L'anno
paolino, indetto da Benedetto XVI per tutta la Chiesa, è una grande
opportunità per contemplare l’opera di Dio nella vita del fariseo Saulo
trasformato in apostolo. Oggi abbiamo bisogno in modo particolare di
nutrirci dei valori vissuti da san Paolo, appassionato conoscitore di
Cristo e formatore di comunità cristiane.
Il fascino della libertà
Nato in una famiglia benestante e cittadino
romano, Saulo di Tarso, che sarà poi chiamato Paolo (At 13,9) aveva
potuto completare la sua formazione a Gerusalemme, ai piedi di Gamaliele
(At 22,3), il più dotto scriba fariseo del momento. Nella frequentazione
assidua e amorosa della Torah, Saulo trovava sicurezza e sostegno
interiore. Sulla Torah poggiava anche la sua identità personale, come
onesto ricercatore del Volto di Dio (Sal 27,8). Lo zelo ossessivo per lo
studio e per la pratica della Legge gli permettevano di dimostrare il
proprio valore, anche da questo sarà liberato nell’incontro con Cristo.
Mentre viveva questo travaglio si trovò, suo
malgrado, ad essere testimone della morte di Stefano, discepolo di Gesù
e suo Vangelo vivente. Colpito al cuore dalla libertà interiore che
splendeva sul volto di Stefano al momento del martirio, Saulo tentò con
tutte le sue forze di soffocare quel piccolo seme di vita che il sangue
del protomartire era riuscito a far cadere dentro di lui. Siamo alla
svolta decisiva della sua avventura spirituale.
Invano il Persecutore lottò contro il fascino
esercitato su di lui dalla libertà interiore di Stefano che lo rimandava
al mistero di una relazione con Gesù Cristo capace di far vivere e di
far morire un uomo in quel modo, cioè perdonando i suoi uccisori.
Forse Saulo intuiva che tutti coloro che
«seguivano la Via» (At 9,2), Cristo Gesù (Gv 14,6), diventavano una
potenziale minaccia alla sicurezza che derivava da un’osservanza
perfetta (Fil 3,6). Al culmine della sua azione contro i credenti in
Cristo (Gal 1,13-14) il fascino esercitato dalla libertà divenne sempre
più grande, insieme però alla paura di veder crollare l’edificio della
propria vita basato sulla Torah. Saulo tentò di difendersi, ma venne
afferrato saldamente da Dio che lo aveva scelto fin dal seno di sua
madre (Gal 1,15) e che, nel Figlio suo Risorto, lo attendeva sulla via
di Damasco, per colmarlo di Spirito Santo (At 9,17).
Saulo, nell’incontro con Cristo sulla via di
Damasco, conosce personalmente la forza dell’amore di Cristo che gli
trasforma la vita (Gal 2,19-20). Egli viene amato e quindi anche
restituito a se stesso, a Dio e alla comunità. L’esperienza di Damasco
gli rivela che il Nome contro cui egli, in buona fede, combatteva
perseguitandone i discepoli (cf At 9,3-5.13-14.21.26), è il Vivente per
sempre, il Signore della Gloria che lo aveva atterrato come suo
persecutore.
«Mi ha amato» (Gal 2,20)
Tutto quello che il fariseo Saulo sapeva di
Gesù fino a quel momento si capovolge e gli appare in una luce
totalmente nuova e abbagliante. Avviene in lui quella rivoluzione della
mente, del cuore e della vita che farà di lui, come di Stefano e degli
altri discepoli e discepole, il Vangelo vivente di Gesù.
Il Crocifisso è vivo e risorto. Questo
incontro lo obbliga ad accettare dei fatti, che prima egli aveva creduto
di dover scartare e combattere. Nella sua coscienza di fariseo Saulo
dispone di tutto un bagaglio di conoscenze capaci di dischiudergli il
senso profondo di ciò che sta vivendo. Egli accoglie la relazione con il
Cristo crocifisso e risorto come l'evento primario e assolutamente
determinante nei confronti di tutta la sua fede ebraica e farisaica.
Se prima di Damasco poteva affermare che la
sua vita era la Legge, da questo momento può dire: «La mia vita è
Cristo». Saulo si trova già totalmente in potere del suo amore
salvifico. Se Gesù è risorto, vuol dire che è cominciata l'era della
Vita che non muore più e che la vittoria della morte, l'ultima nemica
(1Cor 15,26), è annullata mentre il suo impero comincia a declinare
(1Cor 15,54-58). Come fariseo egli è in grado, ancor più di molti dei
primi discepoli, di comprenderne tutto il senso.
L'esperienza singolarissima di Gesù,
conosciuto personalmente da Saulo come suo Signore fin dal primo
momento, gli rende più facile e immediata la conclusione che tutta la
divina Presenza (la Shekhinah)
può essere ormai contemplata e conosciuta nel volto di Gesù Cristo
risorto: «E Dio, che disse: “rifulga la luce dalle tenebre”, rifulse nei
nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria divina che
rifulge nel volto di Cristo» (2Cor 4,6).
Paolo è entrato nella libertà di spirito
attraverso un cammino di graduale espropriazione di sé, dei suoi
privilegi di fariseo e persino nel suo modo di predicare Cristo.
Una libertà che non è arbitrio o presunzione,
ma senso di assoluta e totale appartenenza come schiavo e come servo di
Cristo e dunque libero da tutte le opinioni umane. In questo senso la
libertà diventa una forma rigorosissima di servizio: «Siete stati
chiamati a libertà purché questa non divenga un pretesto per vivere
secondo la carne ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli
altri» (Gal 5,13).
La libertà scaturisce dall’incontro di
Damasco quando Saulo fa l’esperienza dell’amore del Cristo, un amore
incondizionato e assolutamente gratuito per lui: «Mi ha amato e ha dato
se stesso per me» (Gal 2,20).
La trasfigurazione di Paolo
Per san Paolo «il vivere è Cristo» (Fil
1,21), e la salvezza ed essere salvati consiste nell’essere resi
conformi alla sua immagine, morendo a noi stessi e risorgendo a vita
nuova in lui (2Cor 4,10; 13,4; Rm 6,3-11). L'esperienza cristologica che
Paolo fa nel suo incontro con Gesù risorto gli rivela (Gal 1,12) che in
Cristo vi è la soluzione del problema ebraico della comunione con Dio
mediante lo Spirito, fino allora affidata ad un'osservanza della Torah.
Poiché l'ultima pagina delle Scritture include tutte le precedenti, il
conseguimento dell'ultima tappa non fa sparire le tappe intermedie del
disegno di Dio. Così Paolo scopre la Torah premessianica come un
pedagogo che conduce l'uomo al Cristo, nell'attesa che venga l'ultimo
vero Maestro (Gal 3,19-29). Cristo, quale «ultimo Adamo » (1Cor 15,45),
è la forma definitiva della natura umana redenta (1Cor 15,21-22; Rm
5,12-21; Col 3,9-11; Ef 4,22-24). In lui conosceremo la «potenza della
sua risurrezione solo se partecipiamo alle sue sofferenze diventandogli
conformi nella morte» (Fil 3,10).
Paolo ci insegna, con la sua esperienza di
vita e con i suoi scritti, a comportarci in maniera degna del Vangelo
anche nel mondo della post-modernità in cui viviamo. Egli indica un
nuovo modo di essere “umani” radicato per mezzo del battesimo in Gesù
Cristo Messia e Signore e animato dalla carità come dono di sé (Rm
5,5-11; 8,28-39).
L’amore di Dio, in Cristo Gesù, raggiunge la
perfezione solo nella debolezza, con il paradosso della Croce (1Cor
2,1-5). Nella Croce di Cristo l’Apostolo vede ciò che ancora oggi
potrebbe essere una nuova chiave per dare senso allo sviluppo umano.
Forse questo non è tanto questione di conoscenza ma di coraggio, di un
nuovo modo di impostare la vita. Per rendere possibile questa
trasfigurazione occorre scegliere di avere solo Gesù Cristo come regola
di vita, in una relazione vitale con lui che raggiunga tutta la persona
e la apra ai fratelli per comunicare loro lo stesso dono. In questo si è
compiuta l’avventura spirituale di Paolo, apostolo e mistico, in una
continua trasformazione in Cristo.
La liturgia della vita
I molti dettagli della conversione
trasfigurante di Saulo, raccontata per tre volte nel libro degli Atti
degli Apostoli (At 9;22;26), vengono confermati nelle Lettere
dell’Apostolo, ma con più sobrietà. Egli comprende che la sua vocazione
è opera di Dio, una pura e immeritata grazia donata a un uomo che si
autogiustificava con la pratica delle prescrizioni, ma che in realtà era
un «bestemmiatore, persecutore e violento» (1Tim 1,13). Dio ha scelto e
chiamato un persecutore per farne un apostolo. Questa chiamata è una
libera decisione del Signore, per suo puro beneplacito; però non è
un’improvvisazione, perché l’amore di Dio per noi viene sempre da molto
lontano (Rm 8,28-30).
Nelle Lettere paoline l’azione del
“chiamare”, in greco kalein,
ha sempre come soggetto Dio stesso. Della sua vocazione, in termini
teologici e cultuali, Paolo parla in Galati 1,15-16: «Quando Colui che
mi mise a parte fin dal seno di mia madre e mi chiamò per mezzo della
sua grazia si compiacque di rivelare suo Figlio in me affinché lo
annunziassi in mezzo alle nazioni…».
Il verbo usato dall’Apostolo: «mettere a
parte - separare» è significativo nella vocazione particolare di Paolo.
Allo stesso modo si presenta all’inizio della Lettera ai Romani: «Paolo,
apostolo per vocazione, messo a parte per il Vangelo di Dio» (Rm 1,1).
Dio si è riservato Paolo, come nella liturgia del Tempio si riservavano
per lui le offerte e le primizie (Es 29,26-27; Num 8,11; Lev 20,26).
Paolo è sottratto a un modo comune di vivere per essere introdotto in
una speciale relazione con Dio. Il contesto però fa comprendere che non
si tratta di una segregazione perché l’elezione dell’apostolo porta con
sé la missione di introdurre altri, specialmente tra i gentili, nella
stessa relazione di alleanza con Dio, in Cristo Gesù.
Per le grandi feste annuali, i pellegrini
venuti da ogni direzione coprono le strade della Palestina e salgono al
Tempio di Gerusalemme cantando i salmi delle ascensioni (Salmi 120-134).
Paolo certamente vibra a questo ritmo e partecipa alle splendide
liturgie nel Tempio. Egli conosce il valore delle pratiche cultuali del
suo popolo, il riposo sabbatico, l’ufficio sinagogale, il digiuno del
giorno dell’Espiazione, le preghiere che accompagnano gli atti
quotidiani, l’uso dei filatteri e delle frange, i digiuni spontanei, le
offerte e i voti. La fede in Dio e lo studio della Torah avevano
impregnato la sua giovinezza seguendo lo schema rituale della
separazione dalla realtà profana. Il Signore però lo prepara, anche
attraverso la pratica minuziosa di tutte le prescrizioni rituali, a
incontrare Gesù Cristo, che è «più grande del Tempio» e a interiorizzare
la sua passione per Dio in una continua liturgia della vita.
Il rapporto vivo e dinamico con la persona
del Figlio di Dio inaugura la liturgia della vita. Non si tratta più
soltanto di una relazione cultuale, come nel Tempio di Gerusalemme, ma è
relazione esistenziale che trasforma tutti i momenti della quotidianità.
Si capovolge lo schema della sacralità tipica del Tempio. Il contatto
con Dio non avviene più per
separazioni ma, in forza
dell’Incarnazione, per immersione nel mistero di Cristo.
Paolo si è sentito afferrato da Cristo Gesù
(Fil 3,12) e la sua scala di valori, anche nell’ambito religioso si è
capovolta. «Le cose che per me erano vantaggi personali, le ho
considerate una perdita a motivo di Cristo. Anzitutto ormai io reputo
una perdita di fronte alla sublimità della relazione con Cristo Gesù mio
Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le
considero come spazzatura al fine di guadagnare Cristo…» (Fil 3,7-8).
Per mantenersi unito a Cristo, Paolo si mette con tutte le sue forze al
servizio del prossimo, nell’evangelizzazione.
La carità di Cristo sperimentata lo sospinge
a dare la vita per il Vangelo.
La spinta oblativa
Attingendo alla sua prolungata esperienza nel
Tempio, l’apostolo, divenuto cristiano, opera un radicale cambiamento di
prospettiva. Egli usa la terminologia propria del culto e la applica
all’esperienza della vita cristiana. Per Paolo la liturgia diventa il
quadro “naturale” in cui si svolge la vita cristiana in tutta la sua
sacralità. Egli applica questa prospettiva anzitutto a se stesso e
descrive il suo apostolato con un linguaggio cultuale. A volte il verbo
servire,
in determinati contesti sembra richiamare il servizio liturgico (1Tes
1,9-10; Gal 4,8-11). Nell’evangelizzazione Paolo è «liturgo di Cristo» (cf
Rm 15,16) che rende culto a Dio con la propria esistenza (Rm 1,9-10;
2Tim 1,3). Anche se né Gesù Cristo, né Paolo hanno personalmente
compiuto dei sacrifici nel tempio di Gerusalemme, la loro stessa
esistenza viene descritta, nell’epistolario paolino, con linguaggio
cultuale.
L’apostolo ha caricato di senso liturgico la
vita cristiana, senza far distinzione tra azioni ministeriali e comuni,
paragona la stessa conclusione della propria vita alla libagione
sacrificale: il suo sangue «sta per esser offerto in libagione » (cf Fil
2,17; 2 Tim 4,6). Il suo ministero apostolico è un culto che egli presta
«a Dio nello Spirito» (Rm 1,9). Egli si qualifica «protagonista di
un’attività liturgica» (Rm 15,16) nel suo ministero tra i gentili. La
sua dedizione piena, nei riguardi degli abitanti di Filippi, è un
sacrificio che si realizza in lui a vantaggio della vita di fede dei
Filippesi che è denominata «offerta sacrificale e attività liturgica»
(Fil 2,17).
La raccolta di fondi praticata nelle comunità
greche a favore della chiesa di Gerusalemme è chiamata “attività
liturgica” (2Cor 9,12) ed Epafrodito, inviato dai Filippesi per
assistere Paolo nei disagi della prigionia, prestandogli quegli umili
servizi di cui l’apostolo in carcere aveva bisogno, viene designato come
«protagonista di un’azione liturgica » (Fil 2,25).
La realtà battesimale ci pone in una
situazione completamente nuova rispetto alla liturgia del Tempio di
Gerusalemme. Questo fatto permette all’apostolo di trasferire tutti i
termini propri del culto nel Tempio alla vita cristiana: «Vi esorto,
dunque, fratelli, per la bontà di Dio, a presentare i vostri corpi come
un’offerta sacrificale vivente in continuazione, santa, gradita a Dio: è
il vostro culto spirituale. Non conformatevi al mondo presente, ma
trasformatevi in continuazione mediante un rinnovamento attivo della
vostra mente, in modo da poter discernere la volontà di Dio, ciò che è
buono, gradito [a Dio] e perfetto » (Rm 12,1-2).
Dopo aver spiegato nella prima parte della
lettera ai Romani la situazione nuova della vita cristiana, Paolo
conclude invitando i credenti, in nome di tutta la misericordia
sperimentata, a presentare a Dio l’offerta della propria persona. Questa
spinta oblativa, vissuta nei particolari concreti della vita quotidiana,
è la liturgia della vita. Qui risiede il segreto dell’avventura
spirituale di san Paolo e di ogni vita cristiana.
Regina Cesarato
Biblista e Superiora generale
delle Pie Discepole del Divin Maestro
Via Gabriele Rossetti, 17 - 00152
Roma