Accanto
alle difficoltà di ordine “strutturale”, che pesano da sempre sulla
questione educativa,
il nostro tempo ne presenta altre, di ordine “congiunturale”, tipiche di
un’epoca di transizione, in cui l’insieme delle trasformazioni che
toccano la cultura e il costume genera un senso di sradicamento che
finisce per accomunare giovani e adulti. Semplificando, potremmo dire
che stiamo sperimentando un capovolgimento nel modo di vivere il tempo,
e quindi il senso della distanza e della prospettiva. Da una stagione in
cui si avvertiva il bisogno di uscire da un mondo piccolo per costruire
una grande storia condivisa, stiamo entrando in una stagione in cui ogni
orizzonte lontano è diventato sin troppo vicino e si avverte il bisogno
opposto di aggrapparsi al presente, lasciandoci allettare dalle sue
seduzioni e dalle sue promesse.
Reciprocità asimmetrica
Entra in crisi in questo modo un fattore fondamentale del rapporto
educativo, basato su una forma di reciprocità asimmetrica. La
reciprocità
indica la natura “bilaterale” e non univoca del rapporto, che non può
essere “a senso unico”, come accade in un’ottica autoritaria. L’asimmetria
indica il dislivello delle posizioni (e quindi dei ruoli), che
presuppone una differenza di ordine funzionale (e non ontologico). Il
vissuto umano vive di un intreccio di relazioni involontarie e
volontarie, asimmetriche e simmetriche, che vanno ben oltre ogni
paradigma contrattualistico. Noi non siamo fatti solo di contatti
simmetrici e negoziabili; il volume relazionale che plasma la nostra
identità scaturisce da una rete di legami del tutto diversi. Non abbiamo
scelto i nostri genitori allo stesso modo e nello stesso tempo in cui
loro ci hanno scelto; non abbiamo scelto la nostra comunità territoriale
o nazionale, né le coordinate storiche, geografiche e culturali che
disegnano lo spazio della nostra esistenza; non abbiamo scelto il nostro
sesso, non abbiamo scelto di nascere.
Nasce da qui il dislivello della relazione educativa, che consiste nel
continuare a dare la vita in un altro modo: dall’atto di generazione,
che si prolunga oltre la sfera biologica, scatuirsce il dovere di
accompagnare e il diritto ad essere accompagnati. In una cultura
pervasivamente assediata dal modello mercantilistico dello scambio,
basato su una totale contrattualizzazione dei rapporti, è
particolarmente difficile accettare una forma di relazione che non sia,
invece, frutto di un atto convenzionale e revocabile tra pari. Non a
caso, il rapporto educativo, soprattutto a livello scolastico, tende
oggi ad essere assimilato a quello, tipicamente economico, che
intercorre tra fornitore e cliente, tra chi vende e chi compra una
merce.
In
realtà, la mia vita non si accende e non si spegne come la lista degli
amici di
Facebook.
Il sogno di poter “cominciare da zero”, in cui si proietta un antico e
pericoloso delirio d’onnipotenza, oggi si presenta in una forma nuova,
che non risponde a un progetto di emancipazione collettiva e di ipoteca
del futuro, come avveniva nelle grandi utopie moderne; si manifesta
piuttosto come una cieca voracità del presente
(Life is now!),
assediata dall’ideologia economicistica della flessibilità, dalla
pressione mediatica del consumismo, dalle lusinghe del vero e proprio
assedio digitale che ci circonda.
Anestesia relazionale
Il
mito dell’autonomia, che nella cultura moderna alimentava intransigenti
progettualità politiche, nell’epoca postmoderna si presenta nella
ricerca, tutta privata, di un affrancamento dal peso della cronologia:
la mia vita può sempre rinascere nel gioco “a geometria variabile” delle
relazioni volontarie.
Proprio come in un
videogame:
quando si perde una partita si può resettare il sistema e ricominciare
da capo. Il tempo della vita è sempre meno percepito come parte di un
flusso irreversibile e condiviso, al quale si dà tradizionalmente il
nome di storia, ed è sempre più sperimentato come un’aggregazione
caotica e incoerente di frammenti autoreferenziali. Non è difficile
leggere in questa deriva, in cui anche l’amore diventa liquido, come ci
ricorda Bauman, il tentativo di rendere solubili tutti i legami:
«L’amore è una rete gettata sull’eternità, il desiderio è uno
stratagemma per risparmiarsi l’onere di tessere la tela».1
In
questa sorta di “anestesia relazionale” l’individuo rinuncia a coagulare
le relazioni in legami stabili e duraturi, accontentandosi di consumarle
nella forma di contatti fugaci e volubili: «Quando si pattina sul
ghiaccio sottile la tua salvezza è essere veloce» (Ralph Waldo Emerson).
Il
passo dalla flessibilità nel lavoro alla flessibilità negli affetti è
breve: la perdita delle radici è compensata dalla promessa di non
soffrire. Immettendo in modo sistematico nelle vene profonde delle
relazioni umane solo solventi anziché collanti,2
l’individuo che rinuncia a legarsi riceve in cambio un potente
anestetico: chi non ama non soffre; la rinuncia al dolore appare –
secondo questo modo di pensare – come l’unica felicità possibile.
Adulti troppo giovani?
Arrivati a questo punto, il lettore potrebbe obiettare che tale analisi
non ci aiuta a differenziare il mondo degli adulti da quello dei
giovani. In realtà, è proprio questo il punto: si sta riducendo tale
differenza, senza la quale il rapporto educativo non diventa un reale
accompagnamento alla crescita. Educare è una voce del verbo crescere,
mentre oggi, dietro la frenesia scintillante delle nostre vite di corsa,
nell’epoca in cui tutto cambia vorticosamente, tutto alla fine sembra
girare a vuoto su stesso.
Il
cambiamento è reale e non illusorio quando s’inserisce dentro una
storia, introduce uno scarto tra un prima e un dopo nel cammino della
vita, sostituisce alla ripetitività del lasciarsi vivere la novità
creativa del vivere. Una novità che non si afferma, però, attraverso un
azzeramento del passato, velleitario e impossibile, ma come risposta a
una vocazione da coltivare, arricchire, liberare, promuovere, in modo
orientato e progressivo.
In
questo senso chi educa deve farsi carico di una sintesi dinamica fra
natura e cultura, e la cultura è precisamente una forma di “coltivazione
spirituale” della natura, che quindi deve saper rispettare e stimolare,
accogliere e orientare il senso della vocazione e i tempi della
crescita. Il “valore aggiunto” rispetto al piano puramente naturale
consiste nella capacità di “restituire” al mondo - in una forma
perfettibile e ininterrotta - più di quanto abbiamo ricevuto. Il corpo e
gli affetti, il lavoro e il tempo libero, l’interiorità e le relazioni,
la trascendenza e la storia: l’ingresso nell’età adulta è segnato dalla
capacità di non dividersi fra queste (e altre) dimensioni del vivere, ma
di unificarle in una sintesi ordinata nel cammino della propria
maturazione.
Il
vero adulto è chi raggiunge una relativa stabilizzazione del proprio
orientamento di vita: la ricerca di un senso non si dissipa,
disperdendosi in tutte le direzioni, ma mette radici profonde che
identificano e plasmano uno stato di vita. Non tutto avviene – è vero –
nel segno dell’autenticità; ci si può anche arrendere alla
routine,
al calcolo interessato, al cinismo senza scrupoli.
Tuttavia è innegabile che un autentico educatore è colui che sa
“rispondere” della propria vocazione: responsabilità e vocazione è il
binomio irrinunciabile della condizione adulta. Un binomio oggi messo in
pericolo da un giovanilismo patetico e irresponsabile, con cui molti
genitori e insegnanti rinunciano ad essere se stessi, illudendosi di
nascondere la loro debole identità con una maschera di gioviale
demagogia.
Epoca di corte vedute
Anche la vita di fede risente di quest’accorciamento di orizzonti,
quando si trasforma in una miscela consolatoria, fatta di raffinati
brividi spirituali, con cui gratificare un’esistenza assetata di
emozioni forti. Il male, il limite, la sofferenza, la morte sono
dimensioni che tendiamo sempre più a nascondere ai nostri ragazzi.
Diciamoci la verità: non abbiamo più nemmeno le parole per annunciare i
novissimi, per alimentare la speranza di cieli nuovi e terra nuova.
Eppure, è proprio alla luce dell’eterno che il tempo acquista valore;
solo l’infinito dilata veramente l’orizzonte del finito. La nostra fede
è autentica, se riesce a testimoniare che la vera salvezza non consiste
nel chiudere gli occhi sulla nostra fragilità, ma nell’aprirli alla
resurrezione.
Quest’apertura è credibile, e non si presenta come un’evasione dinanzi
alle responsabilità della storia, quando sa trasmettere ai più giovani
il contagio dei grandi ideali, delle grandi mete, dei grandi orizzonti.
Ecco dove la questione educativa incontra la sfida più ardua e decisiva:
nella capacità di essere “portatori sani” di un contagio d’infinito.
In
un’epoca di corte vedute, in cui la politica, la cultura e persino la
scuola sembrano accontentarsi semplicemente di decorare il presente, le
promesse degli adulti debbono essere all’altezza delle attese dei
giovani, che scuotono e mettono in discussione la nostra miopia e il
nostro conformismo accomodante e indolore. È proprio il caso di dire con
Kierkegaard: «Ciò di cui il nostro tempo ha bisogno è l'eternità».
1 Z. BAUMAN,
Amore liquido,
Laterza, Roma-Bari 2003, 16.
2 Mi sono soffermato su questo paradosso nel libro
Amare e legarsi. Il paradosso della reciprocità,
Meudon, Portogruaro 2010.
Luigi Alici
Docente all'Università di Macerata
Via
G. Mazzini 11
63024 Grottazzolina (Fermo)