedagogiche, potrà
realizzare l’unità delle membra di Cristo.
Una trasformazione reale nel corpo ecclesiale
avverrà solo per il dono della comunione al suo corpo sacramentale. Una
comunione che provoca vera comunione nella carità di Cristo, nella forza
dello Spirito santo. «A noi che ci nutriamo del corpo e sangue del tuo
Figlio, dona la pienezza dello Spirito santo perché diventiamo (e
questo ‘diventare’ è carico di tutta la forza trasformatrice dell’epiclesi)
in Cristo un solo corpo e un solo spirito»18.
Ripercorrendo la dinamica di una relazione
che mira a creare una comunione matura e maturante tra Dio e il suo
popolo, abbiamo tracciato in filigrana un progetto formativo fondato sul
sacramento centrale della nostra fede celebrata.
L’Eucaristia – qui riletta nella sua dinamica
propria di azione fatta di parole, cose e gesti intenzionati, che
veicolano messaggi e muovono alla partecipazione in un continuo
interscambio vitale – è apparsa come il luogo per eccellenza che unifica
la persona e la proietta nel dono di sé maturante e felice.
Il dialogo che nasce dall’ascolto disponibile
di una parola proclamata, ma anche detta nell’azione del
dare\darsi in cibo, suscita una risposta coinvolgente che, per la forza
dello Spirito, trasforma. E trasforma in corpo suo, la Chiesa.