Chiamati a vivere in
libertà
Paolo,
restando molto umano, riesce perfino a scherzare in questa parte della
lettera ai Galati e di tanto in tanto esprime anche la sua vena ironica.
Forse l’apostolo si diverte anche nel
polemizzare. In ogni caso il discorso resta sempre molto alto e molto
esigente. Ha rivendicato per sé la libertà e sa anche benissimo a quale
caro prezzo si può sperimentare, vivere, difendere, la propria libertà,
ma non torna indietro, e non vorrebbe che tornassero indietro neppure i
suoi Galati.
Non era stato Dio stesso a scendere
dal cielo in terra per garantire la libertà del suo popolo? Paolo può
dunque stabilire con forza: «… Siete stati chiamati a libertà…» (v.
5,13a).
Vivere nella libertà non significa
però fare spazio all’anarchia e al disordine, ma piuttosto crescere con
rapporti armonici e ordinati.
E godere della libertà in modo
ordinato significa soprattutto non dimenticare di essere continuamente
sotto lo sguardo di Dio senza prevaricare gli uni nei confronti degli
altri e stando bene attenti a proteggersi dall’idolatria.
Senza libertinismo
Paolo, che forse ha piena
consapevolezza di essere il nuovo Mosè della nuova alleanza, ci tiene
tantissimo a precisare che la libertà alla quale sono stati chiamati i
Galati non è libertinismo, non è anarchia e non deve perciò diventare un
pretesto per vivere secondo la carne, ma semmai per far esplodere la
carità (cf v. 5,13b).
L’amore nasce dalla libertà, si nutre
di libertà, è orientato e si conclude nella libertà. Si può persino dire
che la stessa libertà nasce dall’amore, si nutre d’amore e orienta verso
l’amore. Dunque amore e libertà sono uno dentro l’altra. Infatti si è
liberi quando si ha la disponibilità, la generosità, appunto la libertà,
di mettersi a servizio dell’altro, facendosi servi gli uni degli altri (cf
v. 5,13).
Anche Mosè si riteneva soltanto
servo; c’è un bellissimo libro di Gregorio di Nissa: La vita di Mosè,
che si conclude proprio con questa piena realizzazione di Mosè, in
quanto doulos in quanto servo di Dio. In Occidente è
rimasta famosa l’autodefinizione di papa Gregorio Magno: servus serv
rum Dei, cioè: sono servo dei servi di Dio!
Compimento della
legge è l’amore
Paolo conia in questo preciso
contesto una frase lapidaria: «Tutta la legge infatti trova il suo
compimento in un solo precetto: amerai il prossimo tuo come te stesso»
(v. 5,14).
Dice «tutta la legge» ma avrebbe
potuto dire anche: «ogni legge». In realtà Paolo sintetizza in un
comando, in un logos, in una parola sola, (en hení logo¯),
il precetto dell’amore. Dunque ogni volta che si fa riferimento ad una
legge, non si può dimenticare mai la funzione che ha avuto questa legge
all’interno di quell’esperienza di libertà che era stata garantita al
popolo eletto e di cui Mosè era stato il difensore, l’animatore. Libertà
e legge, delle quali Paolo si sente a sua volta animatore e difensore,
si concretizzano sempre nell’amore.
C’è dunque un compimento che si può
concretizzare solo in questo unico precetto: «amerai il prossimo tuo
come te stesso» (v. 5,14; Lv 19,18; Mt 22,39; Mc 12,31; Rm 13,9; Gc 2,8;
cf Lc 10,27). Ma questo precetto, che è il secondo della Torah, ha come
presupposto il primo che chiede: «Ama Dio con tutto il cuore, con tutta
l’anima, con tutte le forze» (cf Mt 22,37; Lc 10,27; cf Dt 6,5; 10,12;
).
Dio è stato infatti l’unico che ha
liberato Israele dall’Egitto. Soltanto lui poteva farlo, e lo ha
effettivamente fatto (cf Es 20,13; Dt 5,6).
Paolo dà
certamente per scontato tutto questo. La libertà resta un dono di Dio.
Nella discrezione
dello Spirito
Dopo questa sintesi straordinaria
Paolo, che sa benissimo che non è così semplice essere servi gli uni
degli altri e vivere l’amore a livelli così alti, scherza ironico: «Ma
se vi mordete e divorate a vicenda, guardate almeno di non distruggervi
del tutto gli uni gli altri» (v. 5,15).
Non si riesce a trovare una
spiegazione adeguata di questa frase senza chiamare in campo l’ironia.
Facendosi di nuovo serio, Paolo aggiunge: «Vi raccomando però (légo ¯
dé): camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare
i desideri della carne» (v. 5,16b).
Una indicazione di vita molto
semplice, che sottolinea il positivo e relativizza, ridimensiona, quel
continuo analizzarsi, esaminare la coscienza la mattina, a mezzogiorno,
la sera, ogni ora, ogni mezz’ora, ogni quarto d’ora, spaccando, se
possibile, il capello in quattro, come facevano gli stoici, assetati di
perfezionismo moralistico.
No.
Basta restare
aperti alle sollecitazioni dello Spirito.
Il resto verrà
da sé.
Paolo esorta dunque: «Camminate
secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare i desideri della
carne» (v. 5,16b, in greco: kaì epithymian sarkòs ou me¯ telése ¯te).
Che cos’è questo desiderio della carne? Per capirlo non dobbiamo
dimenticare l’indicazione fondamentale, della quale abbiamo già parlato,
di non perdersi a fare tutte quelle analisi, distinzioni e
sottodistinzioni che fanno coloro che amano sciaguattare nel fango, ma
di restare invece generosamente aperti alle sollecitazioni dello
Spirito.
Infatti: «La carne ha desideri
contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; ma
queste cose traduco si oppongono affinché non facciate qualsiasi cosa vi
venga in testa di fare» (v. 5,17).
Ho corretto un po’ il testo della
traduzione italiana ufficiale, perché sono convinto che corrisponda
meglio al pensiero di Paolo. Mi sembra infatti che l’Apostolo stia
dicendo più o meno questo: la contrapposizione che sentite dentro di
voi, fra la epithymia (un desiderio che spinge forte, dalla e
nella carne) e l’idealità dello spirito, è provvidenziale, perché vi
impedisce di fare qualsiasi cosa vi venga voglia di fare. E questo vi
obbliga a fare discernimento. Cioè: questa tensione provvidenziale vi
libera dall’istintualità, dimostrando che la vostra struttura umana è
assolutamente diversa da tutte le altre strutture creaturali. Infatti le
altre strutture creaturali, da quelle inanimate a quelle animate, sono
in qualche modo condizionate a realizzare tutto ciò che istintualmente
sentono, come una forza d’inerzia, a cui non possono contrapporsi.
Con personale
responsabilità
Occorre ricordare che siamo in un
contesto culturale e religioso in cui alcuni gruppi, che.cercano di
essere puri ad oltranza, non credono nella possibilità del libero
arbitrio e pensano che ogni scelta sia già stata predeterminata da Dio,
per cui preferiscono semplicemente lasciarsi condurre dall’istinto.
Tendenze simili esistevano anche nel mondo ebraico. Gesù e Paolo non
accettano affatto un simile presupposto rivendicando invece la
possibilità, da parte dell’uomo, di dire si o di dire no! Essi
sottolineano che nessuno è costretto al male e nessuno è costretto al
bene, fondando così il principio universale della responsabilità
personale.
In realtà soltanto la possibilità di
scegliere in piena libertà fonda la dignità umana e le permette di
esprimersi in tutti gli aspetti della vita. Con questa precisazione
possiamo capire meglio adesso le parole di Paolo: «La carne infatti ha
desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla
carne…» (v.
15,17a), con l’aggiunta
consequenziale: «Se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete più
sotto la legge» (v. 5,18).
Quali siano poi le opere che restano
sotto la condanna della legge, compiendo le quali si resta schiavi della
legge, cioè della condanna che viene dalla legge, Paolo le sintetizza
brevemente, dandole in qualche modo per scontate: «Le opere della carne
sono ben note…» (v. 5,19). In realtà elenca una lista non comprensiva di
tutto, ma solo esemplificativa, che forse attinge a ciò che noi oggi
chiameremmo “morale corrente”.
Oggi potremmo fare liste anche più
articolate, perché ognuno dei termini utilizzati da Paolo potrebbe
essere studiato nel suo contesto con conclusioni non necessariamente
univoche: <<Del resto le opere della carne sono ben note: fornicazione,
impurità, libertinaggio, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia,
gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose
del genere; circa queste cose vi preavviso, come già ho detto, che chi
le compie non erediterà il regno di Dio» (5,1921).
Il frutto dello
Spirito
Dopo aver fatto questa lista
‘negativa’ Paolo ne aggiunge una ‘positiva’ scrivendo: «Il frutto dello
Spirito invece è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà,
fedeltà, mitezza, dominio di sé – e poi aggiunge – contro queste cose
non c’è legge» (v. 5,22-23).
Anche questa lista è però solo una
esemplificazione, e quindi non pretende di essere completa. Due liste
dunque: una, che rimane sotto il giudizio della legge, e quindi è
condannata, e richiama una pena; l’altra invece che è libera dalla
legge, perché è frutto dello Spirito.
La dichiarazione conclusiva di Paolo
è, anche questa volta, lapidaria: «Ora quelli che sono di Cristo Gesù
hanno crocifisso la loro carne con le sue passioni e i suoi desideri»
(v. 5,24). In Cristo infatti si trova la completezza cercata, perché in
Lui si trova tutto, per cui chi si ritrova in Lui non ha bisogno di
andare a cercare altro.
Cristo Gesù è l’absolutum.
Tutto il resto verrà di conseguenza.
Perciò nel Vangelo leggiamo:«Seguite
me e tutto il resto vi sarà dato in aggiunta» (cf Mt 6,33; Lc 12,31).
L’unificazione di se stessi con Cristo comporta una assolutezza d’amore,
che non lascia spazio, tempo, per altri tipi di desideri o di passione.
Di qui la conclusione: «Se pertanto
viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito» (v. 5,25).
Lo Spirito del Figlio, quello Spirito inviato dal Padre, del quale Paolo
ha già parlato, è la guida sicura del cammino cristiano.
Paolo, che conosceva certamente lo
sforzo etico compiuto da tanti moralisti, spirituali e filosofi del suo
tempo, li relativizza tutti per fare spazio unicamente allo Spirito che,
grazie all’opera di Cristo, grida dalle profondità di ogni credente:
Abbà Padre, che diventa di fatto guida sicura verso la piena
realizzazione della vita che ha, appunto nel Padre, la fonte che scorre
dall’eternità.
Innocenzo Gargano
Camaldolese osb
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