n. 5 maggio 2008

 

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Interlocutrici sapienti di fronte alle nuove sfide
Che ora segna l’orologio della storia?

di Francesco Lambiasi

 

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Il ciclo della modernità, che ha puntato prima sulla scienza e poi sulla politica per realizzare una società razionale e perfetta, è arrivato al suo epilogo negli anni Sessanta. In quel mondo il lavoro era 1'ele-mento essenziale della realizzazione di sé. Un po' alla volta, nel corso degli anni Settanta grandi valori come lavoro, progresso, ragione hanno perso di interesse per i giovani e sono stati sostituiti da edonismo, culto del corpo, attenzione alla sessualità. Lo scivolamento dai valori moderni è stato più o meno lento, ma inarrestabile: oggi le grandi parole sono non più progresso ma presente; non più lavoro ma piacere; non più ragione ma emozione.

Con l'epoca post-moderna, l'epoca della massima tecnologizzazione e della secolarizzazione invadente, si registra l'affermarsi dell'uomo radicale. L’uomo viene visto come buono e pienamente autonomo: ogni eteronomia etica viene intesa solo come un attentato alla sovranità del soggetto assoluto. Stirner ha scritto: «Alla sentenza cristiana Noi siamo tutti peccatori, io oppongo questa: Noi siamo tutti perfetti». Di qui il permissivismo: gli istinti sono buoni, dunque non vanno né repressi né regolati, ma liberati. La libertà autentica consiste nel pieno soddisfacimento dei bisogni, dei desideri, delle passioni. Non si è vincolati ad alcun dovere verso gli altri; esistono solo diritti e si fa coincidere diritto con desiderio: «Ogni desiderio è un mio diritto». Si afferma una sorta di suprema libertà d’indipendenza, libertà da: dalla povertà, dalla miseria, dall'ignoranza, fino alla libertà dal dovere e dalla responsabilità.

La figura emblematica di riferimento per la nostra cultura esasperatamente individualista è Narciso, 1'eroe mitologico, morbosamente innamorato di se stesso, che avrebbe trovato la morte un giorno mentre, chinato sulla superficie ghiacciata di uno specchio d'acqua, si sarebbe sbilanciato per abbracciare la propria immagine e così sarebbe caduto, miseramente travolto dalle correnti gelide del lago. Se poi si prende per buona 1'etimologia che farebbe derivare «narcosi-narcotico» dal fiore del narciso - l'azzurro fiordaliso che, secondo Sofocle (Edipo a Colono) s’intrecciava nelle collane di Demetra e Persefone, allora si ha l'accostamento narciso-narcotico: l'amore per la propria immagine droga e uccide.

Le tre sfide di Narciso

E per i cristiani? Nel nostro mondo occidentale, dove sembrano spesso smarrite le tracce di Dio, la testimonianza di una vita «bella, buona, beata» da parte dei cristiani sembra oggi provocata da tre sfide principali: un materialismo possessivo e vorace, una cultura spudoratamente edonistica, una concezione della libertà, svincolata dalla verità. Sono tre sfide di sempre, ma oggi particolarmente acute, perché divenute moda corrente e costume sempre più diffuso e pervasivo.

La sfida del materialismo

La sfida del materialismo e di un economicismo sempre più sfacciato aggredisce il valore fondamentale della giustizia sociale e dell’uguaglianza tra tutti. Oggi non ci si può non opporre a certo utilitarismo esasperato, imposto dalla società del benessere, che guarda più ai profitti che all’occupazione, mentre sembra poco preoccupato del domani. Diversi osservatori ritengono che questa generazione stia dissipando i risparmi delle generazioni precedenti e stia sperperando le risorse del domani, scaricando così sulle generazioni future i costi della società del benessere.

Al riguardo Giovanni Paolo II affermava della vita consacrata ciò che, con le dovute precisazioni e le debite proporzioni, si può dire innanzitutto della vita cristiana in generale. «La vita consacrata contesta con forza l’idolatria di mammona, proponendosi come appello profetico nei confronti di una società che, in tante parti del mondo benestante, rischia di perdere il senso della misura e il significato stesso delle cose. Per questo, oggi più che in altre epoche, il suo richiamo trova attenzione anche tra coloro che, consci della limitatezza delle risorse del pianeta, invocano il rispetto e la salvaguardia del creato mediante la riduzione dei consumi, la sobrietà, l’imposizione di un dove-roso freno ai propri desideri» (VC 90).

La cultura edonistica

La cultura edonistica slega affettività e sessualità da ogni norma morale oggettiva, e indulgendo a una sorta di idolatria dell’istinto, esalta la totale libertà del singolo individuo, riducendo tutto ciò che è legato alla sfera sessuale a gioco e consumo. Dopo la rivoluzione sessuale degli anni ’60, le delicate questioni riguardanti questo campo hanno cominciato a prendere una direzione, nella mentalità della gente, totalmente diversa dagli indirizzi della Chiesa e della tradizione cristiana. In questo settore pare essersi attutito il senso del peccato, quasi travolto dalla lenta ma inesorabile erosione di valori, prodotta dal secolarismo e dall’edonismo dilagante.

Questa cultura del piacere, del desiderio e, spesso, del capriccio, è tutt’altro che innocua: celebra trionfi e semina stragi. Come non vedere quale mare di sofferenza sia prodotto dalle famiglie disgregate, dai coniugi abbandonati, dai figli contesi, dalle persone calpestate, dall’abbrutimento della pornografia, dalla vergogna della prostituzione infantile, da una società che diventa «senza cuore» (cf Rm 1,31) per l’esaltazione del libero godimento, insensibile alle sofferenze inflitte agli altri?

A seguito degli orribili casi di violenza che hanno sconvolto qualche anno fa il Belgio (scandalo di Marcinelle, 1995), il card. Danneels intervenne con una riflessione molto severa: «Non meraviglia vedere che la mafia del sesso, la brama del denaro e l’istinto di potenza siano legati. Molte persone che hanno il gusto del potere finiscono col partecipare ad “affari”. Una vera idolatria del corpo è alla base di questo caos: il corpo domina l’anima. E il denaro domina il corpo».

E pochi mesi prima del suo trapasso, Giuseppe Dossetti aveva scritto: «L’atto sessuale tende sempre più a dissociarsi da ogni regola, nella ricerca esclusiva di un piacere che si fa sempre più autonomo e più sofisticato, fino alle forme più perverse, come è sempre accaduto nei periodi di decadenza dei popoli e di grave perdita delle culture. Inoltre questa ossessione del piacere sessuale, come porta una continua stimolazione dell’istinto naturale, così lo infiacchisce nelle sue stesse potenzialità naturali. E ancora porta all’ottundersi delle facoltà superiori dell’intelligenza, cioè la creatività, la contemplazione naturale, il discernimento, per una inabilità alla durata dell’attenzione e del confronto, e quindi dell’elementare capacità critica».

La libertà sganciata dalla verità

La terza sfida è quella della concezione di una libertà sganciata dalla verità e dalla solidarietà. L’epoca moderna si era aperta con la dichiarazione dei «lumi» che collocava la liberté al primo posto nel trinomio della rivoluzione francese. E per libertà si intendeva l’affrancazione da ogni vincolo religioso: libertà dalla religione per conseguire la libertà della ragione. L’unica autorità vera era quella costituita nel nome della ragione, a cui tutti - anche il re - si dovevano sottomettere. Difatti «l’erba-voglio non cresce neanche nel giardino del re».

Questa epoca si considera ormai al tramonto; da qualche decennio siamo entrati nell’epoca postmoderna, un passaggio che Zygmunt Bauman esprime con la coppia «solido-liquido». In fondo la modernità si poteva considerare ancora «solida», caratterizzata com’era da certezza, rigidità, ripetitività. Era la modernità ordinata, costruita all’interno di mondi chiusi, delle società nazionali. Si trattava di mondi solidi, forti, istituzionalizzati, nei quali le identità individuali erano marcate e stabili, grazie al ruolo sociale che svolgevano, e dove vigeva un pervasivo ordine della legge. La globalizzazione ha inaugurato una condizione «liquida»: ci si sente più incerti, più insicuri e instabili. La vita personale, fatta di rotture e cambiamenti, si è destrutturata e, se raramente genera piacere e senso di onnipotenza, in genere suscita nostalgia e angoscia. Spesso si smarrisce il senso di ciò che si sta facendo e soprattutto si perde l’idea di poter tenere sotto controllo la vita individuale e collettiva.

Si parla di «cultura del narcisismo», con la sua invitante costellazione di diritti: si ha il diritto di scegliere i comportamenti e le concezioni di vita, e questo sacrosanto diritto di scelta viene difeso da sistemi giuridici che non intendono più sacrificare le persone alle esigenze di ordinamenti presuntivamente indiscutibili.

Nella postmodernità (o tarda modernità) si è venuta affermando prevalentemente una concezione della libertà come autodeterminazione-autorealizzazione-autogratificazione, una libertà radicale che mira a spezzare la presa delle imposizioni esterne, a decidere in solitudine, riscontrando come unico limite di esercizio la libertà degli altri: nessuno determina gli altri e ciascuno determina se stesso. Liberi per se stessi, nessuno ha parte alla libertà degli altri. Libertà come potere che presuppone un’immagine di società costituita da individui isolati e che si incontrano nell’esercizio di funzioni. Una società di individui e non di persone, che si percepiscono come membri di una famiglia più grande.

Le risposte della vita consacrata

La via della povertà

Nella Lettera ai Romani s. Paolo non parla esplicitamente di povertà come invece aveva fatto in 2 Corinti 8,9. Nella Lettera ai Romani l’accento cade sull’umiltà: l’esortazione viene ripetuta prima e dopo la raccomandazione alla carità, quasi a dire che l’umiltà custodisce e alimenta la carità: «Per la grazia che mi è stata concessa, io dico a ciascuno di voi: non valutatevi più di quanto è conveniente valutarsi, ma valutatevi in maniera da avere di voi una giusta valutazione, ciascuno secondo la misura di fede che Dio gli ha dato […]. Abbiate i medesimi sentimenti gli uni verso gli altri; non aspirate a cose troppo alte, piegatevi invece a quelle umili. Non fatevi un'idea troppo alta di voi stessi» (Rm 12,3.16).

Il termine usato da Paolo al v. 3 si può rendere con «sobrietà-umiltà»: è la povertà evangelica che nasce dall’umiltà e si esprime nella sobrietà. Il discepolo di Cristo non è povero come lo era Diogene: poverissimo e superbissimo. Il povero secondo il vangelo è chi, consapevole della propria miseria, si sente avvolto dalla misericordia del suo Signore. E questo gli basta. Perciò la povertà materiale non è la reazione sdegnosa e arrabbiata, intrisa di odio contro la classe borghese; non è neanche (o almeno non solo) dettata dal desiderio, pur legittimo e anzi doveroso, di salvaguardare le risorse del creato. La povertà del cristiano è «cristiana» quando è ispirata dal desiderio di conformazione a Cristo, il quale «da ricco che era si è fatto povero per noi» (2Cor 8,9).

In sostanza la povertà evangelica è voluta dalla fede. È infatti la fede nell’amore totale, singolare, incondizionato del Signore per me che mi dà il coraggio del distacco; il distacco poi porta alla libertà, e la li-bertà genera la gioia. In altre parole: solo la fede nell’amore del Signore mi libera dalla seduzione degli idoli, mi strappa alla cecità delle mie illusioni. Il denaro, il piacere, il successo luccicano come miraggi che abbagliano, ma poi ineluttabilmente deludono: promettono vita, ma procurano morte. Il Signore invece mi chiede di morire al mio io falso ed egoista, per farmi gustare la vita vera, una vita piena, autentica, luminosa. Se il discepolo «sa» che il Maestro lo ama, la sua richiesta di lasciare tutto non gli giungerà ostile: la rinuncia ai beni, piccoli e precari, è infatti la condizione per riceve il Bene, quello vero, grande, assoluto. Quando il discepolo si rende conto di aver trovato il suo tesoro nell’amore del suo Signore - «la tua grazia vale più della vita», recita il salmo - allora si convince che quella scoperta ha automaticamente svalutato i suoi mediocri tesorucci che gli appariranno per quello che realmente sono: perle finte, cianfrusaglie taroccate, droghe «stupefacenti», ma alienanti, devastanti. Allora la rinuncia, per quanto radicale, non gli risulterà crudele: né esorbitante né impossibile.

Solo l’amore vero - un amore totale e totalitario - può spegnere la sete di infinito che ci brucia in cuore; solo l’amore del Signore pacifica e appaga: e nella nuova vita non ci si annoia mai!

La via della castità

Per la sfida della cultura edonistica, la risposta del vangelo, richiamata da s. Paolo, è la castità. Nella grande sezione parenetica della Lettera ai Romani si trova il passo seguente: «La notte è avanzata, il giorno è vicino. Gettiamo via perciò le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce. Comportiamoci onestamente, come in pieno

 giorno: non in mezzo a gozzoviglie e ubriachezze, non fra impurità e licenze, non in contese e gelosie. Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo e non seguite la carne nei suoi desideri» (Rm 13,12-14).

Va innanzitutto rifondata la motivazione cristologica della castità cristiana. È interessante notare che nel Nuovo Testamento quando si parla della purezza e dell’impurità, si adotta il linguaggio dei moralisti pagani, per esempio degli Stoici, che esaltavano il dominio di sé, ma solo in funzione dell’autocontrollo, e quindi della signoria sul proprio istinto. Per s. Paolo però, nella catechesi di 1Cor 6,12-20, tutto discende dall’evento della risurrezione di Cristo, dal sacramento del battesimo, dal compimento escatologico della risurrezione dei nostri corpi mortali. «Non sapete -afferma - che i vostri corpi sono membra di Cristo […] e che voi non appartenente a voi stessi? Il corpo non è per l’impudicizia ma per il Signore» (1Cor 6,15.19.13). La motivazione a favore della enkrateia (dominio di sé) è rovesciata, rispetto all’etica pagana: la cosa più importante non è che io abbia il dominio di me stesso, ma che io ceda questo dominio a Cristo risorto, in modo da poter affermare con la castità del cuore e del corpo che «Gesù è il Signore!».

Così la profezia della castità evangelica si fa di per se stessa critica nei confronti dell’idolatria edonistica; l’annuncio si fa denuncia. È necessario mostrare che «la castità è una virtù sociale» (Lacordaire).

Occorre riconoscere che la presenza dei cristiani in questo settore è stata particolarmente debole o latitante in questi decenni: timore di ricadere nel moralismo di stampo puritano degli anni precedenti? sudditanza di fronte alla nuova mentalità permissiva? sprovvedutezza di fronte ai potenti mezzi di comunicazione sociale? titubanza ad impegnarsi in un campo in cui si è considerati irrimediabilmente superati? scarsità di argomenti adeguati? In positivo, è urgente mostrare che la castità cristiana non fa amare di meno, semmai fa amare di più perché l’agape non spegne l’eros ma lo tiene in quota, perché sana in radice la voglia malsana di possedere e di usare l’altro. In una atmosfera erotizzata ad alto tasso di inquinamento, occorre for-mare nuovi cantori di un nuovo «cantico dei cantici», che narri le sante inquietudini e le inesprimibili tenerezze dell’eros divino. C’è urgente bisogno di giovani capaci di volare alto e di aiutare a volare tanti giovani compagni, per «risplendere come stelle nel cielo, tenendo alta la parola di vita» (cf Fil 2,15s).

 La via dell’obbedienza

Nella Lettera ai Romani si parla più volte di «obbedienza» e di «li-bertà». Ricordiamo innanzitutto Romani 5,19: «Similmente, come per la disobbedienza di uno solo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l`obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti».

Se l’obbedienza di Cristo ci ha liberati dal peccato, non ci resta che seguire la strada dell’obbedienza a Cristo per diventare uomini vera-mente liberi: «Non sapete voi che, se vi mettete a servizio di qualcuno come schiavi per obbedirgli, siete schiavi di colui al quale servite: sia del peccato che porta alla morte, sia dell`obbedienza che conduce alla giustizia? Rendiamo grazie a Dio, perché voi eravate schiavi del peccato, ma avete obbedito di cuore a quell`insegnamento che vi è stato trasmesso e così, liberati dal peccato, siete diventati servi della giustizia. […]. Ma quale frutto raccoglievate allora da cose di cui ora vi vergognate? Infatti il loro destino è la morte. Ora invece, liberati dal peccato e fatti servi di Dio, voi raccogliete il frutto che vi porta alla santificazione e come destino avete la vita eterna. Perché il salario del peccato è la morte; ma il dono di Dio è la vita eterna in Cristo Gesù nostro Signore» (Rm 6, 16-23).

Dal cuore perfettamente filiale di Gesù, che trova il suo nutrimento nel fare la volontà del Padre (Gv 4,34) e che può dire con tutta verità: «Io faccio sempre quello che a Lui piace» (Gv 8,29), ricaviamo una grande lezione: se non c'è salvezza senza obbedienza, non c'è obbedienza senza amore. Scriveva padre Congar: «La nostra vita filiale sarà la nostra obbedienza, la nostra ricerca di conformità, fatta di amore e di fedeltà, alla volontà di Dio». In altre parole: al Padre che vede in me l'immagine dell’unigenito e mi dice: «Tu sei mio Figlio», non c'è che la risposta del Figlio: «Tu sei mio Padre, io sono pronto a fare la tua volontà». Se dunque «so in chi credo», se ho scoperto che Dio mi è Padre, allora leggerò la sua volontà sempre e solo non come il capriccio di un despota, ma come volontà di un amore totale e irreversibile. Se mi fido di questo amore, se sono convinto che Dio ama me più di me, credo pure che egli sa e vuole prima e più di me quello che è il meglio per me. È tutta questione d'amore.

Se invece non credo sul serio nella provvidenza sapiente di Dio, allora vivrò sempre nella paura e non riuscirò mai a credere veramente che «tutto concorre al bene di coloro che amano Dio» (Rm 8,29). Se non credo per davvero che l'amore di Dio è più forte della morte al  punto da ridare la vita al Figlio obbediente, allora non accetterò mai di morire ai miei progetti e cercherò di darmi vita da solo facendomi signore di me stesso. Ma così finisco per cacciarmi in un vicolo cieco...

Situazioni di obbedienza

Passiamo ora a vedere tre «esercizi» concreti di obbedienza a cui nessun cristiano può sottrarsi.

La prima obbedienza cui ogni uomo è chiamato è l'accettazione di sé. Ognuno di noi viene al mondo con dei doni e dei limiti. L'accettazione il più possibile tranquilla di sé, con tutti i doni e tutti i limiti, è un atto di obbedienza e di saggezza. È inutile recriminare e fare le lagne con il Signore perché si è fatti in un certo modo: «O uomo, tu chi sei per disputare con Dio? Oserà forse dire il vaso plasmato a colui che lo plasmò: “Perché mi hai fatto così?”» (Rm 9,20). Un giovane che si rattrista di non avere la salute di Marco o l'intelligenza di Tommaso o il fascino di Roberta deve camminare ancora molto, prima di sognare di essere pronto a fare la volontà di Dio in situazioni difficili. Il primo sì che si è chiamati a dire al Padre è il sì a se stessi.

Un altro «luogo» che non si può dimenticare come luogo normale di adesione alla volontà di Dio è l'adempimento umile e responsabile del proprio dovere quotidiano. I santi possedevano in questo un intuito sicuro. S. Filippo Neri diceva: «È molto più da stimarsi uno che vive una vita ordinaria nell'obbedienza, di un altro il quale di sua propria volontà fa gran penitenza». Il quotidiano, con le sue monotonie e i suoi duri imprevisti, il quotidiano oscuro e spesso pesante, il quotidiano vissuto nella fedeltà e insieme nella disponibilità alle sorprese della grazia: questo è il luogo preferito dal Signore per allenarci a compiere la sua volontà. Un cristiano che non obbedisce con gioiosa adesione a questa volontà feriale del Signore, e non sa guardare in luce di fede le carenze dell’ambiente in cui vive (famiglia, parrocchia ecc.), non può illudersi di poter un giorno amare con cuore maturo le persone che gli saranno affidate.

C'è infine un campo aperto in cui la volontà del Signore ci raggiunge con assoluta evidenza, ed è il campo della carità reciproca. La cosa è talmente chiara che il vangelo la riassume come il comandamento tipico del Maestro: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati» (Gv 15,12). Su questa volontà di Dio non si possono avere dubbi né ci si può trincerare dietro comodi alibi: se nella comunità si riscontrano inadempienze e lentezze, se le realizzazioni del comandamento dell'amore risultano sempre imperfette e distorte, se sono scarse le condizioni per una comunità ottimale, non sarà questo un motivo per donarsi di più e far crescere il livello della carità? Diceva s. Giovanni della Croce: «Dove non c'è amore, metti amore e troverai amore». Prima o poi ci sarà chiesto più di una volta un amore capace di dare la vita e ci verrà sempre domandato di essere costruttori di comunità in cui regnino l'amore e la carità, ma come sarà possibile questo se non ci sottoporremo a quell'allenamento talvolta faticoso ma ineludibile (se non si vuole poi perdere la ‘partita’) che ci richiede la vita quotidiana con le sue severe esigenze di superare simpatie e antipatie, di spezzare le catene dorate dei nostri legami ristretti, di non esser selettivi nelle amicizie e nei rapporti reciproci?

Francesco Lambiasi
Vescovo di Rimini
Via IV Novembre, 35 - 47900 Rimini

 

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