«La
nuova evangelizzazione esige da consacrati e consacrate
piena consapevolezza del senso teologico delle sfide del nostro tempo.
Queste sfide vanno esaminate con attento e corale discernimento, in
vista del rinnovamento della missione» (VC 81). Le parole di Giovanni
Paolo II possono ancora costituire, per la vita consacrata, un punto di
riferimento, oggi che si torna a parlare con insistenza di «nuova
evangelizzazione ». I compiti che ne risultano sono due: il
discernimento del senso teologico dei nuovi scenari che abbiamo davanti,
e il rinnovamento della missione, che da questa consapevolezza deve
scaturire.
Prospettiva teologica
La
precisazione, relativa al primo aspetto, che la prospettiva in gioco è
teologica, e non meramente sociologica o culturale, mette subito in
guardia dall’illusione che il problema, per quanto concerne il secondo
aspetto, sia solo di un “adattamento” della missione evangelizzatrice
dei religiosi ai linguaggi e agli stili di comportamento del mondo
attuale. Vale anche per i consacrati l’avvertimento secondo cui «pensare
che la nuova evangelizzazione possa realizzarsi con un mero rinnovamento
di forme passate è un’illusione da non coltivare».1
Discernere nei nuovi scenari
Cominciamo, dunque, dal discernimento. Il suo primo frutto è la
constatazione che nel nostro tempo l’evangelizzazione deve «misurarsi
con il fenomeno del distacco dalla fede, che si è progressivamente
manifestato presso società e culture che da secoli apparivano impregnate
dal Vangelo».2
Qualcuno parla di un neo-paganesimo. Magari lo fosse! Perché i “pagani”
guardavano alla nuova religione con grande perplessità, spesso anche con
ostilità, ma in definitiva ne erano colpiti e interessati. Oggi non è
così. I sociologiparlano di una società
post-cristiana:
di una società, cioè, che il cristianesimo non l’ha davanti – sia pure
come una minaccia -, ma alle spalle, già noto, già digerito, superato.
La reazione tipica che allontana gli uomini e le donne delle nostre
società
post-cristiane
non
è lo scandalo, ma l’indifferenza. Una indifferenza che sottilmente
pervade anche i credenti, quelli che in chiesa ci vanno, ma si annoiano.
Il
Dio di Gesù Cristo, che a volte in passato era combattuto, ora sembra
diventato superfluo, o almeno facoltativo, nella logica delle preferenze
soggettive che caratterizzano la società consumistica. Non che il mondo
abbia raggiunto la perfetta autonomia che era stata profetizzata dai
grandi ideologi del progresso o della rivoluzione: mai come oggi i sogni
degli uni e degli altri appaiono illusori; mai come oggi gli esseri
umani scoprono nella loro costitutiva fragilità un limite insuperabile.
La loro tentazione non è di assolutizzare se stessi, come in altri
tempi, ma di fare a meno di un qualsiasi assoluto che dia senso alla
vita.
Il
volto più nascosto di Dio
Eppure, proprio in questa apparente assenza - determinata dalla «perdita
del sacro» in società che ne avevano fatto il tessuto della propria vita
quotidiana - è possibile che il Dio di Gesù Cristo riveli il suo volto
più nascosto. A fronte della sua trionfante potenza di un tempo, ora
egli è presente nella sua debolezza.
Questa prospettiva ha un riscontro nel pensiero post-moderno.
Recuperando un’antica concezione ebraica, presente nella tradizione
della Qabbalah, un pensatore ebreo contemporaneo, Hans Jonas, ha
sostenuto che, «affinché il mondo fosse e fosse per se stesso, Dio deve
aver rinunciato al proprio essere; deve essersi spogliato della propria
divinità, per riaverla di nuovo nell’odissea del tempo, gravata di
quanto ha mietuto e raccolto a caso, nell’esperienza non prevedibile del
divenire: trasfigurata o, anche sfigurata».3
Ma,
al di là delle letture filosofiche che possono esserne date, la
kenosi
del
Figlio di Dio - di cui parla esplicitamente la lettera ai Filippesi, ma
che è ampiamente espressa nei successivi racconti evangelici - si trova
sicuramente al cuore del messaggio cristiano. Non c’è risurrezione che
possa prescindere da questo svuotamento, da questa manifestazione di
impotenza. È nella sua passione e morte che Cristo ci salva. «Là, nel
mistero dei tre giorni, bisognerà cercarlo [...]. Cercarlo là dove non
è: nei peccatori, nei lontani da Dio, nella solidarietà con i nemici,
con i perduti, dove egli si fa riconoscere al terzo giorno». Perciò
«quanto più un “trovare” è cristiano, tanto più è una spoliazione [...].
Davanti a Dio non c'è volontà di possesso, perché lui stesso non vuole
possedere. Anzi dona il Figlio suo a tutti, irrevocabilmente. Solo così
può averlo. Non si può essere ricchi in Dio se non si vuole partecipare
alla povertà divina».4
Ne
deriva una nuova prospettiva per la vita e la missione evangelizzatrice
del cristiano. Non si tratta certo di «vivere nel mondo come se non ci
fosse alcun Dio», secondo la formula radicale di Bonhoeffer. Ma bisogna
superare il dualismo tra sacro e profano e imparare a scoprire la
presenza di Cristo nella sua apparente assenza, «là dove non è», nel
cuore di una umanità crocifissa che egli ha voluto assumere senza
riserve.
Antropologia dei consigli evangelici
Proviamo a tradurre queste considerazioni in rapporto alla missione
della vita religiosa, tenendo presente quanto Giovanni Paolo II diceva,
sottolineando «il
profondo significato antropologico»
dei consigli evangelici: «La scelta di questi consigli, infatti, ben
lungi dal costituire un impoverimento di valori autenticamente umani, si
propone piuttosto come una loro trasfigurazione» (VC 87). Sulle orme del
loro Maestro, il consacrato e la consacrata assumono l’umano in tutto il
suo spessore, ma per risanarlo dalla sue ferite e restituirlo al suo
originario rapporto di somiglianza con Dio. «Così coloro che seguono i
consigli evangelici, mentre cercano la santità per se stessi,
propongono, per così dire, una “terapia spirituale” per l’umanità» (VC
87).
Povertà consacrata
Così, per quanto riguarda la povertà, il riferimento all’«impoverimento
» del Dio di Gesù Cristo dovrebbe forse farci riflettere più
profondamente su ciò che essa comporta, rispetto ai secoli passati. In
essi l’appartenenza a un ordine religioso garantiva in realtà una
sicurezza economica immensamente superiore a quella dei veri poveri e in
cui la prosperità - talora anche la potenza e il prestigio - dell’Ordine
stesso faceva da contraltare allo spogliamento da parte dei singoli.
Ancora più radicalmente, il fatto che Dio oggi sia silenziosamente
vicino all’uomo e alla donna proprio mentre sperimentano la loro
vulnerabilità, senza la rete protettiva costituita da un’immagine dello
stesso Dio che spesso ne faceva un «tappabuchi» (Bonhoeffer), chiede al
religioso e alla religiosa di assumere la povertà in un senso più
profondo di quello meramente economico, come icona esistenziale della
condizione umana di fronte alla maestà della vita. In quest’ottica, ha
scritto Heidegger, «l’uomo non è il padrone dell’ente. L’uomo è il
pastore dell’essere». Ciò che gli compete è «l’essenziale povertà del
pastore, la cui dignità consiste nell’esser chiamato dall’essere stesso
a custodia della sua verità».5 Nessuno più
del religioso e della religiosa, con le loro mani vuote e il loro cuore
proteso al dono, incarna questa grandezza al tempo stesso divina e
umana. E questo può rendere presente Dio nella società
post-cristiana,
molto più delle immense e potenti abbazie del passato.
Verginità consacrata
Quanto alla
verginità consacrata,
votata all’agape,
all’amore di dono, essa può apparire drammaticamente inattuale in una
società che ha fatto dell’eros,
dell’amore di desiderio, ridotto alla sua dimensione sessuale, la
propria bandiera. Tuttavia, come ha notato Benedetto XVI in una pagina
mirabile: «Se si volesse portare all'estremo questa antitesi, l'essenza
del cristianesimo risulterebbe disarticolata dalle fondamentali
relazioni vitali dell'esistere umano e costituirebbe un mondo a sé, da
ritenere forse ammirevole, ma decisamente tagliato fuori dal complesso
dell'esistenza umana. In realtà
eros
e
agape
-
amore ascendente e amore discendente - non si lasciano mai separare
completamente l'uno dall'altro. Quanto più ambedue, pur in dimensioni
diverse, trovano la giusta unità nell'unica realtà dell'amore, tanto più
si realizza la vera natura dell'amore in genere. Anche se l'eros
inizialmente è soprattutto bramoso, ascendente - fascinazione per la
grande promessa di felicità - nell'avvicinarsi poi all'altro si porrà
sempre meno domande su di sé, cercherà sempre di più la felicità
dell'altro, si preoccuperà sempre di più di lui, si donerà» (Deus
caritas est
7).
Ciò,
da un lato, comporta una profonda revisione del nostro modo di concepire
l’eros,
che lo inserisca, già nella sua valenza sessuale, nella complessa unità
della persona - «spirito, psiche e corpo» (1Ts 5,23) -, e ne valorizzi
in tutta la sua ampiezza il dinamismo, che va ben al di là della sfera
fisica. Ma comporta, dall’altro, anche un recupero, nella vita
religiosa, della dimensione affettiva e passionale, alla scuola del
Cantico dei cantici.
Quello del consacrato è un vero
eros,
ben più ardente e personale di quello che «degradato a puro “sesso”
diventa merce, una semplice “cosa”» (Deus
caritas est
5).
Un’offerta di se stessi a Dio così gravida di passionalità può apparire
meno “spirituale”, ma in realtà è più completa che nelle forme di vita
religiosa del passato, dove a volte si credeva di custodire meglio la
verginità reprimendo la propria sfera affettiva.
Obbedienza consacrata
Infine, l’obbedienza consacrata, nella sua dialettica con l’autorità,
può ricordare che quest’ultima non va confusa col potere, perché si
rivolge all’altro come a un soggetto da interpellare - piuttosto che
come a un oggetto di cui disporre -, tanto da aver bisogno dell’atto
supremamente libero del riconoscimento e dell’obbedienza da parte sua.
Per affidarsi alla volontà del superiore bisogna essere forti
personalità, capaci di offrire a Dio la propria autonomia (libertà
da)
e di esercitare volta per volta la libertà di scegliere (libertà
di),
per realizzare quella più alta forma di libertà che è la donazione piena
di se stessi (libertà
per).
In
quest’ottica san Benedetto esortava i suoi monaci a impugnare «le
fortissime e valorose armi dell'obbedienza ». «In modo che» - scrive il
padre del monachesimo occidentale, rivolgendosi a colui che intraprende
la via dei consigli - «tu possa tornare attraverso la solerzia
dell'obbedienza a Colui dal quale ti sei allontanato per l'ignavia della
disobbedienza ».6 In questo capovolgimento
dei criteri oggi dominanti l’obbedienza diventa una cifra fondamentale
di quella presenza di Dio che si nasconde, al punto da apparire assenza,
ma che proprio la vita consacrata può manifestare con la sua silenziosa
testimonianza, diventando così una via della “nuova evangelizzazione”.
1 R. FISICHELLA,
La
nuova evangelizzazione. Una sfida per uscire dall’indifferenza,
Mondadori, Milano 2011, 53.
2 BENEDETTOXVI,
Ubicumque et semper.Lettera
apostolica istitutiva del Pontificio Consiglio per la Promozione della
Nuova Evangelizzazione, del 21 settembre 2010.
3 H. JONAS,
Il
concetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce ebraica,
Il
Melangolo, Genova 1997, 24.
4 H. U. VON BALTHASAR,
Il
rosario. La salvezza del mondo nella preghiera mariana,
Jaca
Book, Milano 1978, 39-41.
5 M. HEIDEGGER,
Lettera sull’umanismo,
in
Segnavia,
a cura di F.-W. von Herrmann, Adelphi, Milano 1987, 295.
6 S. BENEDETTO,
Regola,
Prologo.
Giuseppe Savagnone
Direttore del Centro diocesano
per la pastorale della cultura