n. 4
aprile 2009

 

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Liberare le volontà
II. Percorsi di maturità

di BERNARDINO PRELLA

 

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Si obbedisce veramente a Dio, se non si è disposte ad obbedire alle nostre comunità, alle nostre superiore e se, a volte, non riusciamo neppure ad accettare noi stesse?

Quest’interrogativo mi sembra tutt’altro che retorico, anzi si fonda sulla rivelazione cristiana. Per un certo verso, possiamo pensare a Dio come ad un “Altro”, con il quale ci rapportiamo in modo simile a quello con cui ci rapportiamo con gli “altri”. Questo è tanto vero che il nostro relazionarci può diventare l’indice del nostro reale modo di rapportarci con il Padre. Ciò vale anche per il ringraziamento, la richiesta di perdono, il pentimento, la capacità di fiducia e di stima. Se non sappiamo ringraziare consorelle o superiore per una gentilezza che ci hanno fatto, e quasi ci sentiamo umiliate nel riconoscere il loro aiuto, saremo capaci di ringraziare Dio dal quale abbiamo ricevuto tutto e davanti al quale ci sentiamo molto più dipendenti?

Obbedienza corresponsabile

L’obbedienza religiosa riduce e mortifica la personalità umana, oppure è occasione di maturazione personale?

Esaminiamo brevemente alcuni aspetti dell’obbedienza religiosa: contenuti, finalità, modalità del suo esercizio, condizioni di sviluppo e di perfezionamento della persona; ed anche la tentazione di ridurre le fatiche che l’obbedienza religiosa comporta.

Occasione di maturazione personale

Il contenuto fondamentale della nostra obbedienza è dato da quanto prescrivono le Costituzioni, all’interno di ordinamenti giuridici e teologali più ampi (il diritto canonico, la rivelazione, la legge naturale…). Molti testi costituzionali, soprattutto femminili, prevedono «Direttori» particolari e più flessibili.

L’obbedienza religiosa ha come fine la santità personale nel perseguire i valori della vita consacrata: la vita comune, l’esercizio dei voti, la vita di preghiera; e gli scopi dell’Istituto. Ciò comporta una continua crescita nella disponibilità a servire, ed ancor più a “santificarsi nel servizio”, al quale la comunità e le superiore orientano autorevolmente. Lo sminuzzare i contenuti dell’obbedienza fino a particolari insignificanti rischia di rendere inerte l’obbedienza e la stessa autorità. In parte ciò spiega certi ripiegamenti e disattenzioni storiche, più sopra ricordate.

In particolare, l’obbedienza religiosa mira allo sviluppo personale nella carità, nell’amore a Dio e al prossimo. Questa concentrazione presuppone uno spogliamento.

Non è necessaria una profonda riflessione su di sé per cogliere una sorta di secondo piano delle intenzioni. Spesso, anche quando ci decidiamo per il bene e sembriamo agli occhi degli altri molto generosi, di fatto le nostre motivazioni hanno una significativa valenza egotica. Abbiamo fatto velocemente i nostri conti e valutato da abili ragionieri i costi ed i ricavi. Da ottimi imprenditori dei nostri interessi, anche quando ci siamo presentati come volontari, abbiamo avuto di mira tutta una serie di benefici secondari, che ci avrebbero ben ripagato del nostro sforzo. L’amore per Dio e per il bene “oggettivo”, pur presenti, forse al primo piano nelle intenzioni espresse, di fatto sono stati poco operanti come motivi del nostro agire.

Le motivazioni, che realmente ci muovono all’azione e che ci qualificano come “agenti”, sono certamente più complesse, in parte sconosciute a noi stessi; anche quelle intraviste sono spesso molto diverse e meno nobili delle nostre intenzioni coscienti e pubblicamente comunicate.

Risposta personale a Dio

Come l’obbedienza religiosa può essere di aiuto a progredire nel liberarci dagli “amori egotici” e, in questa maturazione, a partecipare all’amore di Dio stesso?

Presupposte le nozioni fondamentali della grazia santificante, dell’infusione delle virtù teologali e dei doni dello Spirito Santo, accenno ad alcuni aspetti pratici ed operativi. Si tratta di trovare una strada per poter agire per amore di Dio, in modo sempre più intenso, e per compiere quello che il Padre vuole da me qui e ora, affinché Egli possa amare e diffondere la sua misericordia. Occorre sviluppare sempre più in noi la coscienza di vivere alla presenza di Dio, adoranti, in un atto di obbedienza.

Abbiamo mai accettato di esistere e di vivere? Viviamo in modo libero? Siamo gioiosi di accoglierci quali siamo come dono della volontà di Dio a noi stessi? Siamo coscienti di collaborare con il suo atto creativo-redentivo-santificante, oppure il nostro esistere è solo un dato di fatto cui ci siamo abituati, per non dire un vivere al quale siamo attaccati solo biologicamente o psicologicamente?

Tutti i giorni siamo chiamate a ritagliare anche pochi minuti per intensificare questa nostra disposizione interiore, che potremmo definire la nostra opzione fondamentale: sia fatta la tua volontà. Questo è l’insegnamento dato da Gesù ai suoi discepoli. Ovviamente non è questione di ripetere delle parole, ma di lasciar strutturare e stratificare un forte desiderio di sottofondo che faccia da sostegno e da filtro a tutti gli altri desideri della giornata e della vita.

Senza la costruzione nel nostro cuore di questo fondamento, ci può anche capitare di fare molte cose buone, correndo però il rischio di compierle per la loro bontà e non perché mosse dall’amore per Dio.

Contenuto, modo, orientamento

Accennare all’articolazione del nostro atto volontario può essere un po’ impegnativo e faticoso, ma può anche aiutarci ad   esaminare meglio il nostro modo di agire libero e migliorare i nostri atti di carità e di obbedienza.

Il sottofondo descritto si avvicina a ciò che nel linguaggio medievale si chiamava simplex velle, il più radicale atto della volontà in rapporto al fine ultimo il quale, perfezionato dalla virtù della carità,dava l’orientamento buono a tutta la vita morale personale. Oggi si tende a chiamarlo opzione fondamentale buona. La discussione tra filosofi, teologi, moralisti, riguardo all’analisi di questo atto, ha suscitato tensioni molto forti e il magistero stesso più volte è intervenuto in proposito.

Vi sono però altri aspetti dell’atto libero che richiamano il rapporto di obbedienza superiora-religiosa, e proprio perché più direttamente implicati sono più facilmente percepibili. L’atto libero, come d’altra parte ogni bene, può essere considerato da tre differenti punti di vista: il contenuto, il modo secondo il quale viene prodotto, l’orientamento in esso espresso, detto in altri termini, il fine che orienta la nostra azione.

In questa ricerca della volontà di Dio, possiamo aggiungere che proprio in forza dell’obbedienza religiosa, abbiamo liberamente deciso, secondo le nostre Costituzioni, di affidarci completamente alla comunità e superiore. In ogni Istituto, secondo il carisma della Fondatrice o del Fondatore, il servizio dell’autorità viene svolto in modi differenti. Mi permetto un esempio tratto dalla vita dei frati dell’Ordine dei Predicatori, i Domenicani, cui appartengo.

Domenico, molto sensibile alle trasformazioni socio-culturali in atto nel suo tempo – sfaldamento del sistema feudale, sviluppo dei liberi comuni – volle comunità di frati liberi. Di conseguenza, non volle che le violazioni alle Costituzioni costituissero colpe morali, ma che i frati si emendassero con penitenze;i superiori fossero dei “priori” - primi tra pari, eletti dai confratelli per un breve tempo - e non degli “abati” permanenti. Egli intendeva formare i frati ad essere corresponsabili nei confronti della determinazione del   bene (ciò che riguarda tutti da tutti deve essere definito e deciso da tutti) perché ne fossero, in modo più convinto, liberi esecutori.

Si può parlare del «capitolo» conventuale locale domenicano, come di un capitolo delle “nove libertà”, in cui il superiore ha un voto solo e tutti i frati hanno la responsabilità di lasciarsi coinvolgere nei temi proposti dal priore; di ascoltare e prendere in considerazione il parere degli altri; di discutere le proposte e decidere personalmente con voto segreto; di accogliere le decisione della maggioranza; di praticare gli impegni presi ed, infine, di verificare quanto la comunità aveva deciso e praticato.

In concreto, i capitoli - generale, provinciale o locale – sono chiamati ogni tre o quattro anni o mensilmente a storicizzare il carisma, adeguandolo al luogo ed alla cultura in cui la comunità vive, in piena libertà corresponsabile, sotto la guida del priore provinciale e degli atti dei capitoli, senza il bisogno di alcuna conferma, dato che Domenico volle che solo l’Ordine, e non le Costituzioni, avessero la conferma della Sede Apostolica.

Concentrarsi sulla libertà e sulla carità

Possiamo però chiederci perché scegliere, attraverso l’obbedienza religiosa, questa liberazione dalla responsabilità di definire in modo autonomo il contenuto della nostra azione libera? Non potrebbe essere un segno di paura, d’immaturità oppure di una pratica che favorisce tali atteggiamenti?

A mio avviso, l’obbedienza religiosa è libera per tre motivi, e tutti e tre sono grandi occasioni di crescita personale.

Se veramente cerchiamo Dio e la sua volontà avremo ben fatto l’esperienza di quanto il nostro temperamento di fatto interferisca nella percezione della realtà, nel valutare situazioni, avvenimenti e persone. La verità umana è soprattutto una costruzione comunitaria storica: si accresce con l’apporto di confronti e di verifiche e richiede una buona organizzazione del nostro organismo virtuoso per essere intuita, riconosciuta e praticata.

Il modo e l’orientamento dell’atto libero sono solamente in mio potere. Nessuno in senso stretto mi può aiutare e tanto meno sostituire e per quanto il contenuto della mia azione sia molto importante, il modo e l’orientamento della mia azione sono decisamente più importanti e decisivi. In più, sono tra loro strettamente collegati.

Senza l’orientamento giusto quanto viene fatto non ha alcun valore morale per noi, per quanto possa essere d’aiuto ad altri. Un semplice esempio quotidiano può aiutarci a comprendere questa verità: quanto giova viaggiare comodamente e velocemente… in direzione sbagliata? Avremmo solo il danno di aver perso tempo, sciupato del denaro e di dover tornare indietro!

La carità poi, come intenzione/ motivazione, non può che perfezionare ed essere prodotta da un personale atto libero. L’atto libero è il modo di agire proprio ed esclusivo della persona. L’agire in forza di una inclinazione che ognuno di noi può far emergere, sulla base di un proprio giudizio di valore.

Un altro momento importante del processo di umanizzazione sarà quello nel quale comprenderemo, e poi ne saremo conseguenti, che il modo di agire ci costruisce più in profondità dei migliori  Questi, al massimo, possono produrre alcuni beni esterni, usufruibili da noi e dagli altri, e questo è ovviamente un agire socialmente degno; possono anche strutturare in noi tutta una serie di qualità che definiranno la nostra personalità nella sua dimensione più esterna (possederemo conoscenze, scienze e tecniche raffinate); ma il modo di agire costruisce la nostra personalità in una intimità più profonda.

Dobbiamo ricordare che l’atto libero è immanente, strettamente legato al soggetto che lo produce e che, mentre viene prodotto, perfeziona il soggetto; l’atto cattivo, invece, lo disarticola e poco per volta lo distrugge.  Seduti nell’angolo di una cappellina non produciamo nessun bene esteriore fortemente significativo, ma la nostra interiorità può arrendersi al dono della contemplazione  di immettere la sua vita in noi e diffondere la sua luce e la sua santità attraverso le nostre azioni. Mentre possiamo, agitati dalla paura o dall’orgoglio o dalla vanagloria, impegnarci in mille e significative attività esterne, ma nel frattempo, agendo da paurosi, orgogliosi e vanitosi, costruiremo noi stessi sempre più paurosi, orgogliosi e vanitosi.

Proprio perché il modo e l’orientamento con cui agiamo sono significativi e dipendono unicamente da noi è importante che gli educatori siano attenti a questi processi.

Difendersi dall’obbedienza?

Il gusto e il fascino delle nostre scoperte, intuizioni e progetti possono sviluppare su di noi attrattive intense e a volte irresistibili. Quante persone, per amore di una battuta, di un gioco di parole, di un’intuizione arguta, hanno procurato offese nel proprio ambiente e si sono create attorno un ampio cerchio di terra bruciata… dai propri veleni?

Già le singole azioni esterne, quando siamo molto coinvolti in un progetto e nella sua esecuzione, possono dominare non solo le nostre ore, ma anche le giornate e la stessa vita.

Se alcune perplessità (“Smetto di lavorare o finisco il lavoro?”) ci impediscono di essere obbedienti al suono della campanella per il coinvolgimento subito in una singola azione esterna, pensiamo a quante resistenze si possono sviluppare in noi per coinvolgimenti durati anni, sviluppati con ingegno, fatica e professionalità… Quale fatica a prendere le distanze, a perdere posizioni e opportunità ormai consolidate di operare e diffondere del bene! Vi sono persone con temperamenti così sensibili e così capaci di coinvolgimento, per le quali ogni distacco ed ogni nuovo coinvolgimento è un vero trauma e richiede una virtù quasi eroica. Qualche volta però, se non proprio spesso, anche se ci diciamo che stiamo agendo per amore del bene e di Dio, nella realtà dei fatti agiamo piuttosto per amore di “quel” bene e per il nostro trovarci ormai a nostro agio in quelle circostanze.

Potremmo, senza neanche rendercene tanto conto, ridurre o di fatto eliminare le condizioni reali di “obbedienza”. Sia quelle soggettive: non coltivando uno spirito di obbedienza, ma abituandoci ad agire “di testa nostra”, a pensare e decidere abitualmente noi per gli altri, senza lasciare spazio a nessuno, mal disposti nei confronti di qualsiasi consiglio, mai disponibili per una collaborazione. Sia quelle oggettive: rendendoci facilmente indispensabili ed insostituibili nel luogo dove siamo e iniziando sempre lavori nuovi.

Fragilità offerta

Vi invito ad un approfondimento cristiano del concetto ed ancor più dell’esperienza del sacrificio, che, ereditato dall’Antico Testamento ed ancor più dal mondo pagano antico, spesso non riusciamo a comprendere e a vivere nella sua piena novità. Nel nostro cuore e nella nostra mente siamo spesso convinti che il sacrificio abbia un legame totale e quasi esclusivo con il dolore e la sofferenza, ma di fatto la Rivelazione, già nell’Antico e ancor più nel Nuovo Testamento, mette l’accento soprattutto sull’amore e sul rendimento di grazie, non sul dolore.

La nostra debolezza ci inclina a pensare che un’azione valga per la sofferenza che comporta, ma questo non corrisponde al vero. Questo modo di pensare è più un segno dei nostri sensi di colpa, che ci spingono comunque e confusamente ad una espiazione, che non di una corretta antropologia e di una adeguata comprensione della rivelazione. L’amore dà significato alle nostre azioni, non il dolore che, se c’è, ne può essere solo il segno esterno e l’ambito, la condizione storica della sua realizzazione.

Del resto le virtù non dovrebbero rendere piacevoli le azioni morali buone? Se fossero il dolore ed il disagio il metro dei nostri meriti non avrebbe senso impegnarsi nell’acquisizione delle virtù…

Amare in un tempo ed in un mondo segnati dal peccato comporta certamente del dolore, che coscientemente accettato diventa espiazione, in quanto partecipiamo liberamente al modo in cui Cristo è vissuto. In lui, noi diventiamo «sacrificio vivente,  santo e gradito a Dio» (Rm 12,1) in quanto rendiamo la nostra volontà totalmente arresa, e offriamo la nostra umanità perché nella storia continui il segno dell’incarnazione: un’umanità santificata dallo Spirito del Signore che si offre, per testimoniare l’amore del Padre, a sostegno di tutti i sofferenti della terra e a lotta contro tutte le sofferenze umane.

Totalmente «arresi»

La volontà di bene “totalmente arresa”, consiste in una concentrazione di vita sul mistero diCristo, che a sua volta comporta un nostro “svuotamento”, una partecipazione alla sua stessa kénosis (cf Fil 2,7).

Dio ci dona e ci chiede di rendere la nostra vita sacramento della sua santità santificante e ci chiama ad una intima comunione con lui, a costo di ridurre tutta una serie di potenzialità storico-umane della nostra esistenza, per renderci radicalmente partecipi, in molti modi, ma come persone pienamente realizzate, della missione del Figlio. Qual è, in ultima analisi, il contenuto della missione se non la diffusione dell’intimità con il Padre? Quale realizzazione più grande per la persona umana che essere con tutta se stessa, in tutta la sua storia, liberamente, sacramento della presenza del Verbo incarnato, che ci rivela e ci rende partecipi della sua intimità con il Padre (cf Gv 1,18).

La nostra volontà, resa dall’obbedienza “religiosa” pienamente diffusiva del Bene che Lui è, potrà diventare a sua volta in modo pieno, per grazia e partecipazione, fonte di acqua viva (cf Gv 7,38-39), sorgente di storia di salvezza, di storia santa perché abitata da sante e da santi, e quindi santificante la nostra “fragile” e “povera” storia umana, «a lode e gloria della sua grazia» (Ef 1,6).

Bernardino Prella op
Piazza Pietro d’Illiria, 1 - 00153 Roma

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