n. 3
marzo 2007

 

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PAROLA E CHIESA
LA PAROLA CONVOCA E COSTRUISCE LA COMUNIT
À
di Bruno Secondin

 

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La comunità ecclesiale è inseparabile dalla Scrittura: librum et speculum diceva Bernardo, nel senso che il Libro fa da specchio alla comunità per giudicarsi, e la comunità fa da specchio al Libro perché senza di essa egli non ha alcun senso.

«La Chiesa non è nata da sé. Dio stesso l’ha chiamata come Ecclesia, cioè “convocata” dal mondo, di mezzo agli uomini. Dio stesso l’ha fatta sorgere con questa chiamata lanciata in Gesù, il Cristo. Per questo la Parola di Gesù Cristo, come la testimoniano gli apostoli, è la stella che guida la Chiesa. A questa Parola la Chiesa si rifà, è su questa Parola che deve incessantemente orientarsi nel disordine e negli errori di questo tempo».1

Chiesa e Scrittura formano un’unità viva, l’una è generata dall’altra e l’una dà splendore all’altra, reciprocamente. Tutta la vicenda del popolo ebraico lo sta a dimostrare e tutta la storia della Chiesa lo ha rilanciato con incessante creatività. Si tratta di una dipendenza genetica, in quanto il costituirsi dei credenti in un gruppo con un’identità marcata avviene proprio a partire dall’iniziativa di Dio di entrare in dialogo con qualcuno e farlo diventare convocatore e narratore di dialogo.

Vorrei parlare dei presupposti e delle esigenze da tener presenti per una vera lectio divina. Sono alcune esigenze teologiche sulla natura stessa della Parola di Dio, quando l’approccio intende essere un cercare Dio con tutto il cuore e con tutta la mente. Si tratta di principi teologici che vanno tenuti presenti, come contesto di un’autentica esperienza di Dio attraverso la lettura delle divine Scritture.2

Dio convoca con parole ed eventi

a. «Dio abita una luce inaccessibile» (1Tim 6,16; 1Gv 4,12.20): solo il Figlio lo conosce e lo vede, come Gesù stesso attesta (Gv 6,46). È lui il «testimone verace» del Padre e il mediatore - per chi ha visto e toccato, e udito e gustato (cf. 1Gv 1,1-3) - per poter avere accesso al Padre e per farsi «attirare» dal Padre. Dopo che Cristo è salito ai cieli, noi abbiamo accesso al Padre attraverso Lui grazie all’azione dello Spirito: lo Spirito è inviato da presso il Padre e ci richiama e rende vivi i fatti e i detti della vita e rivelazione offerta da Gesù Cristo.

Questo Spirito di santità e di profezia, che dà la vita, con la sua azione post-pasquale rende la comunità dei credenti unita in comunione profonda con le Persone divine. «Cristo ci ha donato il suo Spirito, che essendo unico e medesimo nella testa e nelle membra, dona a tutto il corpo la vita, l’unità e il movimento» (LG 7).

Questo è il mistero divino che ci anima, e che riempie la nostra esistenza. Ma è un mistero che non ci viene consegnato in un libro composto da fantasiosi scrittori. Il mistero ci viene consegnato in un libro che raccoglie un’esperienza: è descrizione parziale, frammentaria, lacunosa di un’esperienza intensa e inesprimibile, anzitutto vissuta, e poi solo in parte raccontata e scritta.

b. Il libro sacro è momento della Parola di Dio. Il nostro Dio è una persona, è il Dio vivente: parla, ascolta, comunica. Quindi quando diciamo parola di Dio (dabar Jahwé) dobbiamo intendere molto più che una parola, un suono della lingua e della bocca. Dabar Jahwé è tutto ciò che Dio rivela: i suoi progetti, le sue azioni, il suo amore, il suo giudizio, la sua promessa, il suo silenzio. Si tratta di opere, legge, oracolo: tutto insieme. Si tratta della stessa creazione, che è parola di rivelazione e di comunicazione ad extra: infatti per i Padri e i monaci la stessa contemplazione della natura faceva parte della lectio divina.

Si tratta dell’essere stesso di Dio nella sua attività ad extra, a noi conoscibile. Ancor più chiaramente è Dio stesso in quanto agisce e si rivolge ad extra. Per cui creazione, storia, emozione interiore, tragedie del popolo, perfino errori, catastrofi, sogni e memoria: tutto è parola di Dio. La Parola suprema ed estrema troverà la sua pienezza in Cristo Gesù: che è Dio detto e comunicato nella storia, nella maniera più assoluta e piena. Dietro e dentro le parole della Scrittura sta infatti il mistero di un Dio comunicativo: «Tutta la divina Scrittura costituisce un unico libro e quest’unico libro è Cristo, perchè tutta la Scrittura parla del Cristo e trova in Cristo il suo compimento».3

Tenendo in mente questo si capisce come potesse essere pacifico per la mentalità antica venerare le Scritture con la stessa diligenza con cui si venerava il corpo del Signore. La Parola umanata è totalmente presente e attiva nelle Scritture e nel Cristo. Ma uno solo è il Logos, è sempre il Logos divino che parla nella Scrittura (Origene). Incorporata nella Scrittura o incarnata in Gesù Cristo, è sempre la stessa parola eterna del Padre, lo stesso Logos che abita fra noi. Felici gli occhi che vedono lo Spirito divino nascosto dal velo della lettera. Il testo realizza una Presenza, non rimanda ad una presenza esterna al testo: per questo la lectio divina è un impegno senza termine, una opera mai compiuta dalla vita dell’uomo, perché lo stare alla Presenza non ha mai termine.

Parola per la comunità, specchio di comunità

a. La storia della Parola ci giunge intimamente connessa con la risposta. Perchè la risposta è esigita dalla stessa Parola. Dio manifestandosi produce, fa, realizza, mette in atto. Il libro «sacro» rappresenta il momento della trascrizione «permanente» di un incontro, di un «evangelium scriptum in cordibus fidelium». Certamente ci sono dei passaggi da tener presenti, ma senza perdere di vista l’unità di fondo. La Bibbia scritta è solo l’ultima fase di un lungo iter processuale.

Nelle culture antiche non si privilegiava la comunicazione scritta, ma quella orale, lo scritto serviva eventualmente come pro-memoria, ma il vero valore stava nella «edizione orale», ascoltata e interpretata costantemente. Anche se rivolta eventualmente al singolo, questa comunicazione era finalizzata alla comunità, a fare comunità, a creare identità comunitaria attraverso il narrare e l’ascoltare. Per questo nella tradizione ebraica il termine esatto non sarebbe «sacra scrittura», ma la «proclamazione» (miqra’), il che evoca immediatamente una comunità che ascolta la Parola viva (Dt 6,4), che si lascia appellare alla conversione (Sal 95,8), che si lascia mentalizzare (Esd 7,10), che prende così coscienza delle sue ragioni di vita e d’identità. Per questo la «proclamazione» non ha un fine in se stessa, ma diviene plasmatrice di identità comunitaria, memoria che rilancia il proprio destino verso altri orizzonti.

Le Scritture formano la struttura più intima del popolo di Dio e della Chiesa vivente: non sono un prodotto a priori, cui si aggancia il popolo in un secondo momento, come da fuori. Ma sono espressione del popolo generato attorno alla Parola, convocato dalla Parola, proclamatore, nel cuore e per iscritto, delle grandi gesta di Dio. E gli stessi episodi storici, le emozioni vissute e le epopee gloriose o dolorose, sono narrati con sempre nuovo pathos, come se fossero ancora in elaborazione, come una storia aperta e vissuta da sempre nuovi protagonisti: si pensi per esempio ai Salmi, che riprendono tutti i grandi temi e li rielaborano in maniera poetica, orante, esortativa, supplice.

Non si può separare la Bibbia dal cammino della storia (e di un popolo) sotto la guida della Parola. I libri sacri sono pertanto condensazione del filone sotterraneo del popolo, sono esplicitazione e tematizzazione della sua coscienza religiosa. Sono maturati e trasmessi dentro la comunità che spera ed attende, che ricorda e vive: i testi sono eloquenti e ritorneranno eloquenti solo se questo contesto è messo in opera.

Questo ci mostrano per esempio le grandi assemblee: Sinai (Es 24 e 34) con la stipulazione dell’Alleanza; Sichem (Gs 24; Deut 27) con il rinnovamento dell’Alleanza dopo il travaglio del deserto e l’entrata nella terra promessa; la scoperta del rotolo della Legge nel tempio con la nuova coscienza popolare sotto Giosia (2Cron 34). E infine, forse la più famosa di tutte, l’assemblea di Esdra con la solenne proclamazione della Legge e la spiegazione popolare (Esd 8).

Ma bisogna aggiungere anche il ruolo fondamentale svolto da altri elementi molto noti: anzitutto l’ufficio sinagogale ogni sabato, con la lettura della Torah e dei Profeti nel Tempio e nella Sinagoga. L’omelia nell’ufficio sinagogale aveva lo scopo di attualizzare la parola di Dio nei diversi contesti religiosi e culturali: da qui vengono le varie elaborazioni targumiche e midrashiche, che ampliavano in senso storico, esortatorio e simbolico le tradizioni orali o scritte. Bisogna ancora aggiungere l’utilizzo dei salmi, come risposta comunitaria, nella celebrazione liturgica: la loro varietà consentiva una vasta gamma di risposte a seconda delle circostanze e delle memorie, o anche una reinterpretazione attualizzata di antiche reazioni comunitarie.

b. La Chiesa (qahal) nel deserto nasce dalla Parola: c’è un legame stretto tra Popolo e Parola, fin dal suo nascere. La parola di Dio nel caos preesistente ha creato la terra e l’universo, nel caos egiziano ha chiamato alla libertà la moltitudine dispersa e l’ha riunita in un solo popolo, come «proprietà prediletta». È sulla parola di Dio che Mosé corre il rischio e l’avventura dell’Esodo.

La «convocazione nel deserto» (At 7,38) - al momento dell’alleanza - avviene sulla base delle Parole: «Radunami un popolo e io farò udire le mie parole» (Dt 4,10). E dopo che Mosé ha letto, il popolo accetta l’alleanza «conclusa dal Signore sulla base di tutte queste parole» (Es 24,7-8). Questa alleanza costitutiva dell’identità e della storia era ricordata ogni giorno: nello Shema: «Ascolta, Israele... » (Dt 6,4), nell’incontro sinagogale ogni settimana, nelle grandi feste pasquali di ogni anno (cf Dt 26: piccolo credo storico). Nei momenti di crisi si convoca il popolo attorno alla Parola (cf le assemblee e gli ordinamenti dei libri) e s’implora misericordia e salvezza secondo le promesse.

Israele era convinto che la Parola trasmessa, più che un rotolo, era l’espressione e l’esperienza di una presenza sempre nuova; e quindi il libro era qualcosa di sempre incompiuto, perchè la presenza non era mai ripetitiva, ma sempre nuova. Da qui deriva la grande libertà di aggiungere, correggere, adattare, sotto l’emozione nuova, o la nuova coscienza collettiva. Si pensi anche solo alla grande rilettura che si chiama deuteronomistica. Ma esempio classico possono essere sia i salmi, che rappresentano la storia pregata, sia i profeti che ripetono la storia e la mettono di nuovo in moto; sia infine il culto, specie le grandi feste, che hanno un ruolo profetico, simbolico, reale e non solo rituale.

Ma anche la «nuova qahal» - la Ecclesia della nuova alleanza - nasce proprio perché Dio raduna - attraverso gesti e parole, esempi e sofferenze di Gesù di Nazaret, Verbo fatto uomo - con l’annuncio della prossimità del Regno, l’interpellazione alla conversione, e il compimento della Legge, non solo i dispersi d’Israele, ma anche tutte le genti. Quello che noi chiamiamo Nuovo Testamento non è nato come libri e scrittura, ma anzitutto come esperienza di convivenza e amicizia con Gesù di Nazaret, ascoltando le sue proposte, le sue parabole, la sua interpretazione originale della Legge e della tradizioni. Soprattutto è nata attraverso la reinterpretazione vissuta della Pasqua, che era il nucleo vitale dell’identità della prima Alleanza, e che Gesù ha radicalmente rinnovato.

Dalla comunicazione vitale - narrativa, parenetica, laudativa, eucaristica, intercessoria – della buona novella impersonata dai detti e dal vissuto di Gesù, il Crocifisso risorto e glorificato, prende forma la «nuova comunità». Essa è comunità comunicativa e narrante, in vista di una comunione vitale con il Padre del Verbo fatto carne, e fra tutti gli uditori che hanno risposto all’annuncio. Non solo c’è quindi una continuazione fra Parola e comunità, ma la stessa comunità ha la caratteristica di essere «serva della Parola» di fronte alla storia vissuta e tutti gli uomini, e la sua stessa credibilità dipenderà proprio dalla capacità di essere incarnazione, trasfigurazione, speranza, comunione generata dalla Parola ascoltata e vissuta. La comunità nasce e si alimenta dalla Parola, ma anche la comunità dà carne alla Parola, la fa esistere come efficacia visibile, come «vangelo scritto non su fogli, ma sulla carne viva» (cf 2Cor 3, 2s).

Originalità: cercare il Volto dietro le parole

Una particolarità ancora vorremmo sottolineare, e che forse molti non hanno presente: la tipologia della verità «biblica» ha un carattere tutto speciale. Si tratta di verità da cercare. Se nella Bibbia noi a volte non troviamo la verità che cerchiamo o forse troviamo il contrario, e ciò ci sconcerta, forse è perchè le chiediamo una verità che fa comodo a noi e non prestiamo attenzione alla verità che essa ci offre.

La verità biblica ha queste caratteristiche peculiari:

- È una verità di genere semitico: vale a dire qualcosa di molto concreto, che non è relegabile al solo livello del pensiero, e che si conquista più con l’amore e l’azione che col pensarci su. Si ricordi la densità di significato del verbo conoscere: che vuol dire amare, essere accanto con intensità, avere un rapporto intimo.

- È una verità religiosa: v’é cioè una visione del mondo e della storia in cui al centro sta Dio come essenziale, unico, radice e fine di tutto. Non si tratta di un senso «religioso» accanto ad altri sensi, ma del nucleo più intimo e autentico del contenuto, e che ha Dio come oggetto e meta.

- La verità va scoperta: non è una fotografia istantanea, ma è il tentativo di fissare l’inesprimibile; magari riprendendolo da sempre nuove angolature, con rettifiche, integrazioni. Perchè è una verità che progredisce: Dio si svela e si incide nella memoria dinamica del popolo, attraverso ondate successive, ritocchi, rielaborazioni. Per cui la Bibbia non è che l’ultimo tempo di una lunga e complessa attività dello Spirito santo che consegna - attraverso l’opera di scrittori carismatici, radicati nella memoria del popolo - tutta la vicenda in Parola scritta: perché nel tempo non si dimentichino le “meraviglie” operate da Dio per la sua bontà.

- È pertanto un libro del popolo, il suo archivio più prezioso e aperto, nel quale Dio continua ad agire istruendo i suoi figli. È il libro del popolo eletto che proclama per la sua vita una parola e una memoria di liberazione sempre in atto. Va accostato perciò con l’animo del discepolato e con la fede in Dio presente. E bisogna anche farne una lettura sintetica e globale: per riuscire a cogliere attraverso la sincronia e la diacronia i nuclei centrali e dominanti, e scoprire nelle particolarità la presenza della globalità.

Conclusione in prospettiva di lectio comunitaria

La lettura orante della Parola in comunità - da non confondere semplicisticamente con i pia exercitia, come a volte anche il magistero sembra indicare - suscita una sete di dialogo con Dio, illumina i criteri di discernimento e stimola ad una conversione esistenziale non puramente moralistica né solo individualistica. Ma allo stesso tempo è un percorso esigente, che chiede costanza e perseveranza, un amore appassionato per la Parola come sorgente pura e perenne di santità e di dialogo orante. Per farla con il popolo bisogna sforzarsi sempre di entrare come «popolo» nel segreto della Parola: a piedi scalzi davanti a questo roveto ardente, col volto chino presso il «santuario» (in ebraico: debir) dove dimora la gloria. Non si tratta di insegnare qualche cosa al popolo dei credenti: ma di vivere insieme un’avventura rischiosa e trasfiguratrice, trasformatrice e adorante, lasciandosi «educare» da Dio come popolo convocato per una nuova alleanza (cf Os 11,1-4).

Per chi è «esperto» della Parola, non sempre riesce semplice mettersi in sintonia con la fede incerta e a volte confusa del popolo: corre il rischio allora d’imporre la propria teoria, la propria spiegazione, la propria applicazione. Solo ascoltando con cuore amante la Parola, per poterla davvero poi condividere e riascoltare con cuore stupito e sguardo contemplativo assieme al popolo, la lettura orante diviene davvero ascolto orante, dialogo orante, contemplazione e profezia che squarcia i veli di una storia opaca, e illumina di immensità le nostre esistenze precarie.

Bruno Secondin
Pontificia Università Gregoriana – Roma
Borgo S. Angelo, 15 – 00193 Roma

 

1. H. Kung, La Chiesa, Queriniana, Brescia 1969, 16.

2. Per più ampie indicazioni rimando al testo: B. Secondin, Lettura orante della Parola. Lectio divina sui Vangeli di Marco e Luca, Messaggero, Padova 2003, 13-47; L. Deiss, Vivere la parola in comunità, Torino 1976; M. Mazzeo, Parola di Dio e vita dei credenti, Devoniane, Bologna 2003.

3. Ugo di S. Vittore, De Arca Noe, II, 8: PL 176, 642c.

 

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