n. 1
gennaio 2010

 

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La via della sofferenza e della con-solazione

di LUCIANO SANDRIN

 

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Sono passati venticinque anni da quando Giovanni Paolo II nella Salvifici doloris (11 febbraio 1984), scriveva che "la Chiesa, che nasce dal mistero della redenzione nella Croce di Cristo, è tenuta a cercare l’incontro con l’uomo in modo particolare sulla via della sua sofferenza" (SD 3). Siamo chiamati a condividere le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini e delle donne d’oggi (Gaudium et spes). Ma è soprattutto nel dolore che, come cristiani, siamo chiamati a rendere credibile la speranza che ci è stata donata attraverso l’amore.1

La sofferenza nella vita

Nel parlare del dolore si rischia di fare discorsi poco rispettosi dell’esperienza di chi lo vive. Chi soffre ci rinfaccia di non poter capire la sua esperienza. Eppure il dolore è esperienza che tutti facciamo, differente ma anche simile e, almeno in parte, comprensibile e condivisibile.

Troppo spesso, invece di cogliere ciò che il dolore ci vuole comunicare, lo addormentiamo con qualche analgesico (un farmaco o una frase fatta, anche religiosa) o lo rimuoviamo distraendo, in vari modi, la nostra attenzione. Il dolore dell’altro entra in risonanza con i nostri presenti o antichi dolori. Per ascoltare la parola di chi soffre e decifrare le sue emozioni, dobbiamo imparare a non far tacere il dolore delle ferite che abitano dentro di noi e accettare i rischi del coinvolgimento e della compassione.

In un rapporto di comunione con chi soffre si diventa particolarmente vulnerabili. Se è importante levarci i sandali in segno di rispetto, ed entrare con attenzione nella terra del mistero, è altrettanto importante accettare, con umiltà, il rischio di una prossimità che può bruciare.2

Un interrogativo rivolto a Dio

Spiegazioni religiose diverse vengono proposte per rispondere al perché del nostro soffrire, cercandone il "senso" in cui Dio è implicato, sottolineandone, di volta in volta, la trascendenza o l’immanenza, l’onnipotenza o la debolezza, il nascondimento o la rivelazione, il silenzio o la parola, l’impassibilità o la compassione, la distanza o l’amore.3

Le parole cristiane sul dolore devono ripartire continuamente da lui, Parola del Padre. E Gesù, sul dolore, è stato molto "discreto". Non l’ha spiegato ma ne ha "narrato" il senso nel suo prendersi cura dei sofferenti che lo cercavano e, soprattutto, nella sua passione e nella sua morte: abbandonandosi obbediente nelle braccia del Padre, credendo al suo amore, contro ogni evidenza, il suo soffrire è diventato luogo di redenzione, di riconciliazione e di profonda guarigione.

Ciascuno si chiede il senso della sofferenza e cerca una risposta a questa domanda. E pone più volte questa domanda a Dio che gli risponde dalla croce, "dal centro della sua propria sofferenza" (SD

26). "Proprio attraverso il fatto che Dio è sceso nella nostra storia di passione, la sofferenza, insieme alla sua mancanza di vie d’uscita, alla sua cupezza e alla sua mancanza di senso, viene collocata nella luce liberatoria della speranza".4 Come Gesù non ha dato una spiegazione alla sofferenza, così neppure l’ha eliminata. L’ha però svuotata della sua assurdità, del suo non-senso. "Nella croce di Cristo non solo si è compiuta la redenzione mediante la sofferenza, ma anche la stessa sofferenza umana è stata redenta" (SD 19).

Nel nostro vivere in Cristo la sofferenza è vinta dall’interno e il suo senso di assurdità viene superato attraversandola insieme con lui, perché di fatto è lui che la vive in noi trasformandola in amore

che redime. "Operando la redenzione mediante la sofferenza, Cristo ha elevato insieme la sofferenza umana a livello di redenzione. Quindi anche ogni uomo, nella sua sofferenza, può diventare partecipe della sofferenza redentiva di Cristo" (SD 19).

Il significato definitivo della sofferenza di Gesù appare, però, in maniera compiuta solo nell’evento della risurrezione, "risposta" ultima del Padre al grido del Figlio, che dà senso e compimento al suo atteggiamento di filiale fiducia e obbedienza nell’amore.

Il Vangelo della sofferenza

Uno specifico Vangelo della sofferenza è stato scritto dal nostro Redentore "con la propria sofferenza assunta per amore" (SD 25) e da Maria santissima, particolarmente con la sua presenza compassionevole ai piedi della croce. Viene continuamente scritto da tutti coloro che soffrono per Cristo e insieme con lui, unendo le proprie sofferenze umane alla sua sofferenza salvifica. In essi "si compie il Vangelo della sofferenza e, al tempo stesso, ognuno di essi continua in un certo modo a scriverlo: lo scrive e lo proclama al mondo, lo annuncia al proprio ambiente e agli uomini contemporanei " (SD 26).

Lo scrivono tutti coloro che riesprimono nella loro vita la compassione del divino samaritano e si fanno prossimo a chi soffre. "Al Vangelo della sofferenza appartiene anche - e in modo organico – la parabola del buon samaritano" (SD 28). "Essa testimonia che la rivelazione da parte di Cristo del senso salvifico della sofferenza non si identifica in alcun modo con un atteggiamento di passività. È tutto il contrario. Il Vangelo è la negazione della passività di fronte alla sofferenza. Cristo stesso in questo campo è soprattutto attivo" (SD 30).

È una parabola che deve entrare nei percorsi educativi. "La famiglia, la scuola, le altre istituzioni educative, anche solo per motivi umanitari, devono lavorare con perseveranza per il risveglio e l’affinamento di quella sensibilità verso il prossimo e la sua sofferenza, di cui è diventata simbolo la figura del samaritano evangelico " (SD 29). Deve far parte, a pieno titolo, della sfida educativa che la Chiesa italiana in questi giorni rilancia.

La con-solazione della speranza

Le varie speranze che ci sostengono nell’esperienza del dolore sono importanti. Ma senza la grande speranza esse non bastano. Solo Dio può soddisfare questa speranza, solo il suo regno la può realizzare. Però il suo regno "non è un aldilà immaginario, posto in un futuro che non arriva mai; il suo regno è presente là dove Egli è amato e dove il suo amore ci raggiunge" (Spes salvi 31). L’amore che realizza la grande speranza che non delude viene anticipato, nella nostra vita, dall’amore che realizza le piccole speranze. Per chi soffre la speranza ha il volto della presenza, della com-passione e della cura.

Il dolore è, soprattutto, esperienza di solitudine e la speranza, variamente declinata, può essere una vera con-solazione, espressione di un "essere-con nella solitudine, che allora non è più solitudine" (Spe salvi 38). Accompagnare chi soffre significa assumere in qualche modo la sua sofferenza, cosicché essa diventa anche nostra. Ma proprio quando diventa sofferenza condivisa, il sofferente non è più solo, è con-solato.

Dio "ci consola in tutte le nostre sofferenze perché possiamo anche noi consolare quelli che soffrono con la consolazione con cui siamo consolati noi stessi da lui" (2Cor 1,4). La consolazione che Dio ci dona, attraverso il suo Spirito d’amore, e che siamo chiamati a scambiarci reciprocamente, ci rende più forti (ci conforta), ci dà il coraggio di resistere nella sofferenza e sostiene la nostra speranza.

Note:

1 Cf L. SANDRIN, Vivere il dolore e la speranza, EDB, Bologna 2009.

2 Cf L. SANDRIN, Abbi cura di te. C’è un tempo per gli altri e un tempo per sé, Camilliane, Torino 2007; L. SANDRIN-N.CALDUCH-BENAGES-F.TORRALBA ROSELLÒ, Aver cura di sé. Per aiutare senza burnout, EDB, Bologna 2009.

3 Cf le riflessioni di Bruno Chenu, in prossimità della morte, nel suo libro: Dio e l’uomo sofferente, Qiqajon, Magnano (BI) 2005.

4 G. GRESHAKE, Perché l’amore di Dio ci lascia soffrire, Queriniana, Brescia 2008, 83.

Luciano Sandrin
Istituto Teologia Pastorale Sanitaria Camillianum
Piazza della Maddalena 53 - 00186 Roma
sand.luc@virgilio.it

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