n. 2
febbraio 2011

 

Altri articoli disponibili

English

 

La necessaria metamorfosi dell'adulto

di LUIGI ALICI

 

trasp.gif (814 byte)

trasp.gif (814 byte)

trasp.gif (814 byte)

trasp.gif (814 byte)

Accanto alle difficoltà di ordine “strutturale”, che pesano da sempre sulla questione educativa, il nostro tempo ne presenta altre, di ordine “congiunturale”, tipiche di un’epoca di transizione, in cui l’insieme delle trasformazioni che toccano la cultura e il costume genera un senso di sradicamento che finisce per accomunare giovani e adulti. Semplificando, potremmo dire che stiamo sperimentando un capovolgimento nel modo di vivere il tempo, e quindi il senso della distanza e della prospettiva. Da una stagione in cui si avvertiva il bisogno di uscire da un mondo piccolo per costruire una grande storia condivisa, stiamo entrando in una stagione in cui ogni orizzonte lontano è diventato sin troppo vicino e si avverte il bisogno opposto di aggrapparsi al presente, lasciandoci allettare dalle sue seduzioni e dalle sue promesse.

Reciprocità asimmetrica

Entra in crisi in questo modo un fattore fondamentale del rapporto educativo, basato su una forma di reciprocità asimmetrica. La reciprocità indica la natura “bilaterale” e non univoca del rapporto, che non può essere “a senso unico”, come accade in un’ottica autoritaria. L’asimmetria indica il dislivello delle posizioni (e quindi dei ruoli), che presuppone una differenza di ordine funzionale (e non ontologico). Il vissuto umano vive di un intreccio di relazioni involontarie e volontarie, asimmetriche e simmetriche, che vanno ben oltre ogni paradigma contrattualistico. Noi non siamo fatti solo di contatti simmetrici e negoziabili; il volume relazionale che plasma la nostra identità scaturisce da una rete di legami del tutto diversi. Non abbiamo scelto i nostri genitori allo stesso modo e nello stesso tempo in cui loro ci hanno scelto; non abbiamo scelto la nostra comunità territoriale o nazionale, né le coordinate storiche, geografiche e culturali che disegnano lo spazio della nostra esistenza; non abbiamo scelto il nostro sesso, non abbiamo scelto di nascere.

Nasce da qui il dislivello della relazione educativa, che consiste nel continuare a dare la vita in un altro modo: dall’atto di generazione, che si prolunga oltre la sfera biologica, scatuirsce il dovere di accompagnare e il diritto ad essere accompagnati. In una cultura pervasivamente assediata dal modello mercantilistico dello scambio, basato su una totale contrattualizzazione dei rapporti, è particolarmente difficile accettare una forma di relazione che non sia, invece, frutto di un atto convenzionale e revocabile tra pari. Non a caso, il rapporto educativo, soprattutto a livello scolastico, tende oggi ad essere assimilato a quello, tipicamente economico, che intercorre tra fornitore e cliente, tra chi vende e chi compra una merce.

In realtà, la mia vita non si accende e non si spegne come la lista degli amici di Facebook. Il sogno di poter “cominciare da zero”, in cui si proietta un antico e pericoloso delirio d’onnipotenza, oggi si presenta in una forma nuova, che non risponde a un progetto di emancipazione collettiva e di ipoteca del futuro, come avveniva nelle grandi utopie moderne; si manifesta piuttosto come una cieca voracità del presente (Life is now!), assediata dall’ideologia economicistica della flessibilità, dalla pressione mediatica del consumismo, dalle lusinghe del vero e proprio assedio digitale che ci circonda.

Anestesia relazionale

Il mito dell’autonomia, che nella cultura moderna alimentava intransigenti progettualità politiche, nell’epoca postmoderna si presenta nella ricerca, tutta privata, di un affrancamento dal peso della cronologia: la mia vita può sempre rinascere nel gioco “a geometria variabile” delle relazioni volontarie.

Proprio come in un videogame: quando si perde una partita si può resettare il sistema e ricominciare da capo. Il tempo della vita è sempre meno percepito come parte di un flusso irreversibile e condiviso, al quale si dà tradizionalmente il nome di storia, ed è sempre più sperimentato come un’aggregazione caotica e incoerente di frammenti autoreferenziali. Non è difficile leggere in questa deriva, in cui anche l’amore diventa liquido, come ci ricorda Bauman, il tentativo di rendere solubili tutti i legami: «L’amore è una rete gettata sull’eternità, il desiderio è uno stratagemma per risparmiarsi l’onere di tessere la tela».1

In questa sorta di “anestesia relazionale” l’individuo rinuncia a coagulare le relazioni in legami stabili e duraturi, accontentandosi di consumarle nella forma di contatti fugaci e volubili: «Quando si pattina sul ghiaccio sottile la tua salvezza è essere veloce» (Ralph Waldo Emerson).

Il passo dalla flessibilità nel lavoro alla flessibilità negli affetti è breve: la perdita delle radici è compensata dalla promessa di non soffrire. Immettendo in modo sistematico nelle vene profonde delle relazioni umane solo solventi anziché collanti,2  l’individuo che rinuncia a legarsi riceve in cambio un potente anestetico: chi non ama non soffre; la rinuncia al dolore appare – secondo questo modo di pensare – come l’unica felicità possibile.

Adulti troppo giovani?

Arrivati a questo punto, il lettore potrebbe obiettare che tale analisi non ci aiuta a differenziare il mondo degli adulti da quello dei giovani. In realtà, è proprio questo il punto: si sta riducendo tale differenza, senza la quale il rapporto educativo non diventa un reale accompagnamento alla crescita. Educare è una voce del verbo crescere, mentre oggi, dietro la frenesia scintillante delle nostre vite di corsa, nell’epoca in cui tutto cambia vorticosamente, tutto alla fine sembra girare a vuoto su stesso.

Il cambiamento è reale e non illusorio quando s’inserisce dentro una storia, introduce uno scarto tra un prima e un dopo nel cammino della vita, sostituisce alla ripetitività del lasciarsi vivere la novità creativa del vivere. Una novità che non si afferma, però, attraverso un azzeramento del passato, velleitario e impossibile, ma come risposta a una vocazione da coltivare, arricchire, liberare, promuovere, in modo orientato e progressivo.

In questo senso chi educa deve farsi carico di una sintesi dinamica fra natura e cultura, e la cultura è precisamente una forma di “coltivazione spirituale” della natura, che quindi deve saper rispettare e stimolare, accogliere e orientare il senso della vocazione e i tempi della crescita. Il “valore aggiunto” rispetto al piano puramente naturale consiste nella capacità di “restituire” al mondo - in una forma perfettibile e ininterrotta - più di quanto abbiamo ricevuto. Il corpo e gli affetti, il lavoro e il tempo libero, l’interiorità e le relazioni, la trascendenza e la storia: l’ingresso nell’età adulta è segnato dalla capacità di non dividersi fra queste (e altre) dimensioni del vivere, ma di unificarle in una sintesi ordinata nel cammino della propria maturazione.

Il vero adulto è chi raggiunge una relativa stabilizzazione del proprio orientamento di vita: la ricerca di un senso non si dissipa, disperdendosi in tutte le direzioni, ma mette radici profonde che identificano e plasmano uno stato di vita. Non tutto avviene – è vero – nel segno dell’autenticità; ci si può anche arrendere alla routine, al calcolo interessato, al cinismo senza scrupoli.

Tuttavia è innegabile che un autentico educatore è colui che sa “rispondere” della propria vocazione: responsabilità e vocazione è il binomio irrinunciabile della condizione adulta. Un binomio oggi messo in pericolo da un giovanilismo patetico e irresponsabile, con cui molti genitori e insegnanti rinunciano ad essere se stessi, illudendosi di nascondere la loro debole identità con una maschera di gioviale demagogia.

Epoca di corte vedute

Anche la vita di fede risente di quest’accorciamento di orizzonti, quando si  trasforma in una miscela consolatoria, fatta di raffinati brividi spirituali, con cui gratificare un’esistenza assetata di emozioni forti. Il male, il limite, la sofferenza, la morte sono dimensioni che tendiamo sempre più a nascondere ai nostri ragazzi.

Diciamoci la verità: non abbiamo più nemmeno le parole per annunciare i novissimi, per alimentare la speranza di cieli nuovi e terra nuova. Eppure, è proprio alla luce dell’eterno che il tempo acquista valore; solo l’infinito dilata veramente l’orizzonte del finito. La nostra fede è autentica, se riesce a testimoniare che la vera salvezza non consiste nel chiudere gli occhi sulla nostra fragilità, ma nell’aprirli alla resurrezione.

Quest’apertura è credibile, e non si presenta come un’evasione dinanzi alle responsabilità della storia, quando sa trasmettere ai più giovani il contagio dei grandi ideali, delle grandi mete, dei grandi orizzonti. Ecco dove la questione educativa incontra la sfida più ardua e decisiva: nella capacità di essere “portatori sani” di un contagio d’infinito.

In un’epoca di corte vedute, in cui la politica, la cultura e persino la scuola sembrano accontentarsi semplicemente di decorare il presente, le promesse degli adulti debbono essere all’altezza delle attese dei giovani, che scuotono e mettono in discussione la nostra miopia e il nostro conformismo accomodante e indolore. È proprio il caso di dire con Kierkegaard: «Ciò di cui il nostro tempo ha bisogno è l'eternità».

1 Z. BAUMAN, Amore liquido, Laterza, Roma-Bari 2003, 16.

2 Mi sono soffermato su questo paradosso nel libro Amare e legarsi. Il paradosso della reciprocità, Meudon, Portogruaro 2010.

 

Luigi Alici
Docente all'Università di Macerata
Via G. Mazzini 11
63024 Grottazzolina (Fermo)

 

 

Torna indietro