n. 11
novembre 2008

 

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L’ascesi cristiana oggi
Ripensare con mente inquieta

di BRUNO SECONDIN

 

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«Ogni atleta è temperante», gridava Paolo ai Corinzi (1Cor 9,25), e fra questi poneva se stesso, con la convinzione che se non ci si tiene su di tono, tutto si decompone, anche nella vita spirituale.

Di fatto nella tradizione cristiana per secoli della “esercitazione” metodica – appunto questo il senso della askesis greca – s’è parlato a dismisura e soprattutto s’è organizzato un sistema pratico fatto di mortificazioni e privazioni, sacrifici e rinunce, paure e terapie, davanti al quale oggi si resta perplessi. La cultura lo ha semplicemente gettato via, con una perdita secca anche della sua stessa sapienza.

Per secoli, e forse ancora per una certa frangia di credenti oggi, la vera grandezza di un “santo” si misura sulle forme di “penitenza” e di “straordinaria mortificazione”: ben lontano quindi dal modello biblico della tenerezza, della vulnerabilità, del cuore mite e sapiente. Certi santi sono stati campioni più prossimi ai “fachiri” che agli invitati al banchetto del Regno, vestiti con la veste bella. Ma perché questo stereotipo di santo come “nemico di tutto ciò che è umano” ha avuto tanta fortuna?

Un groviglio storico

Per quanto si possa riconoscere tutta una serie di influssi extrabiblici per es. le correnti stoiche, quelle platoniche, quelle catare non c’è dubbio che vi è stato come un accanimento, spesso terapeutico per buoni fini, ma spesso anche masochista, quasi che il corpo e le sue esigenze e pulsioni siano patologie “diaboliche” dell’anima, da estirpare senza pietà. Chi se ne intende sa bene che questa visione “dualista” non è monopolio dei cristiani, ma trasversalmente si ritrova in tutte le religioni: e forse i cristiani nella loro identità preideologica (vale a dire negli eventi fondativi, Gesù di Nazaret), sono anzi i meno inquinati, data la base incarnatoria della loro visione della salvezza.

Dai monaci del deserto, che nelle loro aspre solitudini trascinavano certo una qualche tinta di stoicismo esasperato, ai monaci missionari irlandesi che inventarono anche la penitenza tariffata per meglio regolare il traffico penitenziale, alle associazioni medievali dei “battuti” che giravano a fare bella mostra delle loro “battiture” prolungate e ammonitrici. E poi dalle donne sante anoressiche che si nutrivano solo del pane eucaristico alle folkloriche consuetudini barocche di penitenze strane e spettacolari per chiamare a conversione (pensiamo a certe processioni quaresimali), ce ne sarebbero da raccontare. Faccio solo un cenno alla fioritura di testi incentrati sul combattimento spirituale, di cui il teatino Lorenzo Scupoli alla fine del Cinquecento è stato sintetizzatore eccellente. Una scenografia di battaglia e di scaramucce, di stendardi e di assalti, di armi e strategie, segno evidente di altri contesti. Eppure attorno a questo immaginario si è protratta una spiritualità “combattiva”, fino a ridosso del Vaticano II, certo sempre meno credibile, ma comunque comoda per contrapporre bene e male.

Ma dobbiamo mettere di mezzo anche una parte di modernità, che con l’esaltazione della dignità umana e tutto quello che vi è correlato ha corroso gli archi rampanti dell’impianto che slanciava l’edificio ascetico, trascinandolo verso il basso, e caso mai spostandosi a fare da appoggio all’autorealizzazione come nuova religiosità.

Certamente i secoli della modernità non hanno di botto buttato tutto a terra, ma a partire dal canone della bellezza corporea (degli artisti il merito) e poi dall’autonomia del pensiero (Cartesio va citato) e ancora con l’esaltazione del progresso e della razionalità, contro ogni forma di mitologia evasiva e religiosità deresponsabilizzante (Kant e Marx meritano un cenno), hanno disseminato crepe e mine che in seguito si sono rivelate fatali nell’ultimo secolo. Peccato che nella destrutturazione sono andati giù tutti, buoni e cattivi princìpi, saggezze secolari e stupidaggini pseudo religiose, messianismi secolarizzati e utopie evangeliche.

Un patrimonio, quello “ascetico”, non tutto spregevole, ma che nel giro di qualche decennio si è come volatilizzato, è evaporato sotto la spinta di una secolarizzazione dissacratoria, prima, e poi per il sopravvenire di altre antropologie che hanno tolto il terreno sotto i piedi a queste tradizioni. Primo fra tutti il nuovo approccio al corpo e alla corporeità: su cui faceva fortuna la vecchia ascesi con il suo “disprezzo”, e che evidenziava un disagio spesso patologico; mentre ora viene proposto un approccio olistico, positivo, quale visibilizzazione di tutti i valori e le potenzialità dell’individuo; e poi con una rivalutazione del corpo, ma sganciato dai paradigmi cristiani della sua creaturalità e della relazione con il soffio divino di vita (diciamo in termini tradizionali: l’anima immortale). E qui sì rischiamo davvero la divinizzazione del corpo, visto che l’anima ormai è argomento che sfuma quasi nel nulla. Giustamente qualcuno ha anche parlato del “furto dell’anima” nel nostro contesto culturale (cf. P. Barcellona).

Da dove ricominciare?

Ci si potrebbe domandare se vale la pena rilanciare l’ascesi oggi, nel nostro contesto secolarizzato e consumista. Intanto bisogna prima di tutto vigilare, perché l’inclinamento schizofrenico natura/soprannatura, cielo/terra, corpo/anima, peccato/ grazia, mondo/chiesa, ecc. non è affatto scomparso nella mentalità e nel linguaggio, nell’immaginario e anche nella sensibilità religiosa della gente semplice e di molte persone religiose.

Anzi, ci sono certi segnali di risorgenza confusa e magmatica, a cominciare dai rigurgiti sugli angeli e i diavoli, allargandoci alla riapparsa di forme “ascetiche” (chiamiamole pure così, ma con qualche benevolenza) che rasentano venature masochistiche e gusto del “farsi male”.

Quando vedo scritto a caratteri cubitali nel piazzale di un famoso santuario italiano: «Un corpo per soffrire e un cuore per amare», mi domando se sono io che ho perso il contatto col reale o se qualcuno è rimasto impigliato in linguaggi fioriti in contesti ed in epoche non più significative.

Perciò per prima cosa direi che bisogna abbandonare il linguaggio dualista, o anche sospettoso verso la corporeità, e prendere questa come un’unità dinamica (di corpo e anima), che è soggetta ad un divenire, che dà forma a valori e assunzioni di valori assiologici incentrati meno sulla miniatura dell’anima impigliata nei tentacoli del corpo e più sulla dinamica dell’attualizzazione delle potenzialità della personalità (che è fatta di anima e corpo inscindibili), che è esistenza in relazione, non più solipsistica, come ieri.

Quella che Gaudium et Spes chiama «una lotta drammatica tra il bene e il male» (GS 13) non va intesa come esperienza di annientamento reciproco, come se si trattasse di eserciti contrapposti che si devono distruggere.

Piuttosto va vista come esperienza progressiva di sintesi ed equilibrio fra tendenze “secondo la carne” (opere della carne) per dirla in termini paolini: cioè dove prevale l’egoismo, la mancanza di trascendenza, la chiusura ambiziosa e ostile, il mal uso delle pulsioni corporee, ecc. e le “tendenze secondo lo spirito” (o opere dello spirito) dove al contrario prevalgono l’oblazione, il perdono, il servizio, la collaborazione, la misericordia, la pace. Perché solo in casi più unici che rari ci troviamo di fronte a persone dove le opere della carne sono scomparse del tutto. In genere tutti ci trasciniamo con fatica fra ideali alti e possibilità concrete meno elevate.

E dobbiamo trovare un equilibrio orientatore, un autocontrollo non maniacale, ma realista e paziente. Per questo dico che bisogna trovare un equilibrio progredente, che abbia per meta certo il camminare totale e trasfigurante secondo lo Spirito, ma che intanto, come del resto Paolo stesso sinceramente confessava, tenga a bada le pulsioni corporali, incanalandole, controllandole, orientandole secondo il principio di una sinergia positiva e comunitaria.

Non un suicidio «simbolico» del corpo

 Si tratta cioè di abituarci ed educarci al dono di sé all’altro, non immaginando di appartenere agli esseri angelici, ma nella realtà fragile e peccaminosa che ci impasta tutti. In passato s’insisteva sulle pratiche espiatorie e automaceranti. Oggi si insiste più opportunamente su una vigilanza personale e una sinergia comunitaria che supporti dialogo e abbraccio, vigilanza e discernimento, intuizione e attesa paziente. A volte si ha l’impressione che per “salvare l’anima” si operi una specie di “suicidio” simbolico del corpo, pensando che così si onora Dio che è “divino”, appunto, cioè non ha nulla di “umano” (vale a dire fragile). Ma non è questa la fede dei cristiani, che aderiscono al “Verbo incarnato”, crocifisso e umiliato.

Nella nostra vita ci sono “fenomeni di attrito” a sufficienza, senza che li andiamo a fabbricare da sonnambuli ansiogeni: cioè abbiamo elementi di finitudine, malattia, morte, disastri naturali,.sensazioni sgradevoli, convivenze tribolate. Sarebbe opportuno gestire queste situazioni con sapiente prospettiva. Anzitutto impegnarsi per trasformare i mali evidenti in risorse meno tragiche, per una convivenza più solidale. Poi vivere la consapevolezza che la sofferenza deve diventare “memoria pericolosa” che fermenta il convivere e il proprio vivere, nella prospettiva della redenzione operata dalla croce umiliante, ma redentrice. Infine imparare una “sopportazione attiva” (come quella di Giobbe) che nella fede stringe i denti e permane stabile nell’attesa di una luce decisiva, senza sotterfugi magicosacrali. La prova della notte oscura e della fede di Santa Teresina, potrebbe insegnarci qualche cosa di buono.

La solidarietà umana nella sofferenza non è la somma delle sofferenze personali, più o meno conosciute, ma è la strategia che mettiamo in atto come credenti, alla luce di Colui che ha dato se stesso per noi, per rimanere coscienti della relazione irrisolvibile della limitatezza umana rispetto al suo destino eterno. Si solidarizza non per negare la precarietà dolorosa, o almeno per trovare nel “mal comune mezzo gaudio”, ma per riconoscere che questa passio mundi che ci accomuna è come un gemere della terra e dell’intera creazione, per una redenzione trasformatrice, ma non puramente angelica. Stringendo mani e cuori nella solidarietà, si afferma che questo nostro eone non sarà trasfigurato se non nella speranza che infonde l’icona del Crocifisso.

Bruno Secondin
Docente alla Pontificia Università Gregoriana
Borgo S. Angelo, 15 – 00193 Roma

 

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