Ecco,
è accaduto: è realmente accaduto a un bambino portato nel tempio come
tanti, come tutti, di venire riconosciuto come il primo - il
«primogenito sacro al Signore» - di essere identificato come l’unico,
come l’atteso. È realmente accaduto a un vecchio di stringere tra le
braccia la luce del mondo, leggere il Tutto nel frammento di quel
palpito di vita e lasciarsi riempire gli occhi vispi e innocenti da
quello splendore dilagante. È realmente accaduto alla giovanissima madre
di sentirsi percorrere da un brivido nella carne, al lampo di quella
spada che le avrebbe attraversato l’anima: il bambino era destinato a
diventare, sì, un redentore luminoso e potente, ma sarebbe stato pure
contraddetto e brutalmente contestato. Così il mistero gaudioso della
presentazione al tempio diventava di schianto il prologo della serie
straziante dei futuri misteri dolorosi…
Un
gesto, un segno, un dono. Sono i tre vettori di senso dell’evento che il
2 febbraio celebriamo: il gesto è quello dell’offerta, il segno è quello
della luce, il dono è quello dell’incontro. La Presentazione del Signore
è la festa dell’offerta,
la festa della
luce,
la festa dell’incontro.
Dall’offerta all’incontro
Offerta
Il
rito della purificazione della madre, nel racconto di Luca, scorre
rapidamente sullo sfondo, anzi finisce per fare da cornice all’intero
quadro, tutto occupato dall’offerta
del
bambino Gesù: Giuseppe e Maria al quarantesimo giorno dalla nascita
«portarono il bambino a Gerusalemme
per
presentarlo al Signore».
In tutto il racconto evangelico si intrecciano come due livelli, a poli
invertiti: da una parte sono i due genitori che offrono il bambino al
Signore e per il suo riscatto «offrono in sacrificio» una coppia di
tortore o di giovani colombi. Dall’altra parte è Gesù stesso che entra
nel mondo e si offre al Padre per compiere la sua volontà.
La
seconda lettura, tratta dalle lettera agli Ebrei, afferma che Gesù
«doveva rendersi in tutto simile ai fratelli, per diventare un sacerdote
misericordioso e degno di fede nelle cose che riguardano Dio». Ma si
intravede in filigrana uno strato ancora più profondo, contrassegnato
anch’esso dalla “legge dell’inversione”: per un verso è il Figlio di Dio
che si offre al Padre allo scopo di «liberare quelli che, per timore
della morte, sono soggetti a schiavitù per tutta la vita». Per altro
verso è Dio Padre che ci offre il Figlio come luce per rivelarsi alle
genti e come salvezza davanti a tutti i popoli.
Luce
Così
Gesù diventa la
luce
del
mondo. Luce e offerta sono in un rapporto molto stretto tra loro. Gesù è
la luce del mondo, perché ha dato tutto se stesso, si è offerto in
olocausto, si è lasciato consumare totalmente dal fuoco del più puro
amore verso il Padre e verso i fratelli. Con la festa della
Presentazione del Signore noi facciamo ponte tra il Natale e la Pasqua.
A Natale Dio «introduce il primogenito nel mondo» (Eb 1,6). A Pasqua
Cristo si offre al Padre nella morte e il Padre ce lo ridona vivo e
datore di vita, nella risurrezione dai morti. Pertanto la Presentazione
chiude sul Natale e apre sulla Pasqua. In quello che si può a ragione
chiamare il secondo annuncio a Maria, Simeone fa la parte dell’angelo
Gabriele e annuncia alla Madre il sacrificio del Figlio, di cui lei è
chiamata a diventare
partner
obbediente e fedele: «e anche a te una spada trafiggerà l’anima». Figlio
e Madre sono abbracciati in un solo amore, stretti in un solo dolore,
associati in una sola, identica volontà: quella del Padre.
Il
tema della luce è espressivamente significato dal rito delle candele
accese, da cui l’antico nome di Candelora. Il simbolo è suggestivo: la
cera è tutta disponibile alla fiamma, si consuma nel calore e così
diffonde la luce tutto intorno. Si ripropone la dimensione
prefiguratrice della festa odierna. La nostra processione va letta come
una anticipazione della processione della veglia di Pasqua, quando
seguiremo Cristo luce del mondo, simboleggiato dal cero pasquale.
Incontro
La
festa odierna è detta anche
Ipapante,
che significa
incontro.
L’incontro di Gesù con Simeone e Anna appare come il simbolo di un
incontro universale: l’umanità tutta incrocia il suo Salvatore nella
Chiesa. Andiamo processionalmente incontro al Signore con le lampade
accese, e diventiamo noi stessi luce. Gesù ci ricorda: «Voi siete la
luce del mondo», e Paolo ci esorta: «Offrite
voi stessi a Dio,
come vivi, ritornati dai morti» (Rm 6,12). Viviamo come figli della
luce, già risorti a vita nuova. Così si realizza il nostro vero incontro
con Cristo: noi prendiamo da lui “luce da luce” e, mentre con lui ci
offriamo al Padre, portiamo al mondo la luce per illuminare le genti.
«Come la Madre di Dio portò sulle braccia la vera luce e si avvicinò a
coloro che giacevano nelle tenebre, così anche noi, illuminati dal suo
chiarore e stringendo tra le mani la luce che risplende davanti a tutti,
dobbiamo affrettarci verso colui che è la vera luce» (san Sofronio).
Il
codice del dono
In
questo itinerario che scorre dall’offerta all’incontro, i religiosi vi
si rispecchiano, e riconoscono il codice genetico della loro vita, il
codice del dono.
Si impone qui la domanda: com’è che avviene che un giovane o una ragazza
decida di bruciare la vita per il vangelo? La dinamica di una vocazione
religiosa, a livello di discorso riflesso, può essere così articolata.
Conoscere
Innanzitutto viene l’esperienza del
conoscere
e
credere all’Amore (cf 1Gv 4,16), l’esperienza di sentirsi amati. È una
vera rivoluzione copernicana. Si scopre che Dio ci ha dato la vita
unicamente perché ci ama e ci vuole felici, come canta la Scrittura
dalla prima all’ultima delle sue pagine. Se sono al mondo, è perché Dio
mi vuole bene, e me ne vuole infinitamente di più di quanto non me ne
voglia io stesso o qualcun altro. Se vivo è perché il Padre, nel suo
misericordioso disegno d’amore, mi ha “benedetto”: mi ha pensato
singolarmente, mi ha scelto e voluto liberamente e gratuitamente, mi ha
amato e chiamato per nome.
Ma
c’è di più, infinitamente di più. Io sono stato «predestinato a essere
conforme all’immagine del Figlio suo» (cf Rm 8,29). La conseguenza è
folgorante: come me, prima di me e dopo di me, non c’è stata nella
storia della salvezza e non ci sarà mai più un’altra “copiaconforme”
all’originale che è Cristo, uguale a me. Questa è la stella polare che
brilla sull’orizzonte della mia vita: sono stato “programmato” per
riprodurre Cristo in me, e sarò all’altezza della mia originalità unica
e irripetibile nella misura in cui permetto a Cristo di riprodursi, con
un profilo del tutto singolare, in me.
Riconoscere
Dal
“conoscere” l’amore di Dio - è il secondo passaggio – scaturisce il
riconoscere,
nel duplice senso di riconoscimento
di
questo Amore e di riconoscenza
a
questo Amore. Se riconosco con gratitudine di essere stato benedetto da
Dio (benedizione
discendente)
sento a mia volta l’insopprimibile bisogno di benedirlo. Questa
benedizione ascendente
implica un no deciso e un sì ancora più netto e decisivo.
Dico
no
al
pensare illusorio e disperante di essere io il signore del mio io.
Rinuncio a un presunto diritto di proprietà sulla mia vita. Se non ho
fatto domanda di venire alla luce, se non ho pagato alcuna tassa di
ingresso per entrare nel mondo, allora accedere alla benedizione della
vita - questo è il
sì
- è
come entrare nella casa di un amico: con delicatezza e discrezione, con
attenzione e con cura. La benedizione non solo sottrae la mia vita al
mio arbitrio cieco e dispotico, ma la restituisce all’unica signoria
vera, quella di Dio.
Ridonare
Dal
conoscere e riconoscere l’Amore presente nella propria vita si perviene
- è il terzo momento - alla scelta di
ridonare
la
propria vita all’Amore. È la consegna di sé per amore all’Amore. È
l’offerta grata e gratuita della propria esistenza al Dio datore di ogni
bene. Chi a questo punto decidesse di non consegnarsi, sarebbe
fatalmente destinato a diventare un numero senza volto e senza nome,
sempre più triste e solitario, che non si fida di nessuno e non si
affida ad alcuno, finendo per perdere ogni fiducia anche in se stesso e
subire poi il condizionamento di una infinità di paure, pretese e
ricatti.
Chi
invece, come Paolo «il prigioniero del Signore» (Ef 4,1) ha messo
totalmente la propria vita nelle mani di Cristo, si sente di conseguenza
libero da tutti e da tutto: dalla illusione di bastare a se stesso,
dalla presunzione di salvarsi con i propri mezzi, dal bisogno di piacere
agli altri, dalla ricerca spasmodica della propria realizzazione e
gratificazione… È il codice del dono. È la logica della libertà che,
quando nasce dalla verità, diventa fiducia e abbandono, diventa
addirittura libertà di rinunciare a se stessa. Tre sentenze a conferma.
La prima è di Gesù: «Chi perderà la propria vita per causa mia e del
Vangelo, la salverà». La seconda viene dal Concilio: l’uomo «non può
ritrovarsi pienamente se non attraverso un
sincero dono di sé»
(GS 24). La terza è di don Milani: «Chi regala la propria libertà è più
libero di uno che è costretto a tenersela».
La
mistica dell’amore
Così
si arriva all’incontro
dell’anima con Dio. Su questo crinale delicato ed impervio si situa
l’abisso che separa la mistica cristiana da quelle orientali. Le “vie”
orientali offrono per lo più una mistica della fusione con il Tutto. La
mistica cristiana invece è la mistica dell’incontro,
presuppone un cammino verso il totalmente Altro. Le vie orientali sono
sostanzialmente prive dell’amore, perché sono vie nelle quali l’uomo è
alla ricerca di se stesso. La via cristiana è “uscire da sé” per amare
l’Essere Vivente, Padre, Fratello e Sposo. Confondendosi nel Tutto, le
mistiche orientali sono portate a negare l’azione, mentre quella
cristiana incoraggia l’azione, perché è mistica dell’amore. E l’amore
apre a Dio, l’Altro, ma sospinge anche agli altri, a cominciare dai
fratelli più poveri. L’amore di Cristo ci spinge, perché tutti abbiano
la vita.
In
sintesi possiamo dire che vivere la vita come vocazione è vivere la
vocazione alla Vita. Ma forse possiamo esprimere lo stesso messaggio con
parole più calde e più sciolte. Come quelle, luminose e ardenti, di
questa preghiera:
Signore, insegnaci il posto,
che, nel romanzo eterno
iniziato tra te e noi,
occupa la singolare danza
della nostra obbedienza.
Rivelaci la grande orchestra dei tuoi disegni,
nella quale ciò che tu permetti
semina note strane
nella serenità di ciò che tu vuoi.
Facci vivere la nostra vita,
non come un gioco di scacchi
in cui ogni mossa è calcolata,
non come una partita in cui tutto è difficile,
non come un teorema che ci fa rompere la testa,
ma come una festa senza fine,
in cui si rinnovella l’incontro con Te.
Come un ballo,
come una danza,
tra le braccia della tua grazia,
nella musica universale dell’amore.
Madeleine Delbrel
Francesco Lambiasi
Presidente della Commissione Cei
per il clero e la vita consacrata
Via IV Novembre 35 - 47921 Rimini