n. 5 maggio 2008

 

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Il Progetto di Dio sulla donna e sull’uomo
La prospettiva biblica della Mulieris dignitatem

di Lilia Sebastiani

 

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La Lettera apostolica Mulieris dignitatem pubblicata da Giovanni Paolo II il 15 agosto 1988 s’inquadra esplicitamente nel contesto dell’anno mariano del 1987, in stretto collegamento con l’enciclica Redemptoris Mater. Questa fisionomia mariana e mariologica, letta da alcuni commentatori come una ricchezza, da altri piuttosto come un «vincolo» per quanto si riferisce alla vocazione e missione delle donne in genere, costituisce in ogni caso un’indispensabile chiave di lettura per la comprensione del documento.

La Donna e le donne

L’idea teologica di fondo è infatti che la donna - anzi, la Donna - si trova al centro dell’evento di salvezza. «L’invio (del) Figlio, consostanziale al Padre, come uomo “nato da donna”, costituisce il culminante e definitivo punto dell’autorivelazione di Dio all’umanità. Questa autorivelazione possiede un carattere salvifico […]. La donna si trova al cuore di questo evento salvifico» (n. 3).

Il punto successivo sviluppa questa idea: «la “pienezza del tempo” manifesta la straordinaria dignità della “donna”» (n. 4), anzi «l’archetipo della personale dignità della donna» (n. 5). Alla fine della parte mariologica questa intenzionalità è riaffermata solennemente e in parte spiegata: la dignità di ogni persona, e la vocazione corrispondente a questa dignità, trovano la loro misura ultima nell’unione con Dio.

La donna in questo caso rappresenta tutto il genere umano, formato da uomini e donne. «D’altra parte, però, l’evento di Nazaret mette in rilievo una forma di unione col Dio vivo, che può appartenere solo alla “donna”, Maria: l’unione tra madre e figlio» (n. 4). Lo stesso termine Theotòkos, cioè Madre di Dio, riconosciuto a Maria dal Concilio di Efeso, esprime secondo l’enciclica la particolarità dell’unione con Dio. A questo proposito viene anche avanzata un’osservazione rilevante sulla soggettualità di Maria (dunque sul ruolo della soggettualità femminile nella stessa opera di salvezza): se da una parte questa unione specialissima è pura grazia, dono dello Spirito, nello stesso tempo Maria con il suo assenso di fede manifesta la sua libera volontà, la piena partecipazione dell’io all’evento dell’incarnazione, diventa vero soggetto umano di quello che sta per compiersi in lei.

Nell’Annunciazione viene sottolineato inoltre il carattere dialogico (cf n.5), d’altronde caratteristico dell’Alleanza nel suo insieme.

La Lettera apostolica pur collocandosi per quanto riguarda Maria sulla linea della riflessione postconciliare, sembra accentuare di preferenza l’ancillarità rispetto alla lettura discepolare, probabilmente a causa delle sue valenze simboliche. Proprio l’espressione «Serva del Signore» consente di stabilire un parallelo con Gesù «venuto per servire» e identificato nella lettura cristiana con il Servo del Signore, di cui parla il secondo Isaia: quindi sottolinea l’unione della Madre con il Figlio. Questo, che consente di riaffermare la centralità del servizio nella vocazione dell’uomo e della donna, è però uno dei nodi problematici dell’enciclica, la tendenza almeno implicita a porre in parallelo il rapporto uomo-donna e quello Cristo-Maria. Su Maria vertono in particolare i nn. 2-5 della Mulieris dignitatem, anche se innumerevoli sono i richiami nella parte restante.

La parte biblica (nn.6-14) è senza dubbio la migliore e, a parte il valore teologico-biblico, è anche storicamente significativa: per la prima volta in un documento ufficiale appaiono apertamente - e, diremmo, entusiasticamente - recepite in gran parte le acquisizioni della migliore riflessione teologica al femminile.

Immagine e somiglianza

La Lettera prende le mosse dai racconti di creazione nella Genesi, fondamento dell’antropologia teologica dei sessi. La creazione dell’essere umano è l’apice del creato, e l’essere umano è pensato da Dio fin dall’inizio come una «coppia» unita nell’amore e nella mutua relazionalità. «… dalla notazione biblica emerge la verità sul carattere personale dell’essere umano. L’uomo è una persona, in eguale misura l’uomo e la donna: ambedue, infatti, sono stati creati ad immagine e somiglianza del Dio personale» (n. 6). A questa coppia umana primordiale è indirizzata la prima benedizione di Dio, indistinguibile dal suo stesso atto creativo.

Del secondo racconto di creazione si sottolinea il carattere più mitico e figurato (che tra l’altro ha determinato una sua maggiore ‘presa’ sull’immaginario, in tutte le epoche) e il fatto che, nonostante la grande diversità dei racconti, vi è una sorprendente convergenza nel messaggio teo-antropologico: il dettaglio mitico della donna creata da una costola dell’uomo, per tanto tempo letto in chiave subordinazionistica (derivazione come inferiorità), aiuta a comprendere più profondamente l’eguaglianza di natura fra l’uomo e la donna, viene posta «come un altro ‘io’, come un interlocutore accanto all’uomo…» (n. 6)

Nel n. 7, che è di straordinaria importanza teologica, viene analizzato in particolare il tema dell’“aiuto”, l’adiutorium simile sibi, che sappiamo a quanti equivoci di stampo patriarcale e androcentrico sia stato soggetto in passato. In realtà quel “simile”, che dobbiamo alla traduzione della Vulgata, verrebbe meglio reso con “corrispondente”; e nel testo originale significa alla lettera “come contro lui” (ovvero anche: che si può guardare negli occhi!). Se i Padri della Chiesa, non diversamente dai rabbini più tradizionalisti, leggevano solo la donna come aiuto dell’uomo, e non viceversa - per cui la donna finiva con il ritrovarsi essere aggiunto, complementare, pressoché “supplementare” -, e l’aiuto veniva riferito quasi solo all’opera di generazione (giacché, come osserva candidamente sant’Agostino, per qualsiasi altra attività l’uomo potrebbe essere molto meglio aiutato da un altro uomo), la Mulieris dignitatem riconosce e ufficializza quello che l’esegesi del secolo XX e soprattutto la riflessione biblica al femminile avevano già evidenziato, spesso in modo marginale e sospetto, rispetto alla predicazione più ufficiale. La donna e l’uomo sono creati da Dio come ‘aiuto’ reciproco, e non in vista di una funzione, sia pure nobilissima come è quella genera-tiva, ma per la condivisione, l’umanizzazione, l’arricchimento dell’esistenza intera. Il reciproco aiuto in un certo senso, «permette all'uno e all'altra di scoprire sempre di nuovo e confermare il senso integrale della propria umanità […]. Umanità significa chiamata alla comunione interpersonale» (n. 7).

Una digressione indispensabile

È noto che nella storia occidentale, anche lasciando da parte le altre culture, si ritrovano diversi modelli di rapporto tra i sessi, e tutti influiscono in vario modo sul pensiero ufficiale della Chiesa nelle varie epoche.

Storicamente predominante - nel senso che è stato teorizzato fino a un secolo fa non solo nella comunità cristiana ma anche in ambito laico, nella legislazione e nel costume - quello subordinazionista, per cui la donna, anche se riconosciuta in epoca cristiana pari all’uomo nell’ordine della grazia, viene però subordinata a lui nell’ordine di natura. Si sa che l’ordine di natura è quello predominante di fatto e comunque più visibile nella società e nei rapporti umani: per cui la novità cristiana tendeva ad essere riassorbita dalla tradizione e dalla consuetudine fino a risultare non più visibile.

Il progredire della civiltà e la grande stagione romantica influenzano questo modello subordinazionista, senza scalzarlo beninteso, però con vari addolcimenti e idealizzazioni. Leone XIII, nell’enciclica Arcanum divinae sapientiae (1880: la prima dedicata al matrimonio cristiano, in tutto l’arco della storia della Chiesa), affermava che la moglie secondo l’immutabile progetto di Dio deve essere sottomessa al marito, però non in morem ancillae, bensì in morem sociae: “non come una serva, ma come una compagna”. Al di là delle nobili intenzioni, l’assunto suona come un’aporia irrisolvi-bile, perché l’essere compagni è connotato in primo luogo dall’essere sullo stesso piano.

Nel corso del secolo XX si afferma il modello della complementarità, in cui la donna è vista come complementare all’uomo, a lui necessaria per completare la propria personalità ed esistenza. Indubbiamente evoluto, rispetto al precedente perché più attento alla dignità della donna e al valore della comunione, mantiene però l’attenzione incentrata sull’uomo-maschio (si parla di complementarità solo a proposito della donna in relazione all’uomo, mai viceversa) e non mette in discussione il modello generale dei rapporti umani e sociali. L’idea, di derivazione filosofico-letteraria e con tracce del Femminile eterno, viene accolta favorevolmente dalla Chiesa: si ritrova soprattutto in quella corrente fiorita negli anni Cinquanta, stimolata dall’anno Santo del 1950. Essa fu chiamata teologia della donna (una tra le tante “teologie del genitivo” che si affermano in quest’epoca, come la teologia delle realtà terrestri, la teologia del laicato…) e non aveva nulla a che fare con la teologia al femminile o teologia femminista che sarebbe venuta in seguito, perché era pur sempre una riflessione teologica elabo-rata unilateralmente da uomini (per di più tutti chierici, quindi celibi) in cui la donna costituiva sempre l’oggetto e mai il soggetto. Una relazionalità unilaterale non può aiutare la crescita della relazione.

Bisogna attendere gli sviluppi del personalismo cristiano e la sua ricezione da parte della Chiesa (che può considerarsi compiuta ai tempi del Concilio Vaticano II), perché venga accolto e precisato il modello della relazionalità mutua, della reciprocità, indubbiamente assunto dal Papa nella Mulieris dignitatem: «Leggiamo che l'uomo non può esistere “solo” (cf Gen 2,18); può esistere soltanto come “unità dei due”, e dunque in relazione ad un'altra persona umana. Si tratta di una relazione reciproca: dell'uomo verso la donna e della donna verso l'uomo. Essere persona ad immagine e somiglianza di Dio comporta anche un esistere in relazione, in rapporto all'altro “io”. Ciò prelude alla definitiva autorivelazione di Dio uno e trino: unità vivente nella comunione del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» (n. 7).

Diventa pertanto possibile --appoggiandosi sui due principali fondamenti del pensiero della Lettera (la persona immagine di Dio e la mutua relazionalità dell’uomo e della donna) - affermare che l’uomo e la donna, nel loro tendere l’uno verso l’altra, sono “immagine” del Dio relazionale e creatore; realizzano la “somiglianza” vivendo nella storia la loro unione nell’amore con caratteri di autentica reciprocità. Ciò riguarda senza dubbio la real-tà matrimoniale, ma non solo: «Tutta la storia dell’uomo sulla terra si realizza nell'ambito di questa chiamata. In base al principio del reciproco essere ‘per’ l'altro, nella ‘comunione’ inter-personale, si sviluppa in questa storia l'integrazione nell'umanità stessa, voluta da Dio, di ciò che è ‘maschile’ e di ciò che è “femminile”» (n. 7).

Dire che l'uomo è creato a immagine e somiglianza di Dio, che crea il diverso per comunicare se stesso, significa per l’essere umano anche la chiamata a esistere per gli altri, a fare della propria vita un dono. Uomo e donna attuano questa chiamata fondamentale secondo le peculiarità che sono loro proprie.

L’essere immagine di Dio --fondamento della dignità personale, nella tradizione cristiana - non vale solo per l’uomo e la donna considerati individual-mente, ma anche per la loro struttura relazionale, per la loro unione che rende l’immagine della reciprocità intratrinitaria. Credere in un Dio Trinità, infatti, significa che il Dio in cui crediamo è relazionale nella sua stessa essenza profonda. «Solamente in questo modo diventa comprensibile la verità che Dio in se stesso è amore (cf 1Gv 4,16)» (n. 7). Il peccato, come sarà detto più avanti, “offusca”, “diminuisce” l’immagine, ma non può distruggerla.

Le immagini di Dio

Il n. 8 - che si collega al precedente in quanto prende le mosse dal tema dell’immagine - è di fondamentale importanza per un’altra ragione. La Rivelazione biblica costituisce anche un «discorso di Dio su se stesso». Parlando prima per mezzo dei profeti, poi per mezzo del Figlio (cf Eb 1,1.2), Dio usa un linguaggio umano, logica e immagini e similitudini umane. Può derivarne, soprattutto nel Primo Testamento, l’effetto di un certo antropomorfismo. Come dice la Lettera, ciò dipende dal fatto che l’uomo è “simile” a Dio (simile, non uguale), e perciò anche Dio può esser pensato in qualche misura simile all’uomo, pur se resta comunque il totalmente Altro.

Sempre ricordando comunque, aggiungiamo noi - è solo un’esplicitazione di quanto il documento sottintende nel sottolineare i limiti dell’analogia -, che si tratta di immagini e figure, non della realtà ineffabile di Dio ‘in sé’. Ogniqualvolta un’immagine (non ci sono solo le immagini fisiche, ma anche quelle mentali) viene assolutizzata e adorata al posto della realtà ineffabile che dovrebbe mediare, si cade nell’idolatria.

Uno dei meriti indiscussi della Mulieris dignitatem risiede nel superamento della concezione così tradizionale e istintiva di un Dio “maschio”. La Lettera valorizza le più significative immagini materne di Dio (non occorre sottolineare quelle maschili, perché ben note e predominanti: sia statisticamente, perché più numerose, sia nella “storia degli effetti”). Aggiunge un’osservazione di grande rilievo sulla principale ipostasi umana di Dio, che è quella del Padre: «Questa caratteristica del linguaggio biblico […] indica anche indirettamente il mistero dell'eterno “generare”, che appartiene alla vita intima di Dio. Tuttavia, questo “generare” in se stesso non possiede qualità “maschili” né “femminili”. È di natura totalmente divina. È spirituale nel modo più perfetto, poiché “Dio è spirito” (Gv 4,24) […]. Dunque, anche la “paternità” in Dio è del tutto divina, libera dalla caratteristica corporale “maschile”, che è propria della pater-nità umana» (n. 8). Non vi è quindi la “genitorietà” umana come tipo di quella divina; invece l’atto generativo delle creature trova il suo primo modello nel “generare” di Dio, divino e interamente spirituale: «Nell'ordine umano, invece, il generare è proprio dell'“unità dei due”: ambedue sono “genitori”, sia l'uomo sia la donna» (n. 8).

L’uomo, la donna, il peccato

I nn. 9 e 10 vertono sul tema del peccato, e viene affermato qui un principio fondamentale a proposito del peccato, in cui il Firmatario si dissocia apertamente non solo dalle voci tradizionali (fin dal tempo dei primi scrittori cristiani), ma anche da certi autori neotestamentari che attribuiscono in sostanza alla donna la prima responsabilità del peccato, sia pure lasciando all’uomo la colpa di averla assecondata. In primo luogo è ribadito che la responsabilità del peccato è dell’essere umano in quanto tale, e non può quindi venir ascritto in maniera privilegiata a uno dei due sessi; si ricorda che la conseguenza prima del peccato è la divisione, intesa come perdita dell’armonia (dell’essere umano con Dio, con l’altro, con se stesso, con la natura), ma anche come divisione “culturale” dei ruoli. «Non c'è dubbio che, indipendentemente da questa “distribuzione delle parti” nella descrizione biblica, quel primo peccato è il peccato dell'uomo, creato da Dio maschio e femmina. […]. Nello stesso tempo, però, anche l'essere umano --uomo e donna - viene toccato dal male del peccato, di cui è au-tore» (n. 9).

In breve, secondo l’Autore, il dominio dell’uomo sulla donna che si ritrova anche nella Scrittura, almeno in moltissime pagine di essa, è reale, ma conseguenza del peccato, e non può perciò venir ascritta all’immutabile volontà di Dio. «Questo “dominio” indica il turbamento e la perdita della stabilità di quella fondamentale eguaglianza, che nell’“unità dei due” possiedono l'uomo e la donna, […] mentre soltanto l'eguaglianza, risultante dalla dignità di ambedue come persone, può dare ai reciproci rapporti il carattere di un'autentica communio personarum» (n. 10).

Segue un riconoscimento di valore perenne: la violazione di questa eguaglianza, che è insieme dono e diritto derivante dallo stesso Dio Creatore, storicamente si esplica a sfavore della donna, ma nello stesso tempo diminuisce anche la dignità vera dell'uomo.

Funge in un certo senso da “cerniera” tra la parte veterotestamentaria e quella neotestamentaria nella riflessione biblica della Mulieris dignitatem il n. 11, sotto il titolo significativo di Protovangelo, come di solito viene chiamata la promessa di Dio in Genesi 3,15: «Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno». L’impostazione mariana del documento, già ampiamente fondata nei nn. 2-5, torna qui in primo piano, anche attraverso la ripresa di un tema antico e classico nella tradizione cristiana, cioè l’antitesi Eva-Maria.

Nella riflessione dei Padri spesso la prospettiva appare molto penalizzante per le donne storiche, concrete: perché Eva, la madre dei viventi, veniva posta come rappresentante di tutte le donne, mentre Maria nella sua perfezione e nel suo privilegio di madre del Messia, sembrava poter rappresentare soltanto se stessa. Il documento fa a questo riguardo una precisazione importante: «La “donna” del Protovangelo è inserita nella prospettiva della redenzione. Il confronto Eva-Maria si può intendere anche nel senso che Maria assume in se stessa e abbraccia il mistero della “donna”, il cui inizio è Eva […]. Maria significa, in un certo senso, oltrepassare quel limite di cui parla il Libro della Genesi (3,16) e riandare verso quel “principio” in cui si ritrova la “donna” così come fu voluta nella creazione, quindi nell'eterno pensiero di Dio […]. Maria è “il nuovo principio” della dignità e vocazione della donna, di tutte le donne e di ciascuna» (n. 11).

Quest’idea, che ricorre in innumerevoli luoghi e costituisce senza dubbio il motivo condut-tore della Mulieris dignitatem, è apparsa ad alcuni suoi lettori commentatori affascinante e promettente, mentre ha suscitato perplessità in altri soprattutto perché la differenza tra piano simbolico e piano storico-etico non è sempre del tutto chiara, quantomeno non esplicita.

La prassi liberatrice di Gesù

Comunque, i nn. 7-11 costituiscono il vertice dottrinale della Lettera. Tutto il resto della parte biblica è di grande interesse e significato, ma meno nuovo e teologicamente meno approfondito. Ciò vale anche per i nn.12-16 , dedicati alla prassi di Gesù.

Si afferma che tutto il progetto salvifico di Dio «ci viene maggiormente chiarito dalle parole di Cristo e da tutto il suo atteggiamento verso le donne, che è estremamente semplice e, proprio per questo, straordinario, […] un atteggiamento caratterizzato da una grande trasparenza e profondità. Diverse donne compaiono nel corso della missione di Gesù di Nazareth, e l'incontro con ciascuna di esse è una conferma della “novità di vita” evangelica» (n. 12).

Sono ricordate più o meno tutte le donne che Gesù incontra nel suo ministero pubblico, le discepole, le donne guarite da lui, le interlocutrici, in parte anche le immagini femminili a cui fa ricorso nel suo insegnamento alle folle. L’impressione che se ne ricava è quella di un approccio completo e condotto in termini di grande positività; ma non vi è l’attenzione teologico-simbolica riscontrabile nella prima parte. Forse il Firmatario presume che la vita pubblica di Gesù, attraverso i Vangeli, sia già ben familiare ai suoi lettori. Forse anche, semplicemente, lo spazio a disposizione non consente un maggiore approfondimento (infatti, benché la Mulieris dignitatem al suo apparire abbia colpito l’attenzione anche per l’inconsueta lunghezza, resta pur sempre un’enciclica e non un saggio teologico).

Il divieto del ripudio (Mt 19,6) viene riletto in chiave di attenzione alla dignità femminile, riconfermando che l’ethos di comunione paritaria e relazionale iscritto nella creazione «viene ricordato e confermato dalle parole di Cristo: è l'ethos del Vangelo e della redenzione» (n. 12).

Tutte o quasi tutte le donne deiVangeli scorrono rapidamente sotto gli occhi dei lettori: la donna curva raddrizzata da Gesù, la Samaritana, la peccatrice pentita di cui parla Luca (per lungo tempo identificata con Maria di Magdala), la suocera di Pietro, la donna che soffriva di emorragie, la cananea o sirofenicia, la figlia di Giairo, la vedova di Nain, l’adultera (a cui viene dedicata una particolare attenzione, in quanto donna vittima del peccato e dell’ingiustizia maschile), Marta e Maria di Betania, la donna che unge misteriosamente Gesù con un unguento prezioso pochi giorni prima della Passione.

Ci dispiace un po’ che la Mulieris dignitatem non adoperi (si direbbe anzi che eviti accuratamente) il termine discepole per le donne che seguono Gesù in modo stabile e itinerante; ma ciò può dipendere dal fatto che, ancora oggi, non tutti gli esegeti concordano sul fatto che queste donne possano essere considerate o fossero considerate o si considerassero esse stesse discepole.

La Mulieris dignitatem dice soltanto, riprendendo quasi alla lettera Luca 8,1-3, che «a volte le donne, che Gesù incontrava e che da lui ricevevano tante grazie, lo accompagnavano, mentre con gli apostoli peregrinava attraverso città e paesi, annunciando il Vangelo del Regno di Dio; e “li assistevano con i loro beni”. Il Vangelo nomina tra loro Giovanna, moglie dell'amministratore di Erode, Susanna e “molte altre”» (n. 13). Sorprendentemente non viene ricordata qui Maria di Magdala, che ha un ruolo di primato nel gruppo delle seguaci di Gesù e tra loro è sempre nominata per prima; ma viene poi recuperata nel suo supremo ruolo evangelico di testimone della Risurrezione (n. 16).

In conclusione di questa parte, l’eguaglianza di uomo e donna nel progetto di Dio viene ricordata anche in rapporto all’opera dello Spirito Santo. «Ambedue accolgono le sue “visite” salvifiche e santificanti. Il fatto di essere uomo o donna non comporta qui nessuna limitazione, così come non limita per nulla quella azione salvifica e santificante dello Spirito nell'uomo il fatto di essere giudeo o greco, schiavo o libero, secondo le ben note parole dell'apostolo: “Poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3, 28). Questa unità non annulla la diversità...» (n. 16). Ogni vocazione ha quindi un senso profondamente personale e profetico.

Lilia Sebastiani
Articolista e conferenziera in materia teologica
Via Isonzo, 9 - 05100 Terni

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