n. 4
aprile 2010

 

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Perché il Santo in «vetrina»?
Antonio e noi oggi

di UGO SARTORIO

 

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Il Santo senza nome. Il Santo che il mondo ama. Ma anche il Santo che predica nelle piazze, sulle spiagge (la celebre predica ai pesci), dai pulpiti, nelle campagne e nelle città. Il Santo della fede che rinasce e riprende vigore, colui che parla a vicini e lontani e muove il cuore a conversione. Il Santo potente intercessore presso Dio dal quale - giocando di sponda – si ottengono miracoli. Tanti appellativi per un uomo del Medioevo, vissuto solo 36 anni (1195-1231) e di cui storicamente non si conosce molto. A ben guardare il suo e quello di Francesco d’Assisi sono destini incrociati.

Se sant’Antonio è il teologo dotto autore dei Sermoni, opera impegnativa di commento ai Vangeli domenicali e festivi,  nonché l’abile predicatore che per anni ha battuto le contrade del Nord Italia e del Sud della Francia, san Francesco ha sempre un po’ diffidato della cultura e universalmente si è fatto la fama d cantore della semplicità. Quest’ultimo poi è diventato il santo dei convertiti alla radicalità della fede, delle persone colte, dei raffinati dello spirito, dei praticanti la religiosità spoglia ed essenziale, e penne di grandi poeti e letterati si sono misurate con lui.

D’altra parte il dotto Antonio è stato adottato dai poveri, dagli umili, dalla gente semplice, che ha da sempre fiutato la sua sintonia totale col Vangelo. Una curiosità: a diventare dottore della Chiesa (con il titolo di dottore evangelico) sant’Antonio ci ha messo più di 700 anni .La proclamazione è avvenuta il 16 gennaio 1946, ad opera di Pio XII. Meglio tardi che mai.

Santi: se loro sì, perché io no?

Dal 1200 a oggi ne è passata di acqua sotto i ponti. Ma i santi non invecchiano mai. Il loro segreto, infatti, è la giovinezza perenne, che attraversa e sfida i secoli. Non hanno bisogno di maquillage né di altro genere di restauro dell’immagine, perché sono sorgenti inesauribili di grazia e quindi «graziosi», comunicativi, comunque sempre affidabili. Ma chi sono i santi, e perché tanta gente va loro dietro? Ricordo un saggio strepitoso di David Maria Turoldo, Perché a te Antonio?, che riprende la domanda rivolta da frate Masseo a san Francesco (Fioretti 10). Perché tanta euforia, freschezza di sentimenti e apertura del cuore quando si entra in contatto con questi credenti tutti d’un pezzo?

 Per la fede cristiana i santi sono «il commento più importante del Vangelo, l’incarnazione della parola incarnata di Dio» (H. U. von Balthasar), e a loro i credenti guardano come a fratelli maggiori sotto la guida dei quali compiere, su questa terra, il pellegrinaggio della vita e della fede, in unità. «Se loro sì, perché io no?», esclamava nel quarto secolo il già convertito sant’Agostino, sfidando se stesso e i suoi contemporanei a desiderare cose grandi, la santità senza se e senza ma, quella che Giovanni Paolo II ha definito «la misura alta della vita cristiana ordinaria», quindi una meta per tutti. In ogni uomo, infatti, c’è un grande «desiderio di cielo», come testimonia il coro del celebre canto Spiritual: «Oh, quando i santi entreranno marciando [nel tuo regno], Signore, io voglio essere uno di loro…». C’è una casa che ci attende oltre le asperità di questa esistenza, una casa dove i drammi saranno ricomposti e ogni lacrima asciugata. Anche se guardare al cielo non distrae dalla terra, anzi rende ancora più attenti a valorizzare il prezioso dono della vita e della fede, perché i talenti del Signore vanno fatti fruttificare. Insomma, il pellegrinaggio dalla terra al cielo è simbolo centrale della vita cristiana, e chi si fa pellegrino sulle tracce dei santi, delle vestigia di Dio in questo mondo - come è avvenuto per sei giorni, dal 15 al 20 febbraio 2010 nella Basilica di Padova, - vive un’intensa e autentica esperienza di fede.

Reliquie che fanno discutere

Dal 15 febbraio la Basilica del Santo è stata sommersa da un’onda pacifica di pellegrini. Ho negli occhi la fiumana di gente che aspetta in lunghe file ordinate, chi pregando, chi socializzando, chi ammutolito dallo stupore di un’attesa carica di tensione spirituale. Mercoledì 17, inizio della Quaresima ero in piazza già alle cinque del mattino in compagnia di gruppi, coppie, singoli, famiglie. Faceva un freddo terribile, ma i bambini presenti - il più piccolo avrà avuto 7/8 anni - apparivano responsabilizzati dagli adulti circa l’insolita alzataccia e un pellegrinaggio prima dell’alba. È arrivata in basilica una moltitudine da ogni parte d’Italia: un 13 giugno in anticipo. Il popolo di Antonio è fatto di gente dal cuore semplice, di ogni ceto sociale e livello culturale. Gente che ancora oggi cerca un frammento di eternità da portare nel proprio quotidiano. Per far fiorire la vita. 

L’ostensione dei resti mortali (reliquie = ciò che resta) del corpo di un santo, agli uomini del XXI secolo può apparire cosa d’altri tempi. Una sorta di esibizionismo estremo che mette in mostra ossa vecchie di secoli - quasi otto nel caso di sant’Antonio - per una venerazione che anche alcuni cristiani guardano con sospetto. Il presupposto di questi ragionamenti, sia da fuori che da dentro la Chiesa, è che la fede non deve nutrirsi di segni, e che alcuni segni più di altri (le reliquie, in particolare) sono del tutto sconvenienti. Questo modo di pensare, però, dimostra poca o nulla conoscenza della grande tradizione cristiana che ha radici ben piantate nel culto dei martiri (coloro che hanno testimoniato Cristo fino a donare la vita) e, dal IV secolo, dei santi (il primo «confessore» non martire a essere venerato nella liturgia cattolica è san Martino di Tours).

La gente accorre alle loro tombe, si reca in pellegrinaggio nei santuari che ne custodiscono il corpo, perché questi fratelli nella fede sono via sicura che conduce a Dio. Lui hanno servito in vita, e lui continuano a indicare dal cielo facendosi ponte di grazia (e di grazie!) con la terra. La gente lo sa e non si lascia intimidire dalle saccenti discussioni in merito alla pietà popolare: fede di serie B che andrebbe purificata (perché troppo spuria) e fatta crescere (perché ancora infantile). Sono convinto che la pietà dei poveri - non solo di soldi - non è una pietà povera, e se va evangelizzata è anche necessario lasciarsi da essa evangelizzare.

Farsi vedere ed essere visti

Ma veniamo all’ostensione («ostentazione» ha scritto un giornale) del corpo del Santo di Padova, fatta - nessuno lo può negare - in un tempo di «vetrinizzazione sociale». Questa espressione, coniata dal sociologo Vanni Codeluppi, sta a significare che ai nostri giorni molti individui sentono una spinta irrefrenabile a stare in vetrina – quella più luccicante e fruttuosa è naturalmente la Tv - così come le merci, mettendo in mostra e in scena tutto di sé, il proprio corpo, ma ancor più l’intimità della propria sfera privata. È la pseudocultura del reality show, che in parte ha indotto e in parte rispecchia un clima sociale nel quale identità fragili cercano conferma nell’apparire, nell’esserci, nella sovraesposizione mediatica, fino a credersi qualcuno.

Scrive Codeluppi: «Tutto è organizzato e messo in scena per l’occhio della videocamera, che lo registra e lo certifica attribuendogli una patente di “vera realtà”. Una patente particolarmente importante in una esistenza sempre più mediatizzata e artificiale. Probabilmente, il fatto di essere guardati da qualcuno comunica alle persone che la loro vita ha qualcosa di interessante. E chi non ha nulla da mettere in mostra - un corpo, una competenza o un’abilità da ammirare – esibisce la sua sfera più intima. Pur di farsi notare, arriva a vetrinizzare completamente i suoi sentimenti e le sue emozioni» (Tutti divi. Vivere in vetrina, Laterza, Bari 2009, 5). E questo comporta conseguenze perlomeno curiose: mentre un tempo chi era famoso andava in televisione, oggi chi va in televisione diventa famoso. Quindi, per andare e restare in Tv, si è disposti più o meno a tutto.

L’ostensione del corpo Santo, che pure ha avuto una webcam puntata addosso 24 ore su 24 che rimandava le immagini in diretta nel sito ufficiale dell’evento (www.santantonio.org/ostensionedelsanto2010), ci aiuta a capire la differenza tra essere visti e farsi vedere. Nel secondo caso è il soggetto che compie uno sforzo titanico, sostenuto da robuste dosi di narcisismo, per tenere a ogni costo la scena, terrorizzato dalla paura di essere risucchiato e scomparire nel nulla, nel non-essere- visto-da-nessuno. Abbiamo appena detto che per molti nostri contemporanei l’anonimato forzato, il non essere on air, corrisponde alla morte sociale.

Sant’Antonio, e con lui ogni vero testimone della fede di ieri e di oggi, non ha bisogno di mostrarsi per essere visto. Il fatto che sia stato visibile (guardabile in una cassa di vetro) ha rappresentato solo un’occasione in più per incontralo e comunicare con lui. È la gente a cercarlo e a metterlo al centro, e questo da otto secoli, senza tregua.  Le folle accorse a questa ostensione del suo corpo, inoltre, hanno incontrato una figura solida, reale, da interpellare, con la quale dialogare entrando in un rapporto vitale destinato a continuare nel tempo.

«Caro sant’Antonio…»

Nei sei giorni di ostensione decine di migliaia di suppliche sono state depositate in una teca ai piedi della cassa di sant’Antonio. Ne ho lette molte, sia di dolci che di vibranti, sia di semplici che di emotivamente sovraccariche, ma tra tutte una mi ha colpito: «Caro san’Antonio, ti chiedo di essere felice nella mia vita come tu lo sei stato nella tua, grazie, Lina». Questa donna, che ha capito tutto di sant’Antonio, ha capito tutto della fede.

   Ugo Sartorio ofmconv
  Direttore de Il Messaggero di Sant’Antonio
       Via Orto Botanico, 11 – 35123 Padova

 

 

 

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