n. 3
marzo 2007

 

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«LA PAROLA DI DIO PRIMA SORGENTE DI OGNI SPIRITUALITÀ CRISTIANA»
(Vita Consecrata 94)
di Innocenzo Gargano

 

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La Parola, insieme con il sacramento, è elemento determinante in ogni forma di spiritualità che, a partire da Cristo, si definisca «cristiana». Infatti la dottrina spirituale cristiana nasce dalla Parola biblica, non soltanto perché dall’accoglienza del kerigma è originata l’esperienza stessa della fede (fides ex auditu) che conduce alla nuova nascita battesimale, ma anche perché la Parola, insieme con il Pane eucaristico, è nutrimento indispensabile per la crescita della Chiesa e di ogni singolo membro di essa fino alla pienezza della maturità di Cristo.

La Parola biblica però fruttifica soltanto se ricevuta «in terra buona e ottima» disposta ad attendere con serenità e fiducia i frutti della Parola maturati, come avvenne in Maria, la Madre di Gesù, grazie all’azione dello Spirito Santo.  

La parabola «archetipo»

La parabola del seminatore del Vangelo di Luca è paradigma appropriato di tutto questo. In realtà lo sarebbero altrettanto altre pagine del Nuovo Testamento e in particolare alcune indicazioni molto precise degli Atti degli Apostoli. Ma, per il momento, tenendo conto anche dell’esiguità dello spazio che ci è stato concesso, riteniamo sufficiente tentare un breve approfondimento della parabola, nella redazione lucana, compiuto da una prospettiva suggerita dall’approccio ermeneutico dei Padri della Chiesa, che noi amiamo definire metodo di lectio divina.

In Luca 8, 1-21, testo all’interno del quale si pone la parabola e la sua spiegazione, non si parla soltanto della «gran folla» che si radunava e accorreva a Gesù da ogni città (v. 4), ma anche di «alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità» alle quali vengono aggiunte «molte altre che assistevano» Gesù e i suoi discepoli «con i loro beni» (vv. 2-3).

Possiamo accostare questo richiamo alla presenza, a conclusione del brano, della «madre e i fratelli» di Gesù definiti tali - contro l’opinione comune che invece si fermava ai loro legami di sangue - in quanto «sono coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica (in greco: poiountes)» (v. 21). Una simile inclusione femminile è molto misteriosa, perché unisce nella comune appartenenza al discepolato di Gesù di Nazaret diverse esperienze fondamentali della natura umana, quali quella dell’amicizia, della maternità e della fraternità, tutte rese possibili, perché «il seminatore uscì a seminare il suo seme» (Lc 8, 5).

All’origine c’è infatti un’allusione genitoriale che riconduce la sorgente di tutto semplicemente al Padre, nel quale tutti si riconoscono non soltanto amici e discepoli, ma anche fratelli e sorelle del Signore. C’è però un’aggiunta assai misteriosa: infatti si accenna anche alla possibilità, per coloro che ascoltano e mettono in pratica la Parola, di riconoscersi uno per uno madre della Parola di Dio (tou theou), e questo perché le permettono di essere «partorita» (poiountes) mettendola in pratica con la vita.

Esigenza di sponsalità

In tutto questo sembra essere fuori discussione la presenza di un certo privilegio della dimensione femminile, ma altrettanto fuori discussione sembra essere una sorta di contesto genitoriale in cui si consuma il chiaro primato della parola di Dio. L’evangelista Luca spiega in 8,11 che «il seme è la parola di Dio (ho logos tou theou)». Ma non è forse ovvio per il credente del Nuovo Testamento identificare ho theòs semplicemente con ho patèr, il Padre?

I Padri della Chiesa, e qui mi riferisco in particolare a san Giovanni Crisostomo, attirerebbero inoltre l’attenzione sulla presenza di una misteriosa collaborazione (synergeia), di natura sponsale, anch’essa indispensabile, perché il seme ricevuto possa non solo attecchire, ma raggiungere anche quella completezza necessaria che lo porti a maturazione fino a consentire il concepimento prima, e il parto poi, di una creatura nuova.

L’insistenza sulla synergeia viene in ogni caso accentuata nel testo evangelico. Lo stesso Luca collega di fatto la fruttificazione ad una tale collaborazione fra seme e terreno da permettere di considerare questi due elementi addirittura come una cosa sola, con chiaro riferimento simbolico proprio di tipo nuziale. Scrive infatti al v. 15: «Il seme caduto sulla terra buona sono coloro che, dopo aver ascoltato la parola con cuore buono e perfetto, la custodiscono e producono frutto con la loro perseveranza». Il linguaggio parabolico permette in realtà d’immaginare una tale immedesimazione, fra il seme e il terreno, da poter riferire la fruttificazione all’uno e all’altro simultaneamente!

È la presenza di questo mistero nel rapporto fra il credente e la parola di Dio che ha incantato per secoli i Padri della Chiesa, e i monaci cristiani in particolare, nella loro dedizione quotidiana alla lectio divina.

L’«admirabile commercium»

Cosa succede in realtà in una lectio divina? Proprio uno scambio straordinario d’intimità fra la persona divina e la persona umana che si scambiano parole d’amore - come direbbe Origene - attraverso la Scrittura ispirata. Lettore e testo sono talmente coinvolti l’uno dentro l’altro, nel rispetto dell’alterità di ciascuno dei due, che si può tranquillamente parlare di vera e propria esperienza nuziale. Non solo, ma i Padri arrivavano a considerare del tutto legittimo parlare, anche in questo caso, di una communicatio idiomatum molto analoga a quella che la teologia aveva insegnato a riconoscere nella contemplazione del mistero del Verbo fatto carne. L’admirabile commercium, del quale si parla a proposito del mistero dell’Incarnazione del Figlio di Dio, si realizza, infatti, altrettanto misteriosamente, fra colui che ascolta la Parola e la Parola stessa.

Scriveva san Gregorio di Nissa, commentando Cantico dei Cantici 2, 8: «Una voce! Il mio diletto! Eccolo viene saltellando per i monti, balzando su per le colline». «Che cosa è adombrato in queste parole? Forse ciò che è rivelato nel Vangelo: il piano della manifestazione del Verbo di Dio, già precedentemente annunziato dai profeti e realizzato con l’apparizione del Signore nella carne». Il testo prosegue: «Eccolo, egli sta dietro il nostro muro; guarda dalla finestra, spia attraverso le inferriate». E Gregorio commenta: «La parola unisce a Dio la natura umana, dopo averla illuminata per mezzo dei profeti e della Legge. E così nelle finestre vediamo adombrati i profeti che aprono il varco alla luce, mentre nelle inferriate riconosciamo l’insieme dei precetti della Legge. Attraverso gli uni e gli altri entra lo splendore della vera luce. Luce piena si fece poi quando a coloro che si trovavano nelle tenebre e nell’ombra di morte apparve la vera luce, per la sua unione con la natura umana».

Quindi il Nisseno conclude: «Dapprima, dunque, i raggi delle visioni profetiche, balenati all’anima e accolti nella mente attraverso le finestre e le inferriate, c’infondono il desiderio di vedere il sole a cielo aperto; ma, subito dopo, l’oggetto del desiderio diventa realtà. Infatti è scritto: “Alzati, amica mia, mia bella, e vieni, o mia colomba”. Vediamo il Verbo che attrae a sé la sposa, di virtù in virtù, come sui gradini di una scala».1

Biblio-teca vivente

In analogia con ciò che avviene nell’accostarsi alla santa Eucaristia, si può dire che, accostandosi alla Parola del Signore si diventa colui che si riceve o, per meglio dire, che si ascolta, permettendogli di renderci partecipi della sua natura divina (cf 2Pt 1,4). Di questo erano talmente convinti i Padri antichi che, quando sant’Atanasio di Alessandria parlava, per esempio, di Antonio, il grande monaco egiziano, non soltanto constatava che egli era divenuto biblio-teca vivente, ma aggiungeva che a lui si poteva fare riferimento semplicemente come alla parola di Dio (logos theou).

San Gregorio Magno, in Occidente, poteva perciò concludere serenamente, riferendosi a coloro che si fossero trovati nella stessa condizione di Antonio: «viva lectio est vita bonorum»2 e cioè: la vita dei buoni può essere paragonata ad un testo che, non meno del testo biblico, diviene legittimo oggetto di lectio o, più propriamente, di lectio divina. Infatti, «non per nulla i giusti nella sacra Scrittura sono chiamati libri, come sta scritto: Furono aperti i libri. Fu aperto anche un altro libro, quello della vita. I morti vennero giudicati in base a ciò che era scritto in quei libri (Ap 20, 12). Si dice che furono aperti i libri, anche perché allora si vede la vita dei giusti nei quali si scorgono impressi con le opere i comandamenti divini».3

Nacque così e si diffuse la convinzione che si potesse leggere la Bibbia nelle biografie dei santi, inaugurando una prassi preziosa soprattutto per coloro che non avevano avuto una formazione culturale adeguata a poter leggere e interpretare in modo appropriato le divine Scritture.

Restava, né poteva essere altrimenti, la necessità di riferirsi sempre all’archetipo biblico originario. Da qui lo sforzo di memorizzare la Bibbia, di trascriverla continuamente, di raffigurarla sui codici e sulle pareti delle chiese o dei monasteri, di portarla con sé in quella vera e propria Bibbia in miniatura che erano le icone, ma soprattutto di ritrovarne il senso pieno nell’incontro personale, vissuto nella preghiera più intensa, con Gesù risorto. Ma da qui anche l’attenta ricerca a rapportare ciascun personaggio o testo biblico al gradino concreto sul quale il credente, progredendo verso un’intimità sempre più alta col Signore, poggiava i suoi passi giorno dopo giorno. Se infatti era indiscutibilmente vero per tutti: «lucerna pedibus meis verbum tuum» (luce ai miei passi è la tua parola: Sal 118/119,105), diventava anche un’esigenza quasi ovvia individuare il testo biblico preciso da cui farsi aiutare in ciascuna delle singole fasi del proprio itinerarium mentis in Deum.

La «praxis» e la «teoria»

Molto presto i nostri Padri antichi stabilirono anche dei criteri di lettura biblica sia per indicare cosa leggere, dell’insieme del testo biblico, sia per insegnare come leggere. Divenne tradizionale, per esempio, per ciò che riguardava l’Antico Testamento, l’indicazione dei libri che si potevano leggere nelle singole fasi della crescita spirituale. Così, prendendo come punto di riferimento la raccolta biblica dei tre libri sapienziali attribuiti a Salomone: Proverbi, Ecclesiaste e Cantico dei Cantici, si consigliava di leggerli secondo un ordine ben preciso che distingueva l’insieme del corpo dei credenti in principianti, proficienti e perfetti, insistendo sull’inopportunità di passare al libro successivo prima che il precedente non fosse diventato tutt’uno con la vita. Il libro dei Salmi invece, considerato pane indispensabile per ogni companatico e sintesi per eccellenza di tutti i libri biblici, copriva l’intero arco del cammino spirituale divenendo anzi, per alcuni, l’unico testo di riferimento in ogni momento della vita quotidiana. Rimase famoso il detto medioevale: una via in Psalmis, cioè: strada maestra necessaria a tutti è quella indicata dal Salterio. I salmi venivano cantati abitualmente in comune, specie nella preghiera liturgica, ma venivano anche cantillati in privato con la voce o con la memoria del cuore (il par coeur francese!).

Il Nuovo Testamento era poi sinonimo d’incontro personale col Signore risorto. Da cui il primato dei Vangeli, sempre, e la convinzione che il Vangelo fosse non soltanto la chiave che apriva il senso nascosto in ogni libro biblico, ma anche il contenuto propriamente detto. E se gli Atti degli Apostoli e le Lettere apostoliche potevano essere letti come un proseguimento logico del Vangelo stesso divenuto vita, le Lettere di Paolo, ritenute cibo evidentemente più solido, erano invece riservate ai più avanzati o maturi nel cammino della fede.

Altra attenzione ricevevano, nella pietà dei nostri Padri antichi, i Libri storici e i Libri dei Profeti. In essi i monaci, in particolare, ma anche altri uomini di chiesa, ricercavano i modelli per antonomasia di ogni singola vocazione cristiana all’interno dell’appartenenza comune al popolo di Dio. Patriarchi, Re, Profeti e Saggi d’Israele, ai quali si aggiunsero in seguito i Profeti e gli Apostoli del Nuovo Testamento, divennero le figure (typoi), ma anche i modelli che chiedevano di essere continuamente riproposti, lungo l’intero arco della storia, dai membri del nuovo popolo di Dio identificato con la Chiesa.

L’iniziazione al «senso spirituale»

Per imparare il come leggere le Scritture sante occorreva mettersi assolutamente alla scuola del Nuovo Testamento e dei Santi Padri. Cominciava così l’iniziazione spirituale vera e propria, che aveva, come obiettivo fondamentale, quello d’imparare a fare il passaggio dalla lettera allo spirito nella lettura della pagina biblica. Va da sé che non si trattasse di pura tecnica, ma di vera e propria comunicazione o trasmissione, da persona a persona, di un’esperienza di vita. Il passaggio fondamentale era quello ottenuto dall’utilizzazione della chiave della fede che permetteva di superare la soglia della forma scritta per inoltrarsi nel mistero che, oltre quella soglia, si celava.

Il contenuto del mistero biblico non poteva essere diverso da quello rivelato in e da Gesù di Nazaret, il quale nell’ottavo giorno della sua risurrezione, «aprì loro la mente all’intelligenza delle Scritture» (Lc 24,45) - come scrive Luca - e «cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui» (Lc 24, 27). Gesù risorto proseguiva poi a compiere la sua esegesi spirituale - ed era questa la convinzione comune - nella multiforme manuductio garantita dalla premura costante della Chiesa.

L’aiuto offerto dalla Chiesa, nei suoi pastori, nei suoi catechisti e nei suoi padri spirituali (pneumatikoi), creava quel particolare affinamento spirituale che permetteva non soltanto di leggere nei personaggi dell’Antico Testamento la presenza di un aspetto particolare del mistero della persona di Gesù, ma anche di riprodurre nella propria vita i lineamenti stessi di lui. Si era convinti infatti che egli non solo si fosse fatto tutt’uno con gli uomini di Dio (viri Dei) del passato, ma proseguisse anche a identificarsi nel presente con poveri, ammalati, prigionieri, assetati, affamati in tutti i sensi, e soprattutto con quei perseguitati a causa della giustizia, nei quali la Lettera agli Ebrei aveva insegnato a riconoscere il ripetersi, nel Nuovo Testamento, delle profezie di lui già intraviste nei viri Dei dei quali parlano le Scritture ispirate dell’Antico Testamento.

L’apertura mistica

La vocazione del cristiano, preoccupato anzitutto di seguire Cristo, diventava a questo punto impegno costante a riproporre nella propria vita, sia pure in modo parziale rispetto alla pienezza di Cristo, uno di quei viri Dei appena ricordati, mettendosi a disposizione dello Spirito, per diventare quella ulteriore «pagina sacra» o «pagina biblica» in cui tutti potessero riconoscere il riproporsi dell’unica storia della salvezza ancora in atto, e in progresso continuo, fino al compimento del giorno del Signore atteso alla fine dei tempi.

Tutto questo era vissuto poi in modo altamente dinamico. Ritornava ancora una volta, in questo nuovo contesto, la distinzione fra chi era solo nella fase del principiante e chi sperimentava già un progresso che lo poneva sempre più vicino al compimento. Ma ciò su cui i Padri della Chiesa insistevano supponeva anche la convinzione che, lungo questo itinerario, ci fosse una sorta di legge del feed beck secondo la quale ogni meta raggiunta diventava anche punto di partenza per progredire ancora.

San Gregorio Magno diceva che «Divina eloquia cum legente crescunt»4 e san Gregorio di Nissa scriveva, a questo proposito, pagine ancora più profonde. Nel seguito, per esempio, della sua quinta Omelia su Ct 2,8, che abbiamo già citato, questo grande mistico e dottore della Chiesa scriveva a proposito della parola di Lui: «Dapprima manda un raggio della sua luce attraverso le finestre profetiche e le inferriate, cioè i precetti della Legge, e l’invita ad accostarsi alla luce che la rende bella come una colomba luminosa. Quando poi essa ha accolto in sé tutta la bellezza di cui è capace, di nuovo, come se finora non le avesse comunicato nessun bene, l’attrae a una partecipazione più elevata, cosicché lo stato già raggiunto accende ulteriormente il suo desiderio, e per lo splendore della bellezza da cui si vede sempre sovrastata, ha la sensazione di essere appena all’inizio della salita in Dio».5

Un monaco - Benedetto Calati - al quale sono molto affezionato e sul quale sta per uscire con i tipi delle Edizioni Dehoniane un lavoro dottorale di suor Grazia Paris delle Dorotee di Cemmo dal titolo: Uomo di Dio amico degli uomini. L’insegnamento spirituale di Benedetto Calati, proponeva gli stessi concetti citando un altro grande mistico e Padre della Chiesa: san Bernardo di Chiaravalle.

Padre Calati premette che il cristiano perfetto, inteso come realizzazione ultima dell’alleanza sponsale con Dio, ha per ciò stesso percorso uno dopo l’altro i gradini che l’hanno assimilato alla sposa descritta nel Cantico dei Cantici. Quindi spiega parafrasando Bernardo: «Con la rinunzia al mondo il credente è salito sul primo gradino della sapienza eretto dall’intelligenza dell’insegnamento dei Proverbi: primo pane. Con l’emendamento dei propri costumi posa i suoi piedi sul secondo gradino, avendo fatto suo l’insegnamento dell’Ecclesiaste: secondo pane, offerto dalla bontà ospitale dell’amico. Accettando infine di gustare il terzo pane, che è il più saporito, quello contenuto nel Cantico dei Cantici, apice dei magnalia Dei operati nell’arco della storia della salvezza, è salito sul terzo ed ultimo gradino, riservato unicamente ai perfetti»6.

Questo criterio di discernimento della vita spirituale – spiega ancora padre Calati – ha un altissimo valore oggettivo, ma suppone sempre, in ogni fase della crescita spirituale, un ascolto fedele e attento della Parola che si fa compimento di quanto essa propone. Bernardo, in continuità con i Padri vissuti nel primo millennio della Chiesa, conclude padre Calati, «pone progresso spirituale e intelligenza del senso delle Scritture nel suo triplice grado di senso storico, morale e mistico».

Il monaco camaldolese, preso dall’entusiasmo, si fa volentieri discepolo del mistico cistercense quando ripete con lui che l’intelligenza del senso storico del testo biblico introduce l’anima nel giardino dello sposo (in hortum); il senso morale l’invita in luoghi già più intimi (in cellarium); il senso mistico infine l’inizia ai misteri inaccessibili della camera nuziale (in cubiculum).7

Nel grembo della Chiesa

Tutto ciò che abbiamo scritto in queste poche righe è soltanto uno stimolo a riflettere più seriamente sul ruolo determinante che ha la parola di Dio nel cammino di fede. D’altra parte non posso concludere senza richiamare l’attenzione su ciò che, seguendo l’insegnamento di Origene, ho imparato a riconoscere come le tre forme fondamentali assunte dalla parola di Dio per manifestarsi al mondo. Esse sono: le Sacre Scritture, il Verbo incarnato, la Chiesa che scaturisce e culmina nell’Eucarestia. Queste tre forme includono ovviamente altri modi di presenza della parola di Dio che i Padri antichi scoprivano, per esempio, nei cieli, che «raccontano la gloria di Dio» (manifestazione cosmica); nella storia dei popoli (manifestazione storica), che sono inevitabilmente parte del progetto globale della storia della salvezza; nei saggi di tutte le culture umane (manifestazione filosofica ed artistica); e nelle diversissime forme religiose (manifestazione religiosa) presenti e passate. Ciascuna di queste presenze erano percepite dai Padri cristiani come scintille o semi, sparsi ovunque, della parola di Dio. Tuttavia colui che, come Verbum adbreviatum, contiene in sé e verifica tutte le altre presenze, è e rimane la Parola fatta carne in Gesù di Nazaret, secondo le Scritture, Crocifisso e sepolto, secondo le Scritture, risuscitato secondo le Scritture e annunziato dalla Chiesa secondo le Scritture.

La Chiesa, che lo accoglie nella fede, ma ne è anche la continua presenza nella storia, diviene dunque colei che vive dell’armonia delle tre presenze: sedes apostolica et universa legit et tenet Ecclesia.8 È la Chiesa infatti che, avendo ricevuto il dono del Verbum adbreviatum, lo custodisce con premura e fedeltà e lo comunica con generosità e amore al mondo intero.

Innocenzo Gargano
Istituto Orientale - Roma
Piazza San Gregorio al Celio, 1 – 00184 Roma

 

1. Gregorio di Nissa, Omelie sul Cantico dei Cantici. Omelia 5 su Ct 2,8-17, in Unione Monastica Italiana per la Liturgia, L’Ora dell’ascolto, Piemme, Casale Monferrato 1997, 195-197.

2. Moralia in Iob, V, cap. XXIV, 16,PL 76, 295B.

3. Gregorio Magno, Commento morale a Giobbel/ 3, Città Nuova, Roma 1997, 355.

4. Gregorio Magno, Homiliarum in Ezechielem, 1, Homelia VII, 7: PL 76, 843D.

5. Vedi nota 1.

6. Cf. Sermones in cantica, Sermo I, 1, PL 183, 785B-786°.

7. Cf G. Paris, Uomo di Dio amico degli uomini. L’insegnamento spirituale di Benedetto Calati, Istituto Teologico sulla Vita Consacrata «Claretianum», Roma 2006, 272-273 (pro manuscripto):

8. Ugo di Rouen, Dialogorum Libri, V, 12, PL CXCII, 1206D.

 

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