n. 12
dicembre 2006

 

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DIECI ANNI DOPO VITA CONSECRATA

di Pier Giordano Cabra

 

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Col passare del tempo, l’Esortazione apostolica Vita Consecrata appare sempre più nitidamente come un documento profetico, capace di lanciare provocazioni e sfide.

Una sfida al pessimismo circa il futuro, una sfida ad una certa riflessione incerta e minimalista nel confronto della grande realtà della vita consacrata, una sfida ad alcune tendenze egemoni della società attuale, soprattutto occidentale.

Il documento intende dare una solida identità alla vita consacrata, proprio in un momento delicato della sua lunga storia, affrontando con chiarezza temi controversi e riaffermando il suo valore insostituibile. Ma non è reticente neppure nei confronti delle sue responsabilità nei confronti delle distorsioni della società secolaristica.

Diamo uno sguardo rapido ad alcuni punti nodali.

Una identità forte

In questi dieci anni si è ulteriormente ridotta la visibilità della vita consacrata in Occidente, mentre sta avanzando in altre parti del mondo. Entrambe le situazioni esigono una chiara coscienza della identità della vita consacrata per evitare le opposte derive della rassegnazione e del trionfalismo.

Uno degli effetti più benefici della nostra Esortazione, è stato quello di dare alle persone consacrate una motivata e solida fiducia nel loro peculiare genere di vita.

Chi ha avuto la possibilità di presentare, subito dopo la pubblicazione, ad assemblee, normalmente affollate, il documento, ha sentito, non una volta solo, un significativo commento, di questo tono: “Finalmente sappiamo quello che siamo!”.

Venivamo infatti da un periodo di grandi e seri dibattiti del post-concilio, nei quali la teologia aveva dovuto cimentarsi con le affermazioni del Vaticano II sull’universale chiamata alla santità, sull’uguale dignità dei battezzati nella Chiesa, sull’incerta posizione della vita consacrata in quanto stato di vita. Tutto ciò aveva portato a sfumare talmente le affermazioni, da rendere difficile la comprensione della identità stessa della vita consacrata non solo fuori, ma anche dentro la stessa vita consacrata.

Col risultato non infrequente di seminare incertezza e persino sfiducia, di indebolire la perseveranza, di scoraggiare la promozione delle vocazioni.

Se è vero che una buona teologia non è sufficiente per una decisione di fede, è anche vero che senza motivazioni teologiche forti, la decisione di fede è esposta a tutti i venti delle opinioni e dei pareri più contrapposti, che ne erodono più o meno velocemente la base e ne indeboliscono i motivi di fedeltà e perseveranza.

La identità della vita consacrata è cristologica, ha affermato a più riprese il nostro documento. La vita consacrata è legata cioè al mistero di Cristo, in quanto essa ripresenta la donazione totale di sé, che Cristo ha fatto al Padre e ai fratelli. Donazione che si esprime nell’abbracciare i consigli evangelici come cifra della totalità del dono.

Tale forma di vita è insuperabile, sia perché è quella di Cristo e oltre Cristo non si può andare, sia perché comprende il tutto che si possa dare, almeno intenzionalmente. E oltre il tutto non si può andare. Da qui la sua “eccellenza” oggettiva nell’ordine della santità.

Una identità, come si vede, chiara e forte, che, se assimilata in tutte le sue implicazioni, può sostenere grandi decisioni e motivare le fedeltà più combattute.

Un’identità che sta per essere recepita, almeno come dottrina, dentro la vita consacrata, ma che non sembra ancora essere riconosciuta (o conosciuta?) in altre componenti ecclesiali.

Un’identità basata sulla consacrazione, sull’appartenenza a Dio, sull’essere di Cristo, e non su elementi più vistosi quali possono essere le motivazioni prevalentemente umanistiche o sociologiche e persino il servizio apostolico o una particolare missione.

La consacrazione è l’elemento fondamentale, che può essere continuato anche quando certe attività vengono meno e permettere di reggere quando le attività sono travolgenti.

La consacrazione è lo “zoccolo duro” della vita consacrata, di ogni vita consacrata, sia di quella in declino che di quella in ascesa.

La non percezione della centralità della consacrazione è una spia del deficit di mistica del nostro tempo, della difficoltà a leggere il Mistero, dell’influsso del mondo utilitaristico e delle preoccupazione per l’efficienza, o per la facciata, anche in ambienti ecclesiali.

In questo senso la sfida continua sia dentro la vita consacrata sia fuori, per una riscoperta del suo mistero. E ciò non per estraniarsi dal mondo, con i suoi valori e i suoi limiti, ma per offrire il contributo più autentico e necessario, quello che scaturisce appunto dalla comprensione della sua identità.

Tutto ciò è chiaro, almeno per molti, sulla carta, ma poi talvolta evapora nella affaccendata vita quotidiana, dove il tempo della preghiera si riduce, le occupazioni assorbono, le preoccupazioni affaticano e la superficialità istupidisce.

La indispensabile dimensione mistica esige tempo: l’auspicata «tensione conformativa a Cristo» è frutto di una preghiera non occasionale e non utilitaristica.

L’identità forte esige una forte assimilazione, per evitare la non mai sufficientemente deprecata inflazione di parole altisonanti e di elaborati documenti regolarmente dimenticati.

Una identità dinamica

Il saldo radicamento cristologico, se è la pietra solida e sicura dell’edificio, non è tutto l’edificio e non risolve di per sé tutti i problemi.

E uno dei problemi che si sono dovuti affrontare in questi anni è la diversità di domande, che almeno qui in Occidente, si pongono alla vita consacrata, domande sempre più differenziate nei confronti di quelle del passato, assieme al fatto di una ridotta possibilità di risposte, dovuta anche alla diminuzione numerica.

Una diversità tanto rilevante che si è parlato addirittura di “rifondazione” della vita consacrata. Basta pronunciare una tale parola per dire la serietà delle difficoltà che si sono dovute affrontare.

Ma probabilmente l’orizzonte indicato dal nostro documento, quello della fedeltà creativa, pur con tutte le difficoltà di applicazione pratica che comporta, meglio aiuta concretamente gli Istituti nel loro impegno di rinnovamento, anche per il suo chiaro riferimento alle radici carismatiche, dalle quali è difficile e problematico staccarsi o soltanto allontanarsi.

Quello che è rilevante è che Vita consecrata ha presentato una identità non bloccata né bloccante, ma duttile, in grado di confrontarsi sia con le provocazioni dell’Occidente, sia con le invocazioni del Terzo Mondo.

E se in Occidente l’esito del confronto è incerto, dati i rapidissimi mutamenti in corso, quello con il Terzo Mondo presenta buone prospettive, almeno per i prossimi decenni.

Lo sviluppo della vita consacrata in Africa e in Asia, con il conseguente ulteriore processo di internazionalizzazione, rappresenta uno dei mutamenti più vistosi e rilevanti nella Chiesa e della Chiesa: come la Chiesa, anche la vita consacrata sarà sempre più marcata dalla presenza di persone del Terzo Mondo. E ciò rappresenta una novità non irrilevante, almeno nei confronti della situazione maturatasi nel secondo millennio.

Tutto infatti sta dicendo che stiamo entrando nella fase finale dell’eurocentrismo nella vita consacrata. La vita consacrata sta abbandonando l’Europa nel momento in cui l’Europa sta allontanandosi dalla sua tradizione cristiana. La trasmigrazione del cristianesimo in altri continenti porta con sé la trasmigrazione della vita consacrata: stiamo assistendo a un fenomeno imponente di novità inimmaginabili solo pochi anni fa, novità che fortunatamente la vita consacrata affronta con una esperienza consolidata.

L’accelerazione del processo di inculturazione ha trovato sostegno nelle pagine motivanti e incoraggianti del nostro documento (nn. 79 e 80), che sta dando un notevole contributo al processo di mondializzazione della vita consacrata e della stessa Chiesa.

I due estremi patologici, non sempre evitati, entro cui si muove l’impegno di una corretta inculturazione della vita consacrata sono da una parte la ripresentazione di modelli europei, con qualche spruzzatina di esoticità, e dall’altra la teorizzazione di un modello talmente debitore della cultura locale da creare un qualche cosa di totalmente nuovo nei confronti delle realizzazioni iniziali dei fondatori e fondatrici.

A questo proposito è utile riprendere le pagine sulla cattolicità intesa non come uniformità, ma come scambio di doni (n 47), che valgono non solo per la Chiesa, ma anche per la stessa vita consacrata.

Vita consecrata, a questo proposito, può essere visto come un documento di confine tra l’eurocentrismo al tramonto e l’alba di una nuova incarnazione della vita consacrata nei vari continenti.

Una identità dinamica quindi, quella prospettata dal documento, che permette alla vita consacrata di crescere numericamente e qualitativamente sullo scacchiere mondiale.

Resta la sfida dell’unità degli Istituti, caratterizzati oramai da una tale varietà di forme, da rendere sovente necessaria una chiarificazione del carisma, non soltanto dal punto di vista storico, ma quale punto di coagulo e di identità, che permetta di essere fedeli contemporaneamente al Fondatore e a questo nostro tempo, nei vari contesti assai differenziati.

A questo proposito possono soccorrere i frequenti richiami al discernimento (nn. 73-74), quale corretto approccio per la comprensione del nuovo, visto non soltanto come fenomeno umano o sociale, ma quale espressione dell’azione dello Spirito, che richiede e suggerisce una risposta.

Anche qui la competenza specifica va unita alla familiarità orante della Parola di Dio, per poter leggere la storia sacra dentro la storia profana, l’opera di Dio che richiede la risposta della nostra opera.

Una identità aperta

L’ecclesiologia di comunione ha lasciato larghe tracce nel nostro documento come pure nella vita degli Istituti. Vita consecrata se da una parte è preoccupata di definire con chiarezza l’identità dello stato di vita dei consacrati, dall’altra lo pone in immediata relazione con gli altri stati di vita che compongono il mosaico della Chiesa.

Il nostro documento rimanda praticamente al precedente documento sulla Vita fraterna in comunità per quanto riguarda la vita fraterna delle sue comunità, risposandone pienamente l’ecclesiologia di comunione, come appare evidentemente anche dal titolo dato alla seconda: Signum fraternitatis.

Inoltre: di fronte alla possibilità di scivolare nel fondamentalismo da parte di una identità forte, una spiritualità di comunione rende rispettosi delle posizioni altrui. Non si tratta ovviamente di venire a patti con il relativismo, ma di vivere la propria identità come proposta, come manifestazione di un contributo positivo ad una convivenza basata sull’amore che ha fiducia nella sua forza tranquilla e pacifica di attrazione.

Entro il quadro della spiritualità di comunione, il documento pone la breve ed esemplare trattazione della nuova collaborazione con i laici (nn. 54-56), che in questi anni ha subito una vistosa accelerazione.

Che qui in Occidente le opere della vita consacrata siano in difficoltà è cosa risaputa. Che queste opere siano spesso un peso eccessivo è cosa altrettanto evidente. Che queste opere debbano essere abbandonate allegramente, non è altrettanto evidente.

Le opere pesano, ma è questo un motivo sufficiente per lasciarle? Non sono nate per dare corpo al carisma? Non possono essere gestite diversamente, magari assieme a dei laici preparati a condividere il meglio possibile il nostro carisma o almeno il nostro servizio? In alcuni casi la collaborazione con i laici non è una soluzione viabile. Ma non tutte le situazioni sono identiche.

In questi anni sembra che in alcuni ambienti si sia ceduto troppo al facile sport del tiro a segno contro le opere, rendendole colpevoli di tutti i disastri della vita consacrata, dal calo delle vocazioni, alla sua diminuita significatività, alla invasione secolaristica dentro le sue mura.

Tra la difesa all’ultimo sangue delle opere, non poche delle quali davvero insostenibili, e la loro demonizzazione, c’è, almeno qualche volta, la possibilità di una gestione in cui i laici siano più coinvolti, corresponsabilizzati e persino responsabilizzati in prima persona.

Se alcuni anni fa i laici nelle nostre opere lavoravano per noi, e se in molte realtà oggi essi lavorano con noi, la prospettiva è quella che noi siamo per i laici dentro le nostre opere.

Questo esige formazione delle persone consacrate prima, o contemporaneamente, della formazione dei laici. Non è raro il caso constatare situazioni in cui appare essere più agevole coinvolgere i laici che convincere le persone consacrate ad un diverso rapporto con i laici.

La rilettura dei numeri del nostro documento sulla partecipazione dei laici al nostro servizio e al nostro carisma dovrebbe renderci almeno più cauti nel proporre la soluzione della fuga dalle opere, in cerca di una nuova ma dubbia identità.

Anche qui può aiutare una rilettura del carisma, magari fatta con i laici, il contributo dei quali è sovente illuminante per una decodificazione della forma originariamente assunta dal carisma, in vista di una necessaria attualizzazione.

Un’identità realista

Vita consecrata è profetica proprio perché realista, dal momento che non promette nulla in termini di successo umano. Ricorda anzi che a noi è richiesta la fedeltà e non necessariamente il successo, anche se la ricerca della buona salute dell’Istituto e delle sue opere va perseguita come segno di amore alla causa del Regno.

Il realismo del documento è prima di tutto il realismo della fede, che in termini concreti per noi significa mettere al primo posto la nostra consacrazione. Siamo presenti al mondo, innanzitutto come consacrati, persone cioè che mettono Dio al di sopra di tutto e la sequela di Cristo come criterio di valutazione e di orientamento di tutti gli altri atteggiamenti.

Il realismo del documento fa intendere che essere fedeli alla nostra vocazione non significa necessariamente avere futuro storico. Il futuro è nella mani di Dio, al quale non possiamo non dare fiducia, dal momento che sa condurre le cose un poco meglio di noi. La profezia deriva appunto da questa incondizionata fedeltà al nostro genere di vita, anche in situazione in evidenza di frutti tangibili.

Il realismo del documento è una sfida alla nostra spesso inconscia mentalità utilitaristica che prega per ottenere qualche cosa, che lavora per raggiungere i risultati da noi fissati e attesi, che pratica con Dio il “do ut des”.

Questi dieci anni ci portano a scoprire che vale anche per noi il principio di gratuità: facciamo quello che dobbiamo fare, per amore e spesso “solo per amore”, come è avvenuto a Betania, dove si è sprecato molto perché si è amato molto.

Il realismo del documento è il realismo della croce, dello spreco, dove da un disastroso fallimento è venuta la più esaltante benedizione al mondo.

Il realismo del documento è il realismo dei santi che si sono prodigati all’estremo per il buon andamento delle cose loro affidate, ma che hanno sempre lasciato l’ultima e decisiva parola alla santa volontà del Signore o alla Provvidenza, secondo il linguaggio di molti di loro.

Non ultimo aspetto del realismo del documento è il rilievo dato alla donna consacrata: è l’inizio di una rivisitazione della diversità della vita consacrata femminile da quella maschile. In questi anni si sono moltiplicati gli studi sulla specificità della vita religiosa femminile proprio da parte delle donne consacrate, che stanno aiutando anche i signori uomini, religiosi e laici, a comprendere meglio il mondo della donna consacrata, con i suoi problemi e le sue diversità.

Un’identità sfidante

Alcune tematiche in questi anni hanno ricevuto solo una debole attenzione e, almeno sino ad ora, non consta che siano state particolarmente fatte oggetto di una riflessione costante e approfondita.

Si può citare come esempio il tema della controcultura dei consigli evangelici: «I consigli evangelici non fanno dell’uomo soltanto un discepolo che segue Cristo da vicino, ma ricostruiscono in lui l’immagine di Dio, così come è stato formato nella creazione. Coloro che seguono i consigli evangelici non solo sono dei santi, sono anche dei terapeuti per l’umanità ferita dall’hybris. Attraverso la morte volontaria, essi distruggono l’idolatria del creato e rendono visibile il Dio vivente. Se per sventura non si trovasse più nessuno che volesse essere povero, casto, obbediente, la causa di Dio rischierebbe di morire in questo mondo. Perché le cause per le quali nessuno vuole più morire sono già morte» (Cardinal Daneels).

La vita consacrata è una sfida alla società secolarizzata, nella quale l’economia, la sessualità, la realizzazione di sé tendono alla completa autonomia, quando non sono staccate da ogni riferimento religioso.

La sfida è anzitutto sul piano della ferma e lieta testimonianza, ma investe anche la critica a tali tendenze, quali premesse di uno specifico contributo culturale.

La povertà è austerità di vita e solidarietà con il povero, ma è anche denuncia degli abusi di ogni sistema che mette al centro l’idolatria del denaro.

La castità nel celibato è dedicarsi all’amore di Dio e del prossimo, anima e corpo, ma è anche denuncia dell’idolatria del sesso, che distorce la realtà e porta allo sfruttamento della donna e all’abuso sui bambini.

L’obbedienza è riconoscere la centralità della volontà di Dio, ma è anche denuncia dell’ossessione della “realizzazione di sé”, come pure è ferma denuncia degli abusi delle dittature e di ogni forma di anarchia.

C’è bisogno di tanta fiducia nella bontà del nostro genere di vita, in quanto ripresentazione della forma di vita di Cristo, e quindi “modalità divina di vivere la vita umana”, da impegnarsi ad essere “terapeuti” in qualità di testimoni e di pazienti ed intelligenti promotori di una controcultura evangelica dentro la nostra società occidentale, sempre più confusa nella sua involuzione etica.

C’è bisogno, e lo diciamo con trepidazione, che noi persone consacrate accettiamo innanzitutto la sfida della santità, per iniziare le altre sfide tanto impegnative e controcorrente.

Ci sarebbe anche un’altra sfida, tutta interna alla vita consacrata maschile, quello che attiene ai cosiddetti “istituti misti”, dove gli orientamenti del Sinodo e dell’Esortazione Apostolica (n. 61) attendono ancora una risposta. L’ispirazione evangelica sarà capace di movimentare il diritto? O sarà il diritto che rallenterà l’ispirazione evangelica? L’alleanza tra i due è così difficile?

Dieci anni dopo

Lo scenario mondiale sta mutando: Cina ed India stanno imponendosi come giganti destinati a diventare il centro del pianeta. Sono immensi paesi, portatori di civiltà diverse, con grandi tradizioni culturali ed enormi risorse umane proiettate verso il futuro. La vita consacrata ha campi immensi in cui rendere presente Gesù “dolcezza del mondo”. Ancora una volta saranno persone motivate in profondità dalla “passione per Cristo e per l’uomo”, persone capaci di fraternità, ad impegnarsi creativamente e credibilmente.

Il nostro documento dicendo alla vita consacrata “sii te stessa”, la proietta nel futuro.

È con identità forte che si affrontano le sfide forti.

È con un’identità dinamica e aperta che è possibile inculturarsi in ogni ambiente.

È con un’identità realista, dove si lascia libero spazio allo Spirito, che si può essere profeti in ogni ambiente.

Dieci anni dopo le indicazioni di Vita consecrata non hanno perso la loro capacità di costruire e di provocare.

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