Si
obbedisce veramente a Dio, se non si è disposte ad obbedire alle nostre
comunità, alle nostre superiore e se, a volte, non riusciamo neppure ad
accettare noi stesse?
Quest’interrogativo mi sembra tutt’altro che
retorico, anzi si fonda sulla rivelazione cristiana. Per un certo verso,
possiamo pensare a Dio come ad un “Altro”, con il quale ci rapportiamo
in modo simile a quello con cui ci rapportiamo con gli “altri”. Questo è
tanto vero che il nostro relazionarci può diventare l’indice del nostro
reale modo di rapportarci con il Padre. Ciò vale anche per il
ringraziamento, la richiesta di perdono, il pentimento, la capacità di
fiducia e di stima. Se non sappiamo ringraziare consorelle o superiore
per una gentilezza che ci hanno fatto, e quasi ci sentiamo umiliate nel
riconoscere il loro aiuto, saremo capaci di ringraziare Dio dal quale
abbiamo ricevuto tutto e davanti al quale ci sentiamo molto più
dipendenti?
Obbedienza corresponsabile
L’obbedienza religiosa riduce e mortifica la
personalità umana, oppure è
occasione di maturazione personale?
Esaminiamo brevemente alcuni aspetti
dell’obbedienza religiosa: contenuti, finalità, modalità del suo
esercizio, condizioni di sviluppo e di perfezionamento della persona; ed
anche la tentazione di ridurre le fatiche che l’obbedienza religiosa
comporta.
Occasione di maturazione personale
Il contenuto fondamentale della nostra
obbedienza è dato da quanto prescrivono le Costituzioni, all’interno di
ordinamenti giuridici e teologali più ampi (il diritto canonico, la
rivelazione, la legge naturale…). Molti testi costituzionali,
soprattutto femminili, prevedono «Direttori» particolari e più
flessibili.
L’obbedienza religiosa ha come fine la
santità personale nel perseguire i valori della vita consacrata: la vita
comune, l’esercizio dei voti, la vita di preghiera; e gli scopi
dell’Istituto. Ciò comporta una continua crescita nella disponibilità a
servire, ed ancor più a “santificarsi nel servizio”, al quale la
comunità e le superiore orientano autorevolmente. Lo sminuzzare i
contenuti dell’obbedienza fino a particolari insignificanti rischia di
rendere inerte l’obbedienza e la stessa autorità. In parte ciò spiega
certi ripiegamenti e disattenzioni storiche, più sopra ricordate.
In particolare, l’obbedienza religiosa mira
allo sviluppo personale nella carità, nell’amore a Dio e al prossimo.
Questa concentrazione presuppone uno spogliamento.
Non è necessaria una profonda riflessione su
di sé per cogliere una sorta di secondo piano delle intenzioni. Spesso,
anche quando ci decidiamo per il bene e sembriamo agli occhi degli altri
molto generosi, di fatto le nostre motivazioni hanno una significativa
valenza egotica. Abbiamo fatto velocemente i nostri conti e valutato da
abili ragionieri i costi ed i ricavi. Da ottimi imprenditori dei nostri
interessi, anche quando ci siamo presentati come volontari, abbiamo
avuto di mira tutta una serie di benefici secondari, che ci avrebbero
ben ripagato del nostro sforzo. L’amore per Dio e per il bene
“oggettivo”, pur presenti, forse al primo piano nelle intenzioni
espresse, di fatto sono stati poco operanti come motivi del nostro
agire.
Le motivazioni, che realmente ci muovono
all’azione e che ci qualificano come “agenti”, sono certamente più
complesse, in parte sconosciute a noi stessi; anche quelle intraviste
sono spesso molto diverse e meno nobili delle nostre intenzioni
coscienti e pubblicamente comunicate.
Risposta personale a Dio
Come l’obbedienza religiosa può essere di
aiuto a progredire nel liberarci dagli “amori egotici” e, in questa
maturazione, a partecipare all’amore di Dio stesso?
Presupposte le nozioni fondamentali della
grazia santificante, dell’infusione delle virtù teologali e dei doni
dello Spirito Santo, accenno ad alcuni aspetti pratici ed operativi. Si
tratta di trovare una strada per poter agire per amore di Dio, in modo
sempre più intenso, e per compiere quello che il Padre vuole da me qui e
ora, affinché Egli possa amare e diffondere la sua misericordia. Occorre
sviluppare sempre più in noi la coscienza di vivere alla presenza di
Dio, adoranti, in un atto di obbedienza.
Abbiamo mai
accettato
di esistere e di vivere? Viviamo in modo
libero? Siamo gioiosi di accoglierci quali siamo come dono della volontà
di Dio a noi stessi? Siamo coscienti di collaborare con il suo atto
creativo-redentivo-santificante, oppure il nostro esistere è solo un
dato di fatto cui ci siamo abituati, per non dire un vivere al quale
siamo attaccati solo biologicamente o psicologicamente?
Tutti i giorni siamo chiamate a ritagliare
anche pochi minuti per intensificare questa nostra disposizione
interiore, che potremmo definire la nostra
opzione fondamentale:
sia fatta la tua volontà. Questo è l’insegnamento dato da Gesù ai suoi
discepoli. Ovviamente non è questione di ripetere delle parole, ma di
lasciar strutturare e stratificare un forte desiderio di sottofondo che
faccia da sostegno e da filtro a tutti gli altri desideri della giornata
e della vita.
Senza la costruzione nel nostro cuore di
questo fondamento, ci può anche capitare di fare molte cose buone,
correndo però il rischio di compierle per la loro bontà e non perché
mosse dall’amore per Dio.
Contenuto, modo, orientamento
Accennare all’articolazione del nostro atto
volontario può essere un po’ impegnativo e faticoso, ma può anche
aiutarci ad esaminare meglio il nostro modo di agire libero e
migliorare i nostri atti di carità e di obbedienza.
Il
sottofondo descritto si avvicina a
ciò che nel linguaggio medievale si chiamava
simplex velle,
il più radicale atto della volontà in rapporto al fine ultimo il quale,
perfezionato dalla virtù della carità,dava l’orientamento buono a tutta
la vita morale personale. Oggi si tende a chiamarlo
opzione
fondamentale buona.
La discussione tra filosofi, teologi, moralisti, riguardo all’analisi di
questo atto, ha suscitato tensioni molto forti e il magistero stesso più
volte è intervenuto in proposito.
Vi sono però altri aspetti dell’atto libero
che richiamano il rapporto di obbedienza superiora-religiosa, e proprio
perché più direttamente implicati sono più facilmente percepibili.
L’atto libero, come d’altra parte ogni bene, può essere considerato da
tre differenti punti di vista: il
contenuto, il
modo
secondo il quale viene prodotto, l’orientamento
in esso espresso, detto in altri termini, il fine che orienta la nostra
azione.
In questa ricerca della volontà di Dio,
possiamo aggiungere che proprio in forza dell’obbedienza religiosa,
abbiamo liberamente deciso, secondo le nostre Costituzioni, di affidarci
completamente alla comunità e superiore. In ogni Istituto, secondo il
carisma della Fondatrice o del Fondatore, il servizio dell’autorità
viene svolto in modi differenti. Mi permetto un esempio tratto dalla
vita dei frati dell’Ordine dei Predicatori, i Domenicani, cui
appartengo.
Domenico, molto sensibile alle trasformazioni
socio-culturali in atto nel suo tempo – sfaldamento del sistema feudale,
sviluppo dei liberi comuni – volle comunità di frati liberi. Di
conseguenza, non volle che le violazioni alle Costituzioni costituissero
colpe morali, ma che i frati si emendassero con penitenze;i superiori
fossero dei “priori” - primi tra pari, eletti dai confratelli per un
breve tempo - e non degli “abati” permanenti. Egli intendeva formare i
frati ad essere corresponsabili nei confronti della determinazione del
bene
(ciò che riguarda tutti da tutti deve essere definito e deciso da tutti)
perché ne fossero, in modo più convinto, liberi esecutori.
Si può parlare del «capitolo» conventuale
locale domenicano, come di un capitolo delle “nove libertà”, in cui il
superiore ha un voto solo e tutti i frati hanno la responsabilità di
lasciarsi coinvolgere nei temi proposti dal priore; di ascoltare e
prendere in considerazione il parere degli altri; di discutere le
proposte e decidere personalmente con voto segreto; di accogliere le
decisione della maggioranza; di praticare gli impegni presi ed, infine,
di verificare quanto la comunità aveva deciso e praticato.
In concreto, i capitoli - generale,
provinciale o locale – sono chiamati ogni tre o quattro anni o
mensilmente a storicizzare il carisma, adeguandolo al luogo ed alla
cultura in cui la comunità vive, in piena libertà corresponsabile, sotto
la guida del priore provinciale e degli atti dei capitoli, senza il
bisogno di alcuna conferma, dato che Domenico volle che solo l’Ordine, e
non le Costituzioni, avessero la conferma della Sede Apostolica.
Concentrarsi sulla libertà e sulla
carità
Possiamo però chiederci perché scegliere,
attraverso l’obbedienza religiosa, questa
liberazione
dalla responsabilità di definire in modo
autonomo
il contenuto della nostra azione libera? Non
potrebbe essere un segno di paura, d’immaturità oppure di una pratica
che favorisce tali atteggiamenti?
A mio avviso, l’obbedienza religiosa è
libera
per tre motivi, e tutti e tre sono grandi
occasioni di crescita personale.
Se veramente cerchiamo Dio e la sua volontà
avremo ben fatto l’esperienza di quanto il nostro temperamento di fatto
interferisca nella percezione della realtà, nel valutare situazioni,
avvenimenti e persone. La verità umana è soprattutto una costruzione
comunitaria storica: si accresce con l’apporto di confronti e di
verifiche e richiede una buona organizzazione del nostro organismo
virtuoso per essere intuita, riconosciuta e praticata.
Il modo e l’orientamento dell’atto libero
sono solamente in mio potere. Nessuno in senso stretto mi può aiutare e
tanto meno sostituire e per quanto il contenuto della mia azione sia
molto importante, il modo e l’orientamento della mia azione sono
decisamente più importanti e decisivi. In più, sono tra loro
strettamente collegati.
Senza l’orientamento giusto quanto viene
fatto non ha alcun valore morale per noi, per quanto possa essere
d’aiuto ad altri. Un semplice esempio quotidiano può aiutarci a
comprendere questa verità: quanto giova viaggiare comodamente e
velocemente… in direzione sbagliata? Avremmo solo il danno di aver perso
tempo, sciupato del denaro e di dover tornare indietro!
La carità poi, come intenzione/ motivazione,
non può che perfezionare ed essere prodotta da un personale atto libero.
L’atto libero è il modo di agire
proprio ed esclusivo della
persona. L’agire in forza di una inclinazione che ognuno di noi può far
emergere, sulla base di un proprio giudizio di valore.
Un altro momento importante del processo di
umanizzazione sarà quello nel quale comprenderemo, e poi ne saremo
conseguenti, che il modo di agire
ci costruisce più in profondità
dei migliori Questi, al massimo, possono produrre alcuni beni esterni,
usufruibili da noi e dagli altri, e questo è ovviamente un agire
socialmente degno; possono anche strutturare in noi tutta una serie di
qualità che definiranno la nostra personalità nella sua dimensione più
esterna (possederemo conoscenze, scienze e tecniche raffinate); ma
il modo di agire
costruisce la nostra personalità in una
intimità più profonda.
Dobbiamo ricordare che l’atto libero è
immanente, strettamente legato al soggetto che lo produce e che, mentre
viene prodotto, perfeziona il soggetto; l’atto cattivo, invece, lo
disarticola e poco per volta lo distrugge. Seduti nell’angolo di una
cappellina non produciamo nessun bene esteriore fortemente
significativo, ma la nostra interiorità può arrendersi al dono della
contemplazione di immettere la sua vita in noi e diffondere la sua luce
e la sua santità attraverso le nostre azioni. Mentre possiamo, agitati
dalla paura o dall’orgoglio o dalla vanagloria, impegnarci in mille e
significative attività esterne, ma nel frattempo, agendo da paurosi,
orgogliosi e vanitosi, costruiremo noi stessi sempre più paurosi,
orgogliosi e vanitosi.
Proprio perché il modo e l’orientamento con
cui agiamo sono significativi e dipendono unicamente da noi è importante
che gli educatori siano attenti a questi processi.
Difendersi dall’obbedienza?
Il gusto e il fascino delle
nostre
scoperte, intuizioni e progetti
possono sviluppare su di noi
attrattive
intense e a volte irresistibili.
Quante persone, per amore
di una battuta, di un gioco di
parole,
di un’intuizione arguta, hanno
procurato offese nel proprio
ambiente e si sono create attorno
un ampio cerchio di terra
bruciata…
dai propri veleni?
Già le singole azioni esterne, quando siamo
molto coinvolti in un progetto e nella sua esecuzione, possono dominare
non solo le nostre ore, ma anche le giornate e la stessa vita.
Se alcune perplessità (“Smetto di lavorare o
finisco il lavoro?”) ci impediscono di essere obbedienti al suono della
campanella per il coinvolgimento subito in una singola azione esterna,
pensiamo a quante resistenze si possono sviluppare in noi per
coinvolgimenti durati anni, sviluppati con ingegno, fatica e
professionalità… Quale fatica a prendere le distanze, a perdere
posizioni e opportunità ormai consolidate di operare e diffondere del
bene! Vi sono persone con temperamenti così sensibili e così capaci di
coinvolgimento, per le quali ogni distacco ed ogni nuovo coinvolgimento
è un vero trauma e richiede una virtù quasi eroica. Qualche volta però,
se non proprio spesso, anche se ci diciamo che stiamo agendo per amore
del bene e di Dio, nella realtà dei fatti agiamo piuttosto per amore di
“quel” bene e per il nostro trovarci ormai a nostro agio in quelle
circostanze.
Potremmo, senza neanche rendercene tanto
conto, ridurre o di fatto eliminare le condizioni reali di “obbedienza”.
Sia quelle soggettive:
non coltivando uno spirito di obbedienza, ma abituandoci ad agire “di
testa nostra”, a pensare e decidere abitualmente noi per gli altri,
senza lasciare spazio a nessuno, mal disposti nei confronti di qualsiasi
consiglio, mai disponibili per una collaborazione. Sia quelle
oggettive:
rendendoci facilmente indispensabili ed insostituibili nel luogo dove
siamo e iniziando sempre lavori nuovi.
Fragilità offerta
Vi invito ad un approfondimento
cristiano
del concetto ed ancor più dell’esperienza
del sacrificio, che, ereditato
dall’Antico Testamento ed ancor più dal mondo pagano antico, spesso non
riusciamo a comprendere e a vivere nella sua piena
novità.
Nel nostro cuore e nella nostra mente siamo spesso convinti che il
sacrificio abbia un legame totale e quasi esclusivo con il dolore e la
sofferenza, ma di fatto la Rivelazione, già nell’Antico e ancor più nel
Nuovo Testamento, mette l’accento soprattutto sull’amore e sul
rendimento di grazie, non sul dolore.
La nostra debolezza ci inclina a pensare che
un’azione valga per la sofferenza che comporta, ma questo non
corrisponde al vero. Questo modo di pensare è più un segno dei nostri
sensi di colpa, che ci spingono comunque e confusamente ad una
espiazione, che non di una corretta antropologia e di una adeguata
comprensione della rivelazione. L’amore dà significato alle nostre
azioni, non il dolore che, se c’è, ne può essere solo il segno esterno e
l’ambito, la condizione storica della sua realizzazione.
Del resto le virtù non dovrebbero rendere
piacevoli
le azioni morali buone? Se fossero il dolore
ed il disagio il metro dei nostri meriti non avrebbe senso impegnarsi
nell’acquisizione delle virtù…
Amare in un tempo ed in un mondo segnati dal
peccato comporta certamente del
dolore, che coscientemente
accettato diventa espiazione,
in quanto partecipiamo liberamente al modo in cui Cristo è vissuto. In
lui, noi diventiamo «sacrificio vivente, santo e gradito a Dio» (Rm
12,1) in quanto rendiamo la nostra volontà totalmente arresa, e offriamo
la nostra umanità perché nella storia continui il
segno
dell’incarnazione: un’umanità santificata dallo Spirito del Signore che
si offre, per testimoniare l’amore del Padre, a sostegno di tutti i
sofferenti della terra e a lotta contro tutte le sofferenze umane.
Totalmente «arresi»
La volontà di bene “totalmente arresa”,
consiste in una concentrazione di vita sul mistero diCristo, che a sua
volta comporta un nostro “svuotamento”, una partecipazione alla sua
stessa kénosis
(cf Fil 2,7).
Dio ci dona e ci chiede di rendere la nostra
vita sacramento della sua santità santificante e ci chiama ad una intima
comunione con lui, a costo di ridurre tutta una serie di potenzialità
storico-umane della nostra esistenza, per renderci radicalmente
partecipi, in molti modi, ma come persone pienamente realizzate, della
missione del Figlio. Qual è, in ultima analisi, il contenuto della
missione se non la diffusione dell’intimità con il Padre? Quale
realizzazione più grande per la persona umana che essere con tutta se
stessa, in tutta la sua storia, liberamente, sacramento della presenza
del Verbo incarnato, che ci rivela e ci rende partecipi della sua
intimità con il Padre (cf Gv 1,18).
La nostra volontà, resa dall’obbedienza
“religiosa” pienamente diffusiva del Bene che Lui è, potrà diventare a
sua volta in modo pieno, per grazia e partecipazione, fonte di acqua
viva (cf Gv 7,38-39), sorgente di
storia di
salvezza,
di storia santa perché abitata da sante e da santi, e quindi
santificante la nostra “fragile” e “povera” storia umana, «a lode e
gloria della sua grazia» (Ef 1,6).
Bernardino Prella op
Piazza Pietro d’Illiria, 1 - 00153 Roma