n. 1
gennaio 2011

 

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Ritornare a crescere nel lavoro

di ALESSANDRA SMERILLI

 

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«Il Paese deve tornare a crescere, perché questa è la condizione fondamentale per una giustizia sociale che migliori le condizioni del nostro Meridione, dei giovani senza garanzie, delle famiglie monoreddito. [...]. Ciascuno è chiamato in causa in quest’opera d’amore verso l’Italia: è una responsabilità grave che ricade su tutti».

A partire da questa esortazione del cardinal Bagnasco, il comitato scientifico e organizzatore della 46ma Settimana Sociale dei Cattolici Italiani, svoltasi a Reggio Calabria dal 14 al 17 ottobre 2010, ha preso le mosse per dedicarsi a quest’opera d’amore verso l’Italia, cercando di declinare un’agenda di speranza per il futuro del Paese. La ricerca dei temi e dei problemi da inserire in agenda è avvenuta attraverso un grande movimento di discernimento collettivo, a cui sono state invitate tutte le persone di buona volontà.

Il numero di coloro che hanno partecipato al processo ha superato tutte le aspettative: segno evidente che molti italiani hanno a cuore il bene comune. Fin dall’inizio del discernimento alcune prospettive si sono rivelate cruciali in ordine al riprendere a crescere: educare, includere le nuove presenze, slegare la mobilità sociale, completare la transizione istituzionale, intraprendere nel lavoro e nell’impresa. Su quest’ultima prospettiva ci soffermeremo nella nostra riflessione, sebbene tutte siano state occasione di ampio dibattito e di ricerca di soluzioni propositive.

Andare oltre il dovuto

Volutamente il lavoro e l’impresa sono stati messi insieme, perché lavorare oggi corrisponde sempre meno a cercare un posto di lavoro, e sempre più a inventare, creare forme nuove di lavoro: il lavoro è dunque un’impresa. Il lavoro è conseguenza dello sviluppo: un paese che si sviluppa crea lavoro. Il lavoro è anche parte del processo di sviluppo: il lavoro, con l’innovazione, la qualità e la creatività, costituiscono fattori di uno sviluppo che mette la persona al centro.

In questi termini se ne è parlato durante le assemblee tematiche della Settimana di Reggio Calabria.

Si è evidenziata un’esperienza particolare: il Progetto Policoro, che vuole promuovere il lavoratore-imprenditore. Il Progetto Policoro, nato per intuizione e volontà di don Mario Operti, per realizzare solidarietà fra il Nord e il Sud del Paese, vuole essere un’opportunità per le nuove generazioni al fine di riscoprire con un impegno personale il lavoro, da imprenditori. Un imprenditore che si fa coinvolgere nell’esperienza cooperativa, con le risposte e le esigenze del territorio che viene così valorizzato come da molti auspicato (Carlo Costalli).

Il lavoro visto come opera di Dio, come vocazione, come impegno per il bene comune. Sono queste le dimensioni emerse durante la Settimana Sociale. Inoltre è importante ricordarci che la dimensione di apertura al dono, alla gratuità, è una caratteristica tipica dell’umano. Potremmo dire che lavoriamo veramente solo quando ci apriamo a questa dimensione e andiamo oltre il dovuto, il richiesto. Questa è una caratteristica importante del lavoro inteso in senso cristiano, come ci ricorda Primo Levi in un’intervista: «Ad Auschwitz ho notato spesso un fenomeno curioso: il bisogno del “lavoro ben fatto” è talmente radicato da spingere a far bene anche il lavoro imposto, schiavistico. Il muratore italiano che mi ha salvato la vita, portandomi cibo di nascosto per sei mesi, detestava i nazisti, il loro cibo, la loro lingua, la loro guerra; ma quando lo mettevano a tirar su muri, li faceva dritti e solidi, non per obbedienza, ma per dignità».

Tirar su “un muro dritto” per dignità è anche espressione di gratuità, poiché dice che esiste negli altri, in sé stessi, nella natura, nelle cose, persino nei “muri”, una verità ed una “vocazione” che va rispettata e servita, e mai asservita ai nostri interessi. Un lavoro così inteso è certamente fattore di sviluppo, per la persona e per la società.

Educare al lavoro

A questo punto potremmo chiederci come questo discorso interpella le religiose e i religiosi. In primo luogo ritengo che sia importante, oggi più che mai, educare al lavoro in tutte le sue dimensioni. Non dimentichiamo che molti distretti industriali, vanto dello sviluppo economico italiano, sono nati attorno alle abbazie benedettine, dove i monaci insegnavano a lavorare e trasmettevano conoscenze, anche in campo di amministrazione. Forse noi oggi non possiamo ‘trovare’ il lavoro per i giovani disoccupati e che vivono le mille forme di precariato (l’unica forma di lavoro sperimentata dall’88% dei giovani italiani). Certamente possiamo formare lavoratori affidabili, che hanno a cuore non solo il proprio sviluppo, ma lo sviluppo di tutti in un’ottica di bene comune.

Una seconda attenzione che il tema del lavoro chiede, in particolare a noi religiose, è il tema del lavoro femminile. Ritengo, infatti, che l’apporto della donna all’economia, alla costruzione di una nuova economia, sia ancora tutto da scoprire.

Innanzitutto occorre ricordare che in un certo senso l’economia è donna: non solo perché nelle rappresentazioni classiche essa è sempre rappresentata con immagini femminili, ma soprattutto perché l’oikos nomos (da cui deriva la parola economia) è il governo della casa, e chi nelle società tradizionali si occupava della gestione della casa erano le donne. Con la modernità e con la nascita dell’economia politica, l’economia si è separata dalla casa diventando faccenda di soli uomini. Se oggi l’economia vuol tornare ad essere in rapporto con l’oikos (inteso anche e soprattutto  come ambiente, come sviluppo sostenibile) deve rincontrarsi con la donna e con il femminile.

L’apporto della donna all’economia

Cosa la donna può apportare come ‘di più’ all’economia?

- Il rapporto come bene: alla donna da sempre è stata riconosciuta la caratteristica di vivere i rapporti umani non solo strumentalmente, ma come fine in sé. E oggi, in un momento in cui la domanda di beni relazionali (che da qualche anno sono riconosciuti come beni economici) è in crescita, l’offerta di tali beni, in famiglia, nei luoghi di lavoro, nel mercato, è profondamente legata anche alla donna, e al suo “genio”.

- La creatività e l’intuizione: un’altra dimensione squisitamente femminile è quella della creatività e dell’intuizione, dimensione fortemente schiacciata e sottovalutata in un mondo economico in cui hanno valore la logica deduttiva e la razionalità (in particolare quella strumentale). Essa si è affermata, soprattutto, a partire dall’Illuminismo, come una forma di conoscenza vera o “scientifica”. La grande tradizione cristiana e umanistica, invece, aveva riconosciuto un valore pari, se non superiore, all’intuizione (che veniva attribuita agli angeli in modo perfetto).

- La gratuità: la cultura della modernità ha cercato di relegare la gratuità nella sfera privata, espellendola decisamente dalla sfera pubblica. In particolare l’ha espulsa dalla sfera economica: ad essa bastano i contratti, gli incentivi, le buone regole e gli interessi. Nella Caritas in veritate viene sottolineato che la carità/gratuità «è andata e va incontro» a svuotamenti di senso e sviamenti «con il rischio di fraintenderla, di estrometterla […] di impedirne la corretta valutazione» (CV 2). A questo errore (perché di errore si tratta, come oggi appare anche dalla teoria economica) è legata la scelta politica ed economica di non considerare parte dell’economia il lavoro domestico e le trasformazioni dei beni che avvengono all’interno delle mura domestiche.

- La flessibilità: si manifesta attraverso una gestione creativa delle difficoltà.  

Che le caratteristiche femminili delineate e altre costituiscano una risorsa per il mercato, lo dimostrano recenti ricerche. Secondo un rapporto dell’ufficio studi della Société Générale sulle società quotate in borsa, si riscontra una correlazione positiva tra la presenza di donne nei consigli di amministrazione e le performance finanziarie.

Per una eccellenza organizzativa

Uno studio condotto dalla Business school dell’Università di Leeds (Gran Bretagna) ha mostrato che la presenza di almeno una donna con poteri decisionali nel consiglio di amministrazione riduce del 20% la probabilità che l’azienda sia messa in liquidazione.

Non solo: uno studio del 2007 rivela che le imprese europee - americane e asiatiche con il 30% o più nel team di management - conseguivano mediamente, rispetto a quelle senza rappresentanza femminile, punteggi più elevati nel parametro “eccellenza organizzativa”.

Le ricerche in questo campo stanno diventando abbondanti. Esse suggeriscono non solo che la chiave dello sviluppo sta in una maggiore presenza delle donne in posti strategici delle imprese, ma anche che è arrivato il momento di imparare ad accogliere lo specifico della donna, complementare e in reciprocità con tutte le potenzialità maschili.

Come religiose siamo anche chiamate ad individuare strade nuove perché il lavoro non entri in conflitto con la famiglia: «Per crescere un bambino ci vuole un intero villaggio», recita un proverbio africano. Se, come società, impariamo a renderci responsabili della crescita dei nostri bambini, anche con politiche adeguate, allora la donna non sarà costretta a scegliere tra il lavoro e la famiglia. Anche questo è crescere nel lavoro.

Alessandra Smerilli fma
Docente di economia politica presso l’Auxilium
Piazza S. Maria Ausiliatrice, 60
00181 Roma

 

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