n.4
aprile 2007

 

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«Ora basta, Signore! ... Non sono migliore dei miei padri»
(1Re, 19,4)

di Bruno Secondin

 

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Forse potrà sembrare strano, ma di fatto di gente dalle speranze infrante e desiderosa di tirarsi in disparte delusa, o anche di mettere fine alla missione e perfino alla vita, è piena la Sacra Scrittura1. Adamo vive il suo fallimento con la paura e il nascondimento, Eva con una reazione che mostra la mancanza di sicurezza, perché rimanda l’accusa ad altri (Gn 3,10-12). Abramo mostra di lasciarsi trascinare dal suo carattere introverso verso una tristezza misteriosa per la mancanza di eredi (Gn 15,1-4) e poi per il rischio mortale di dover sacrificare anche il figlio nato in vecchiaia (Gn 22,1-19). Mosè ha cercato per lunghi decenni di soffocare ogni ricordo e ogni rimorso per il suo popolo nella sofferenza, e solleva ben cinque pesanti obiezioni alla chiamata di Dio presso il roveto ardente (Es 3,1-4,17).

Ma il popolo stesso nel deserto dell’esodo passa spesso dall’euforia alla ribellione e alla depressione rabbiosa (Es 15,22-17,7). Mentre il profeta Samuele dopo aver mostrato sapienza e coraggio nel far transitare dal governo dei giudici a quello della monarchia, con la scelta di Saul, resta poi impigliato nella mitizzazione del suo eletto, tanto da farsi rimproverare dal Signore per un pianto che non finisce mai (1Sam 16,1). E possiamo continuare con quasi tutti i profeti maggiori e minori, con condottieri popolari, e con sapienti delusi come Qohelet.

Anche nel Nuovo Testamento non mancano depressi e sfiniti, impauriti che distruggono se stessi nella vergogna (come Giuda) e avviliti che riescono a superare il senso di colpa grazie all’amore (ad es. Pietro, Maria di Magdala, Zaccheo, l’adultera, la samaritana...). Gesù stesso non è esente da passaggi oscuri e avvilenti: si pensi a quando piange davanti alle mura di Gerusalemme, nella veglia angosciata al Getsemani, incontrando le pie donne sulla via del Calvario, nella sensazione di essere abbandonato dal Padre sulla croce... E Paolo di Tarso quante volte non si sente avvilito sia per paura della propria fragilità, sia per la ostinazione fanatica dei suoi correligionari nel rifiutare il Cristo, sia per il ricordo di tante traversie che come a ondate gli tornano alla mente riaprendo paure e angosce.

Prendiamo in considerazione un gran campione di coraggio e audacia, che però conosce anche gli abissi della paura e le vertigini della voglia di morire. Parliamo del profeta Elia, audace testimone di Dio e perfino infantile nelle sue paure.

Elia profeta: un uomo che sfida tutto e tutti

La vicenda avventurosa del profeta di Tisbe è raccontata in pochi capitoli del libro dei Re (1Re 17-19 e 21; 2Re 1-2), e sembra più una epopea per grandi quadri che una vera biografia. Infatti non si conosce neppure la famiglia e la vocazione di Elia: egli appare improvvisamente con irruenza, minacciando la chiusura totale del cielo, fino a quando lo deciderà lui. Solo dal contesto generale si capisce a che cosa mira la sua protesta così minacciosa: risvegliare la coscienza del popolo, che sta pericolosamente adeguandosi alla prepotenza della regina Gezabele e adottando le sue pratiche religiose verso Baal, assurde per i veri israeliti.

Non entro se non di striscio in tutti i passaggi della scenografia dell’attività di Elia: cosa che pure ci darebbe spunti utili per capire il suo carattere, a momenti irruente e deciso, a momenti impaurito e titubante. Di fronte alle resistenze della vedova di Zarepta per il futuro del suo cibo, Elia non mostra alcun dubbio, non mancheranno né olio né farina. Ma quando all’improvviso muore il bimbo della donna che lo ospita, il profeta va in crisi profonda, e manifesta una incertezza sconcertante, insieme anche una solidarietà inattesa (1Re 17,7-24). E sarà proprio questa solidarietà che svelerà agli occhi della vedova una immagine “altra” di Dio, più compassionevole, impotente, quasi impaurito. E noi possiamo intravedere il volto del più grande dei profeti, Cristo Gesù, con le sue grida e le sue angosce (Ebr 5,7-9).

Nel momento del grande scontro sul Carmelo fra le centinaia di profeti di Baal e il profeta di Jhwh rimasto solo, ritroviamo ancora una fatica interiore del tisbite, che sente di essersi esposto ad un rischio senza rete, se la sfida non riesce. La sua preghiera angosciata: «Rispondimi, Signore, rispondimi!» (1Re 18,37) fa trapelare, insieme all’audacia, una venatura di paura e di angoscia mortale; che si trasformerà in furore massacrante dopo la vittoria, con lo sgozzamento dei 450 profeti. Ma subito dopo ancora una scena contraddittoria: la supplica prolungata di un uomo prostrato e rannicchiato, solidale con la sofferenza ormai pluriennale del popolo, e conclusa con la corsa euforica fino al palazzo regale di Izreèl (1Re 18,41-46).

Ma preferirei focalizzare la nostra attenzione sul passaggio successivo, sul momento della crisi più grave e mortale che Elia abbia passato.

«Prendi la mia vita…»

La reazione furiosa della regina Gezabele di fronte all’oltraggio perpetrato dal profeta Elia con lo sgozzamento di tutti i suoi profeti di corte, manda in tilt il vincitore della disfida del Carmelo, che non sa far altro che darsela a gambe, poiché la paura e l’impotenza lo dominano (1Re 19,1-3). Attraversa da Nord a Sud la Galilea e la Giudea, scende a Bersabea. Al limitare del deserto lascia il ragazzo che lo serviva e si inoltra verso sud per una intera giornata di cammino. E al crepuscolo precipita nella depressione più nera e mortale, buttandosi sotto un arido ginepro: «Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri» (1Re 19,4). È la rivelazione chiarissima di uno stato di depressione, che potremmo dire da manuale. Verifichiamo il fenomeno nei vari aspetti.

Anzitutto il peso della paura per una situazione che non sa come affrontare, dai contorni incerti e dagli esiti niente affatto positivi, vista la ferocia di Gezabele già conosciuta, quando massacrava a cuor leggero altri profeti. È una paura oggettiva, ma anche ingrandita dal suo carattere, dalla sua immaginazione, popolata dalla grandezza dei padri che non sente incoraggianti ma giudici. Vi è mescolata anche l’ambizione, perché si misurava sulla grandezza del passato, cercava di dare il suo apporto originale, e la pur grandiosa vittoria gli è ritornata come un boomerang avvelenato e non in benedizione.

Altro elemento tipico della depressione è la fuga: si tratta di un dislocamento fisico, anche faticoso; ma soprattutto di una fuga allo stesso tempo nell’immaginario, rincorso dal ricordo dei padri che hanno vinto il confronto con lui (almeno così egli giudica). Non importa dove sta andando, che senso assurdo abbia quella strada verso il deserto: importa mettere delle distanze grandi tra la fonte della paura e la propria persona, quasi che così la sofferenza venisse annullata, resa invisibile. Ma gli esplode dentro lo stesso.

Terzo elemento che sottolineerei è il deserto e la solitudine: nella depressione ci si sente lontani da tutti, anche se gli altri ci stanno accanto, gomito a gomito, sono per noi assenti. Questo perché non vogliamo e non riusciamo ad entrare in contatto con loro: e anche se ci tendono la mano, non la vogliamo, come Elia che lascia il ragazzo al limitare del deserto. Come ogni depresso anche lui si sente solo, nessuno, escluso; e il deserto dove si è ficcato corrobora questa sensazione in maniera palpabile, schiacciante. La sterilità del deserto gli penetra dentro, tanti sforzi per niente, un completo fallimento!

Altro elemento è l’autoaccusa: «Non sono migliore dei miei padri». Pensa di aver sbagliato tutto, ha lottato invano trovandosi con una minaccia mortale sul capo e l’indifferenza del popolo, che pure lo aveva acclamato al momento della vittoria. Pensieri mortali d’impotenza e di colpa, d’incapacità e d’inutilità lo assalgono. Tutto viene drammatizzato, radicalizzato: basta! Sullo sfondo c’è quella figura pericolosa della donna Gezabele: è come se gli togliesse l’aria e la vita, un fantasma negativo che lo schiaccia, perché ha ripreso in mano la situazione, e il popolo ha paura.

Infine il desiderio di morte: vuole morire, chiudere tutto, un desiderio che è come una pozione mortale. Una sensazione di stanchezza che lo fa gettare sotto il ginepro e abbandonarsi al sonno, sperando che da lì non ritorni più, non ci sia risveglio. Un morire dolcemente, perché gli manca qualsiasi segnale di dolcezza, di premura verso di lui, di sostegno. Un desiderio del cielo, ma avvelenato, per non vedere più nulla, per non lottare ancora invano, per non uscirne di nuovo sconfitto. Possiamo vedere – in controluce, aiutati dalla psicologia del profondo – che l’assenza delle tracce di famiglia nella vita di Elia potrebbe significare una mancanza di esperienza positiva con la madre. E da qui deriva allora quella lettura di sé sempre minacciato, insicuro, e la reazione sproporzionata.

Eppure nel profondo della sua angoscia distruttiva, Elia è come se lanciasse un grido di aiuto, una richiesta di soccorso, per una fiducia che sembra non corrisposta dagli esiti degli avvenimenti. E proprio in questa situazione, come da una sorgente interna, si svela una misteriosa forza interiore.

Il fuggiasco diventa pellegrino

Conosciamo quello che ci narra la Bibbia: ad Elia si avvicina un messaggero celeste e lo risveglia, offrendogli del cibo e indicandogli un percorso ancora più profondo dentro il deserto, una meta misteriosa verso una totale rinascita nella missione e nella speranza (1Re 19,5-8). Ed il profeta si incamminerà, come in una specie di itinerario iniziatico fino al «monte», il luogo della nascita di quella alleanza per la quale stava lottando con tanto successo e con apparenti sconfitte che lo distruggevano. Lassù Elia ridirà ancora i suoi bollori, le sue paure, la sua rabbia per un popolo che distrugge tutto, che lo lascia solo a difendere la memoria e la fedeltà, senza sostenerlo contro le minacce feroci. La teofania dell’Horeb ha tutti gli aspetti della conclusione di un percorso di iniziazione, ma anche di un attraversamento positivo, con esiti ugualmente positivi, della crisi depressiva. Esaminiamone alcuni aspetti (1Re 19,9-18).

Anzitutto l’angelo non lo ha colpevolizzato - tipo: «tutta una commedia», «non esagerare», «che ti sei messo in testa?» - ma gli si è fatto vicino, con rispetto e tenerezza, lo ha invitato a fare quei gesti che erano i più concreti e necessari in quel momento. «Alzati e mangia!»: non è una proposta miracolosa, una provocazione, ma un gesto semplice ed efficace, adatto al momento. Tanto più che è accompagnato dal tocco della mano: la tenerezza che gli era mancata; e dall’interpellazione diretta: «tu». Gli mancava da tempo questa sensazione di essere persona e non personaggio, fragile e impaurito e non eroe senza fragilità.

La presenza lì vicino di un soccorso visibile, tangibile, adatto alla situazione è un altro elemento interessante: un orcio d’acqua nel deserto arido è refrigerio e risorsa vitale. Ma anche quella focaccia cotta su pietre roventi indica che qualcuno ha impastato e cotto con attenzione e dedizione quel pane. Non esistono solo minacce, ma anche risorse e gesti di solidarietà. Minacciosa come una caldaia rovente poteva sembrare Gezabele, ma c’era qualche altra persona che, invece delle pietre roventi, faceva uso per dare sollievo e sostegno, di tenerezza e generosità.

Il duplice passaggio dell’angelo segnala la necessità di tappe adeguate, di momenti diversi per riuscire a riprendere le forze e segnalare nuovi cammini. Non si possono forzare le situazioni, non si deve colpevolizzare. È necessario accompagnare con insistenza e determinazione, indicando allusivamente un impegno, ma anche offrire le risorse utili. Vitamine che incoraggiano, assieme a nuove avventure che bisogna tornare a vivere con distesa disponibilità. La vita non era scomparsa durante la crisi depressiva, ma, come la brace sotto la cenere, bisognava farla rivivere.

Quel lungo viaggio di quaranta giorni e quaranta notti, sappiamo bene che è una cifra simbolica, come simbolico è anche il ritorno alle sorgenti dell’alleanza, al luogo dove l’identità d’Israele si era plasmata e codificata. Proprio per questo rimane ancora cocente dentro Elia la delusione dell’incapacità del popolo a distinguere le forme della fedeltà da quelle del tradimento. L’interpellazione sull’Horeb della voce divina che lo provoca: «Che fai qui Elia?», io la vedo anche come traccia di una sua crisi ancora interiore d’identità. È forse una domanda rivolta con ossessione a se stesso: che ci sta a fare là, perché è arrivato tanto lontano, perché tutta questa avventura?

Nella duplice risposta, sempre uguale - ma per gli esegeti forse è un errore dei copisti - io trovo traccia dello sfogo del profeta, ancora non del tutto pacificato con se stesso e il suo carisma. È come se dicesse: mi sono imbarcato in questa fuga e in questo viaggio, cercando un senso e una soluzione, ma in fondo, per chi conosce bene le cose, io sono vittima di una violenza che distrugge tutto. Non me la sento di accettare questo, non posso credere che ci si debba adattare, senza ardere di zelo e reagire.

Nella triplice teofania spettacolare del fuoco, terremoto e vento (1Re 19,11-14), forse c’è anche una catarsi psicologica trasformante: Elia è abitato da questi elementi furiosi, e lui per primo deve liberarsene. Solo così troverà invece una fiducia serena e stabile, una comunione con tutti coloro che silenziosamente hanno perseverato senza dar nell’occhio, ma che l’occhio di Dio non ha mancato di seguire con premura. Elia supererà la sua catastrofe interiore se anche i suoi bollori si acquieteranno, se tornerà ad amare quel popolo che invece gli sembrava solo inferocito e idolatra. Se accetta che la fedeltà passi anche per altre forme, meno clamorose e spettacolari delle sue, ma vere e sincere, allora la sua stessa sconfitta sarà una scoperta di un Dio «altro» e di un altro Israele, che finora non aveva saputo vedere.

«Ritorna sui tuoi passi…»

L’avventura pericolosa e mortale in cui si era imbarcato Elia viene superata, non senza qualche perplessità circa la sua vera trasformazione, visti altri episodi posteriori (cf 1Re 21,17-29). Ma certamente Dio lo ha come attirato nel vortice più profondo, generato dalla sua stessa crisi di paura e di terrore, per denudarlo di ogni sicurezza, per svuotarlo di ogni furore iconoclasta, per lasciarlo sfogare fino in fondo contro tutti e contro tutto, e non solo contro se stesso. Ma poi lo ha anche costretto ad uscire da questa caverna che lo proteggeva e lo rendeva cieco. Doveva conoscere un Dio «altro», e diventare lui stesso altro – pur nella struttura del suo carattere, che in fondo mai muterà del tutto - verso il suo popolo, verso Dio, verso il futuro che gli sembrava del tutto occluso (1Re 19,19-21).

Chiamato ad osare la vita - per dirla con i bei libri di Simone Pacot2 - deve scoprire che alla sua angoscia e al suo fallimento Eliseo contrappone la gioia di servirlo (1Re 19,21). Alla sua solitudine affettiva e operativa in tanti porranno un’alternativa e un rimedio unendosi nell’associazione carismatica dei figli dei profeti (cf 2Re 2,1-18). Il Dio che Elia pensava di servire con tutto lo zelo umanamente possibile e che voleva difendere dalle profanazioni, rischiava di essere profanato dalla sua irruenza e cecità nel sentirsi solo e unico, mentre a migliaia abitavano Israele con cuore fedele.

Le sorgenti limpide per una rinascita interiore sua e del popolo, erano simbolicamente e traumaticamente disseccate (come le acque del Kerit), ma Dio sapeva alimentarle segretamente per altre vie e con altri modelli. Elia le ha ritrovate sull’Horeb, verso cui fuggiva avvilito e arrabbiato. Il popolo invece ne aveva sempre avuto accesso, nonostante i clamori del tisbite e le sue accuse.

Bruno Secondin
Pontificia Università Gregoriana – Roma
Borgo S. Angelo, 15 – 00193 Roma

 

1. Una bella rassegna ne fa L. De Candido, «crisi», in Nuovo Dizionario di spiritualità, a cura di S. De Fiores e T. Goffi, Paoline, Roma 1979, 336-354.

2. Mi riferisco ai volumi di S. Pacot,  L’evangelizzazione del profondo, Queriniana, Brescia 20043, Osa la vita nuova!, Queriniana, Brescia 2005.

 

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