«Il
Paese deve tornare a crescere, perché questa è la condizione
fondamentale per una giustizia sociale che migliori le condizioni del
nostro Meridione, dei giovani senza garanzie, delle famiglie
monoreddito. [...]. Ciascuno è chiamato in causa in quest’opera d’amore
verso l’Italia: è una responsabilità grave che ricade su tutti».
A
partire da questa esortazione del cardinal Bagnasco, il comitato
scientifico e organizzatore della 46ma Settimana Sociale dei Cattolici
Italiani, svoltasi a Reggio Calabria dal 14 al 17 ottobre 2010, ha preso
le mosse per dedicarsi a quest’opera d’amore verso l’Italia, cercando di
declinare un’agenda di speranza per il futuro del Paese. La ricerca dei
temi e dei problemi da inserire in agenda è avvenuta attraverso un
grande movimento di discernimento collettivo, a cui sono state invitate
tutte le persone di buona volontà.
Il
numero di coloro che hanno partecipato al processo ha superato tutte le
aspettative: segno evidente che molti italiani hanno a cuore il bene
comune. Fin dall’inizio del discernimento alcune prospettive si sono
rivelate cruciali in ordine al riprendere a crescere: educare, includere
le nuove presenze, slegare la mobilità sociale, completare la
transizione istituzionale, intraprendere nel lavoro e nell’impresa. Su
quest’ultima prospettiva ci soffermeremo nella nostra riflessione,
sebbene tutte siano state occasione di ampio dibattito e di ricerca di
soluzioni propositive.
Andare oltre il dovuto
Volutamente il lavoro e l’impresa sono stati messi insieme, perché
lavorare oggi corrisponde sempre meno a cercare un posto di lavoro, e
sempre più a inventare, creare forme nuove di lavoro: il lavoro è dunque
un’impresa. Il lavoro è conseguenza dello sviluppo: un paese che si
sviluppa crea lavoro. Il lavoro è anche parte del processo di sviluppo:
il lavoro, con l’innovazione, la qualità e la creatività, costituiscono
fattori di uno sviluppo che mette la persona al centro.
In
questi termini se ne è parlato durante le assemblee tematiche della
Settimana di Reggio Calabria.
Si è
evidenziata un’esperienza particolare: il Progetto Policoro, che vuole
promuovere il lavoratore-imprenditore. Il Progetto Policoro, nato per
intuizione e volontà di don Mario Operti, per realizzare solidarietà fra
il Nord e il Sud del Paese, vuole essere un’opportunità per le nuove
generazioni al fine di riscoprire con un impegno personale il lavoro, da
imprenditori. Un imprenditore che si fa coinvolgere nell’esperienza
cooperativa, con le risposte e le esigenze del territorio che viene così
valorizzato come da molti auspicato (Carlo Costalli).
Il
lavoro visto come opera di Dio, come vocazione, come impegno per il bene
comune. Sono queste le dimensioni emerse durante la Settimana Sociale.
Inoltre è importante ricordarci che la dimensione di apertura al dono,
alla gratuità, è una caratteristica tipica dell’umano. Potremmo dire che
lavoriamo veramente solo quando ci apriamo a questa dimensione e andiamo
oltre il dovuto, il richiesto. Questa è una caratteristica importante
del lavoro inteso in senso cristiano, come ci ricorda Primo Levi in
un’intervista: «Ad Auschwitz ho notato spesso un fenomeno curioso: il
bisogno del “lavoro ben fatto” è talmente radicato da spingere a far
bene anche il lavoro imposto, schiavistico. Il muratore italiano che mi
ha salvato la vita, portandomi cibo di nascosto per sei mesi, detestava
i nazisti, il loro cibo, la loro lingua, la loro guerra; ma quando lo
mettevano a tirar su muri, li faceva dritti e solidi, non per
obbedienza, ma per dignità».
Tirar su “un muro dritto” per dignità è anche espressione di gratuità,
poiché dice che esiste negli altri, in sé stessi, nella natura, nelle
cose, persino nei “muri”, una verità ed una “vocazione” che va
rispettata e servita, e mai asservita ai nostri interessi. Un lavoro
così inteso è certamente fattore di sviluppo, per la persona e per la
società.
Educare al lavoro
A
questo punto potremmo chiederci come questo discorso interpella le
religiose e i religiosi. In primo luogo ritengo che sia importante, oggi
più che mai, educare al lavoro in tutte le sue dimensioni. Non
dimentichiamo che molti distretti industriali, vanto dello sviluppo
economico italiano, sono nati attorno alle abbazie benedettine, dove i
monaci insegnavano a lavorare e trasmettevano conoscenze, anche in campo
di amministrazione. Forse noi oggi non possiamo ‘trovare’ il lavoro per
i giovani disoccupati e che vivono le mille forme di precariato (l’unica
forma di lavoro sperimentata dall’88% dei giovani italiani). Certamente
possiamo formare lavoratori affidabili, che hanno a cuore non solo il
proprio sviluppo, ma lo sviluppo di tutti in un’ottica di bene comune.
Una
seconda attenzione che il tema del lavoro chiede, in particolare a noi
religiose, è il tema del lavoro femminile. Ritengo, infatti, che
l’apporto della donna all’economia, alla costruzione di una nuova
economia, sia ancora tutto da scoprire.
Innanzitutto occorre ricordare che in un certo senso l’economia è donna:
non solo perché nelle rappresentazioni classiche essa è sempre
rappresentata con immagini femminili, ma soprattutto perché l’oikos
nomos
(da
cui deriva la parola economia) è il governo della casa, e chi nelle
società tradizionali si occupava della gestione della casa erano le
donne. Con la modernità e con la nascita dell’economia politica,
l’economia si è separata dalla casa diventando faccenda di soli uomini.
Se oggi l’economia vuol tornare ad essere in rapporto con l’oikos
(inteso anche e soprattutto come ambiente, come sviluppo sostenibile)
deve rincontrarsi con la donna e con il femminile.
L’apporto della donna all’economia
Cosa
la donna può apportare come ‘di più’ all’economia?
-
Il
rapporto come bene:
alla
donna da sempre è stata riconosciuta la caratteristica di vivere i
rapporti umani non solo strumentalmente, ma come fine in sé. E oggi, in
un momento in cui la domanda di beni relazionali (che da qualche anno
sono riconosciuti come beni economici) è in crescita, l’offerta di tali
beni, in famiglia, nei luoghi di lavoro, nel mercato, è profondamente
legata anche alla donna, e al suo “genio”.
-
La
creatività e l’intuizione:
un’altra dimensione squisitamente femminile è quella della creatività e
dell’intuizione, dimensione fortemente schiacciata e sottovalutata in un
mondo economico in cui hanno valore la logica deduttiva e la razionalità
(in particolare quella strumentale). Essa si è affermata, soprattutto, a
partire dall’Illuminismo, come una forma di conoscenza vera o
“scientifica”. La grande tradizione cristiana e umanistica, invece,
aveva riconosciuto un valore pari, se non superiore, all’intuizione (che
veniva attribuita agli angeli in modo perfetto).
-
La gratuità:
la
cultura della modernità ha cercato di relegare la gratuità nella sfera
privata, espellendola decisamente dalla sfera pubblica. In particolare
l’ha espulsa dalla sfera economica: ad essa bastano i contratti, gli
incentivi, le buone regole e gli interessi. Nella
Caritas in veritate
viene sottolineato che la carità/gratuità «è andata e va incontro» a
svuotamenti di senso e sviamenti «con il rischio di fraintenderla, di
estrometterla […] di impedirne la corretta valutazione» (CV 2). A questo
errore (perché di errore si tratta, come oggi appare anche dalla teoria
economica) è legata la scelta politica ed economica di non considerare
parte dell’economia il lavoro domestico e le trasformazioni dei beni che
avvengono all’interno delle mura domestiche.
-
La flessibilità:
si
manifesta attraverso una gestione creativa delle difficoltà.
Che
le caratteristiche femminili delineate e altre costituiscano una risorsa
per il mercato, lo dimostrano recenti ricerche. Secondo un rapporto
dell’ufficio studi della
Société Générale
sulle società quotate in borsa, si riscontra una correlazione positiva
tra la presenza di donne nei consigli di amministrazione e le
performance
finanziarie.
Per una eccellenza organizzativa
Uno
studio condotto dalla
Business school
dell’Università di Leeds (Gran Bretagna) ha mostrato che la presenza di
almeno una donna con poteri decisionali nel consiglio di amministrazione
riduce del 20% la probabilità che l’azienda sia messa in liquidazione.
Non
solo: uno studio del 2007 rivela che le imprese europee - americane e
asiatiche con il 30% o più nel
team
di management
-
conseguivano mediamente, rispetto a quelle senza rappresentanza
femminile, punteggi più elevati nel parametro “eccellenza
organizzativa”.
Le
ricerche in questo campo stanno diventando abbondanti. Esse suggeriscono
non solo che la chiave dello sviluppo sta in una maggiore presenza delle
donne in posti strategici delle imprese, ma anche che è arrivato il
momento di imparare ad accogliere lo specifico della donna,
complementare e in reciprocità con tutte le potenzialità maschili.
Come
religiose siamo anche chiamate ad individuare strade nuove perché il
lavoro non entri in conflitto con la famiglia: «Per crescere un bambino
ci vuole un intero villaggio», recita un proverbio africano. Se, come
società, impariamo a renderci responsabili della crescita dei nostri
bambini, anche con politiche adeguate, allora la donna non sarà
costretta a scegliere tra il lavoro e la famiglia. Anche questo è
crescere
nel
lavoro.
Alessandra Smerilli fma
Docente di economia politica presso l’Auxilium
Piazza S. Maria Ausiliatrice, 60
00181 Roma