n. 2
febbraio 2012

 

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Nuovi scenari e nuova profezia

GIUSEPPE SAVAGNONE

 

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«La nuova evangelizzazione esige da consacrati e consacrate piena consapevolezza del senso teologico delle sfide del nostro tempo. Queste sfide vanno esaminate con attento e corale discernimento, in vista del rinnovamento della missione» (VC 81). Le parole di Giovanni Paolo II possono ancora costituire, per la vita consacrata, un punto di riferimento, oggi che si torna a parlare con insistenza di «nuova evangelizzazione ». I compiti che ne risultano sono due: il discernimento del senso teologico dei nuovi scenari che abbiamo davanti, e il rinnovamento della missione, che da questa consapevolezza deve scaturire.

Prospettiva teologica

La precisazione, relativa al primo aspetto, che la prospettiva in gioco è teologica, e non meramente sociologica o culturale, mette subito in guardia dall’illusione che il problema, per quanto concerne il secondo aspetto, sia solo di un “adattamento” della missione evangelizzatrice dei religiosi ai linguaggi e agli stili di comportamento del mondo attuale. Vale anche per i consacrati l’avvertimento secondo cui «pensare che la nuova evangelizzazione possa realizzarsi con un mero rinnovamento di forme passate è un’illusione da non coltivare».1

Discernere nei nuovi scenari

Cominciamo, dunque, dal discernimento. Il suo primo frutto è la constatazione che nel nostro tempo l’evangelizzazione deve «misurarsi con il fenomeno del distacco dalla fede, che si è progressivamente manifestato presso società e culture che da secoli apparivano impregnate dal Vangelo».2

Qualcuno parla di un neo-paganesimo. Magari lo fosse! Perché i “pagani” guardavano alla nuova religione con grande perplessità, spesso anche con ostilità, ma in definitiva ne erano colpiti e interessati. Oggi non è così. I sociologiparlano di una società post-cristiana: di una società, cioè, che il cristianesimo non l’ha davanti – sia pure come una minaccia -, ma alle spalle, già noto, già digerito, superato. La reazione tipica che allontana gli uomini e le donne delle nostre società post-cristiane non è lo scandalo, ma l’indifferenza. Una indifferenza che sottilmente pervade anche i credenti, quelli che in chiesa ci vanno, ma si annoiano.

Il Dio di Gesù Cristo, che a volte in passato era combattuto, ora sembra diventato superfluo, o almeno facoltativo, nella logica delle preferenze soggettive che caratterizzano la società consumistica. Non che il mondo abbia raggiunto la perfetta autonomia che era stata profetizzata dai grandi ideologi del progresso o della rivoluzione: mai come oggi i sogni degli uni e degli altri appaiono illusori; mai come oggi gli esseri umani scoprono nella loro costitutiva fragilità un limite insuperabile. La loro tentazione non è di assolutizzare se stessi, come in altri tempi, ma di fare a meno di un qualsiasi assoluto che dia senso alla vita.

Il volto più nascosto di Dio

Eppure, proprio in questa apparente assenza - determinata dalla «perdita del sacro» in società che ne avevano fatto il tessuto della propria vita quotidiana - è possibile che il Dio di Gesù Cristo riveli il suo volto più nascosto. A fronte della sua trionfante potenza di un tempo, ora egli è presente nella sua debolezza.

Questa prospettiva ha un riscontro nel pensiero post-moderno. Recuperando un’antica concezione ebraica, presente nella tradizione della Qabbalah, un pensatore ebreo contemporaneo, Hans Jonas, ha sostenuto che, «affinché il mondo fosse e fosse per se stesso, Dio deve aver rinunciato al proprio essere; deve essersi spogliato della propria divinità, per riaverla di nuovo nell’odissea del tempo, gravata di quanto ha mietuto e raccolto a caso, nell’esperienza non prevedibile del divenire: trasfigurata o, anche sfigurata».3

Ma, al di là delle letture filosofiche che possono esserne date, la kenosi del Figlio di Dio - di cui parla esplicitamente la lettera ai Filippesi, ma che è ampiamente espressa nei successivi racconti evangelici - si trova sicuramente al cuore del messaggio cristiano. Non c’è risurrezione che possa prescindere da questo svuotamento, da questa manifestazione di impotenza. È nella sua passione e morte che Cristo ci salva. «Là, nel mistero dei tre giorni, bisognerà cercarlo [...]. Cercarlo là dove non è: nei peccatori, nei lontani da Dio, nella solidarietà con i nemici, con i perduti, dove egli si fa riconoscere al terzo giorno». Perciò «quanto più un “trovare” è cristiano, tanto più è una spoliazione [...]. Davanti a Dio non c'è volontà di possesso, perché lui stesso non vuole possedere. Anzi dona il Figlio suo a tutti, irrevocabilmente. Solo così può averlo. Non si può essere ricchi in Dio se non si vuole partecipare alla povertà divina».4

Ne deriva una nuova prospettiva per la vita e la missione evangelizzatrice del cristiano. Non si tratta certo di «vivere nel mondo come se non ci fosse alcun Dio», secondo la formula radicale di Bonhoeffer. Ma bisogna superare il dualismo tra sacro e profano e imparare a scoprire la presenza di Cristo nella sua apparente assenza, «là dove non è», nel cuore di una umanità crocifissa che egli ha voluto assumere senza riserve.

Antropologia dei consigli evangelici

Proviamo a tradurre queste considerazioni in rapporto alla missione della vita religiosa, tenendo presente quanto Giovanni Paolo II diceva, sottolineando «il profondo significato antropologico» dei consigli evangelici: «La scelta di questi consigli, infatti, ben lungi dal costituire un impoverimento di valori autenticamente umani, si propone piuttosto come una loro trasfigurazione» (VC 87). Sulle orme del loro Maestro, il consacrato e la consacrata assumono l’umano in tutto il suo spessore, ma per risanarlo dalla sue ferite e restituirlo al suo originario rapporto di somiglianza con Dio. «Così coloro che seguono i consigli evangelici, mentre cercano la santità per se stessi, propongono, per così dire, una “terapia spirituale” per l’umanità» (VC 87).

Povertà consacrata

Così, per quanto riguarda la povertà, il riferimento all’«impoverimento » del Dio di Gesù Cristo dovrebbe forse farci riflettere più profondamente su ciò che essa comporta, rispetto ai secoli passati. In essi l’appartenenza a un ordine religioso garantiva in realtà una sicurezza economica immensamente superiore a quella dei veri poveri e in cui la prosperità - talora anche la potenza e il prestigio - dell’Ordine stesso faceva da contraltare allo spogliamento da parte dei singoli.

Ancora più radicalmente, il fatto che Dio oggi sia silenziosamente vicino all’uomo e alla donna proprio mentre sperimentano la loro vulnerabilità, senza la rete protettiva costituita da un’immagine dello stesso Dio che spesso ne faceva un «tappabuchi» (Bonhoeffer), chiede al religioso e alla religiosa di assumere la povertà in un senso più profondo di quello meramente economico, come icona esistenziale della condizione umana di fronte alla maestà della vita. In quest’ottica, ha scritto Heidegger, «l’uomo non è il padrone dell’ente. L’uomo è il pastore dell’essere». Ciò che gli compete è «l’essenziale povertà del pastore, la cui dignità consiste nell’esser chiamato dall’essere stesso a custodia della sua verità».5 Nessuno più del religioso e della religiosa, con le loro mani vuote e il loro cuore proteso al dono, incarna questa grandezza al tempo stesso divina e umana. E questo può rendere presente Dio nella società post-cristiana, molto più delle immense e potenti abbazie del passato.

Verginità consacrata

Quanto alla verginità consacrata, votata all’agape, all’amore di dono, essa può apparire drammaticamente inattuale in una società che ha fatto dell’eros, dell’amore di desiderio, ridotto alla sua dimensione sessuale, la propria bandiera. Tuttavia, come ha notato Benedetto XVI in una pagina mirabile: «Se si volesse portare all'estremo questa antitesi, l'essenza del cristianesimo risulterebbe disarticolata dalle fondamentali relazioni vitali dell'esistere umano e costituirebbe un mondo a sé, da ritenere forse ammirevole, ma decisamente tagliato fuori dal complesso dell'esistenza umana. In realtà eros e agape - amore ascendente e amore discendente - non si lasciano mai separare completamente l'uno dall'altro. Quanto più ambedue, pur in dimensioni diverse, trovano la giusta unità nell'unica realtà dell'amore, tanto più si realizza la vera natura dell'amore in genere. Anche se l'eros inizialmente è soprattutto bramoso, ascendente - fascinazione per la grande promessa di felicità - nell'avvicinarsi poi all'altro si porrà sempre meno domande su di sé, cercherà sempre di più la felicità dell'altro, si preoccuperà sempre di più di lui, si donerà» (Deus caritas est 7).

Ciò, da un lato, comporta una profonda revisione del nostro modo di concepire l’eros, che lo inserisca, già nella sua valenza sessuale, nella complessa unità della persona - «spirito, psiche e corpo» (1Ts 5,23) -, e ne valorizzi in tutta la sua ampiezza il dinamismo, che va ben al di là della sfera fisica. Ma comporta, dall’altro, anche un recupero, nella vita religiosa, della dimensione affettiva e passionale, alla scuola del Cantico dei cantici. Quello del consacrato è un vero eros, ben più ardente e personale di quello che «degradato a puro “sesso” diventa merce, una semplice “cosa”» (Deus caritas est 5).

Un’offerta di se stessi a Dio così gravida di passionalità può apparire meno “spirituale”, ma in realtà è più completa che nelle forme di vita religiosa del passato, dove a volte si credeva di custodire meglio la verginità reprimendo la propria sfera affettiva.

Obbedienza consacrata

Infine, l’obbedienza consacrata, nella sua dialettica con l’autorità, può ricordare che quest’ultima non va confusa col potere, perché si rivolge all’altro come a un soggetto da interpellare - piuttosto che come a un oggetto di cui disporre -, tanto da aver bisogno dell’atto supremamente libero del riconoscimento e dell’obbedienza da parte sua. Per affidarsi alla volontà del superiore bisogna essere forti personalità, capaci di offrire a Dio la propria autonomia (libertà da) e di esercitare volta per volta la libertà di scegliere (libertà di), per realizzare quella più alta forma di libertà che è la donazione piena di se stessi (libertà per).

In quest’ottica san Benedetto esortava i suoi monaci a impugnare «le fortissime e valorose armi dell'obbedienza ». «In modo che» - scrive il padre del monachesimo occidentale, rivolgendosi a colui che intraprende la via dei consigli - «tu possa tornare attraverso la solerzia dell'obbedienza a Colui dal quale ti sei allontanato per l'ignavia della disobbedienza ».6 In questo capovolgimento dei criteri oggi dominanti l’obbedienza diventa una cifra fondamentale di quella presenza di Dio che si nasconde, al punto da apparire assenza, ma che proprio la vita consacrata può manifestare con la sua silenziosa testimonianza, diventando così una via della “nuova evangelizzazione”.

1 R. FISICHELLA, La nuova evangelizzazione. Una sfida per uscire dall’indifferenza, Mondadori, Milano 2011, 53.

2 BENEDETTOXVI, Ubicumque et semper.Lettera apostolica istitutiva del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, del 21 settembre 2010.

3 H. JONAS, Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce ebraica, Il Melangolo, Genova 1997, 24.

4 H. U. VON BALTHASAR, Il rosario. La salvezza del mondo nella preghiera mariana, Jaca Book, Milano 1978, 39-41.

5 M. HEIDEGGER, Lettera sull’umanismo, in Segnavia, a cura di F.-W. von Herrmann, Adelphi, Milano 1987, 295.

6 S. BENEDETTO, Regola, Prologo.

 

Giuseppe Savagnone
Direttore del Centro diocesano
per la pastorale della cultura

 

 

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