n. 3
maggio/giugno2013

 

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«Guardate alla roccia da cui siete stati tagliati»

MARIA KO HA FONG

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In un momento di depressione e di smarrimento del popolo d’Israele, il profeta Isaia lancia con fierezza questo invito: «Guardate alla roccia da cui siete stati tagliati, alla cava da cui siete stati estratti. Guardate ad Abramo, vostro padre, …» (Is 51,1-2). Il padre Abramo è garanzia di buona qualità, è prova della «radice santa » (cf Rm 11,16), è segno di speranza per il futuro, è motivo di fiducia e di coraggio.

Nell’Anno della fede accogliamo l’invito del profeta e guardiamo a questa roccia da cui anche noi cristiani siamo stati tagliati. Fissiamo lo sguardo a questo «nostro padre nella fede» (Rm 4,12) vissuto quattromila anni fa. Molto si è detto della fede

esemplare di Abramo. Paolo ne ha parlato con grande ammirazione (cf Rm 4,3.11.18; Gal 3,6-9), l’autore della Lettera agli Ebrei, nel solenne elogio della fede degli antenati, insiste particolarmente sulla fede di Abramo (Eb 11,8.17). Il Catechismo della Chiesa Cattolica lo vede modello per eccellenza: obbediente nella fede (nn. 143-147). Noi qui, rileggendo le pagine bibliche su Abramo, piuttosto che

sottolineare la sua risposta di fede, focalizziamo l’attenzione su come Dio, in modo mirabile, suscita la fede in questo nostro grande «padre di tutti i credenti».

L’amore sovrabbonda sul peccato

Nella Genesi la storia di Abramo è situata su uno sfondo cupo. Il racconto della vocazione (Gen 12) segue immediatamente quello della costruzione della torre di Babele (Gen 11), che segna il punto culmine del susseguirsi di peccati. Nonostante il grande amore di Dio, l’uomo gli volta le spalle e si allontana da lui. Attraverso una serie di eventi il male cresce e dilaga fino a delinearsi in dimensione universale.

Dal peccato di Adamo ed Eva al fratricidio di Caino, alla violenza di Lamech, alla malvagità irrefrenabile della generazione di Noè e all’orgoglio sfacciato dei costruttori della torre di Babele, gli anelli della catena del male s’infittiscono e diventano sempre più robusti.

L’amore di Dio però è più forte del peccato. Egli, giusto e misericordioso, pur castigando, ha dei gesti di tenerezza sorprendente: le tuniche di pelli con cui riveste Adamo e Eva (Gen 3,21), il segno di protezione imposto a Caino (Gen 4,15), l’arca di Noè (Gen 6,14ss) e l’arcobaleno (Gen 9,12-17). Sono tutte espressioni di un amore sorprendente e sovrabbondante, garanzie sicure che il creato può ancora avere un futuro bello, testimonianze incontestabili che tra delitto e castigo non c’è pura e semplice simmetria. Paolo dirà: «Dove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia» (Rm 5,20).

Il Dio che ha creato la terra bella e buona e l’ha resa feconda per l’uomo non desiste dal suo progetto originario, nonostante la risposta «negativa dell’uomo al suo amore gratuito. Egli vuole ancora assicurare all’umanità felicità, dignità e libertà su questa terra. Egli è ancora amante della vita, ha ancora fiducia nell’uomo e nella sua potenzialità di bene. Per questo riprende il suo piano in termini nuovi con l’elezione di Abramo.

Con la costruzione della torre di Babele sembra che la rottura tra uomo e Dio e la perdita di unità dell’umanità siano ormai definitive, ma non è questa la fine della storia. Fra i gruppi dispersi c’è il clan di Terach, da cui Dio chiamerà Abramo come colui nel quale saranno benedette tutte le genti (Gen 12,3). Tra il racconto della torre di Babele e quello della chiamata di Abramo ci sono degli elementi in chiara contrapposizione. Gli uomini prendono l’iniziativa dicendo l’un l’altro: «Venite, facciamo mattoni...»; «Venite, costruiamo una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo» (Gen 11,3), mentre Dio dice ad Abramo: «Vattene ... verso il paese che io ti indicherò» (Gen 12,1). Il motivo della costruzione della torre è: «Facciamoci un nome per non disperderci su tutta la terra» (Gen 11,3); quello che Dio presenta ad Abramo invece è: «Renderò grande il tuo nome, ... in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra» (Gen 12,2-3). La conclusione dell’episodio di Babele è: «Il Signore disperse gli uomini su tutta la terra» (Gen 11,9), al contrario, quello della chiamata di Abramo: «In te si diranno benedette tutte le famiglie della terra» (Gen 12,3).

La promessa eccede i desideri

Il Signore disse ad Abramo: «Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò» (Gen 12,1). Il Signore si presenta senza tanti preamboli, così farà anche con Mosè, con Samuele, con Isaia, Geremia e tanti altri personaggi biblici. Egli non si impone con il suo essere Creatore e Signore potente, ma si fa percepire come una presenza misteriosa, una forza attraente, un’apertura affascinante, una sfida che risveglia le energie, le  risorse e gli aneliti dentro l’uomo. Egli incontra l’uomo nel momento esatto in cui l’uomo si sforza di essere uomo, cioè quando coltiva dentro di sé ideali autentici e lotta per realizzarli.

Abramo parte. Questa risposta all’invito di Dio non lo trasforma automaticamente in un uomo santo; semplicemente la sua vita assume un nuovo spessore, un nuovo senso, una nuova determinazione e s’impregna di una nuova presenza. Da nomade vagante nel mondo egli diventa cittadino della terra promessa. È noto il paragone che il filosofo Emmanuel Lévinas fa tra Ulisse e Abramo. Ulisse, alla fine di un lungo viaggio si ritrova nella sua stessa casa, al punto di partenza; Abramo invece, si mette in cammino affidandosi completamente a quella presenza misteriosa che lo precede, e alla fine si trova in una terra nuova, spazio di vita designato a lui e alla sua discendenza.

In fondo, per un nomade come Abramo, conducendo un’esistenza precaria e instabile ai margini dei grandi imperi del secolo XX a.C., il sogno più grande era di avere una vita sicura, una terra fertile, pascoli tranquilli, figli numerosi. Dio gli viene incontro proprio qui. Avviene così un abbraccio fra promessa divina e speranza umana. Entrando nei desideri e nei sogni dell’uomo, Dio non li soffoca, non li blocca, ma li dilata, li eleva. Con le sue promesse egli incoraggia l’uomo a trascendersi, a mirare più in alto. «Farò di te un grande popolo e ti benedirò,... in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra» (Gen 12,2-3). La promessa di Dio eccede i desideri. Abramo intuisce che quello che lo attende va oltre la sua fragile vita, la sua breve storia, la sua piccola famiglia e i suoi timidi sogni di prosperità e sicurezza.

In alto e in avanti

Le promesse di Dio ad Abramo possono essere riassunte in queste parole: «Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle» (Gen 15,5); «Alza gli occhi e dal luogo dove tu stai spingi lo sguardo verso il settentrione e il mezzogiorno, verso l’oriente e l’occidente» (Gen 13,14). Sono  parole molto belle, simboliche, suggestive, poetiche; parole di amicizia e di fiducia. Il Signore invita il padre del suo popolo eletto ad uscire all’aperto, a guardare in alto e guardare in avanti. Dio dialoga con l’uomo nei larghi spazi dell’amore e della bellezza, non nell’angustia dei diritti e doveri. Egli vuole che i cittadini della sua terra abbiano uno guardo ampio e rivolto in alto, che siano capaci di affrontare l’infinito con il candore e la semplicità del bambino che si mette a contare le stelle.

I padri della Chiesa, riflettendo sulla dignità dell’uomo, fanno notare che a differenza degli animali, l’uomo ha il corpo eretto, lanciato verso l’alto e non strisciante per terra come il serpente, né curvo o piegato con la testa e lo sguardo verso il basso. Siamo creature fatte per guardare in alto, ma purtroppo non sviluppiamo a sufficienza questo dono. Assomigliamo più agli animali se non sappiamo guardare in cielo. Nel libro del profeta Osea il Signore dice con rammarico: «Il mio popolo è duro a convertirsi: chiamato a guardare in alto, nessuno sa sollevare lo sguardo» (Os 11,7). Nella liturgia eucaristica il celebrante, all’inizio della preghiera eucaristica, invita l’assemblea: «Sursum corda - In alto il vostro cuore!», perché è necessario avvicinarsi al mistero con il cuore in alto. Noi rispondiamo con tanta tranquillità e ovvietà: «Sono rivolti al Signore». È una risposta che non sempre corrisponde alla realtà. E sappiamo contare le stelle? La nostra vita è segnata da tanti numeri e codici e dobbiamo fare sempre dei conti. Cosa contiamo? Molti nostri contemporanei non sanno contare altro che il denaro. Il contare le stelle dice stupore, innocenza e semplicità, fantasia e bellezza, ampiezza di orizzonte, grandezza di cuore, speranza e gioia, senso ludico e poetico della vita.

Dio si compromette

La fiducia di Dio nell’uomo suscita la fiducia dell’uomo in Dio e in se stesso. La promessa di Dio all’uomo gli infonde gioia e gratitudine, coraggio e ottimismo, e lo   spinge a donarsi con generosità agli altri. Così vediamo Abramo che abbandona tutto e parte secondo le indicazioni di Dio, innalza un altare in ringraziamento a Dio, tratta con generosità Lot, accoglie con amore gli ospiti, riceve il dono inatteso del figlio Isacco ed è pronto ad offrirlo in sacrificio, pur con immenso dolore. La promessa di Dio ha fatto grandi cose nel padre del popolo d’Israele.

C’è ancora di più. Dio non solo promette dei beni, ma si compromette personalmente, entra in una relazione più profonda, stabilisce legami di prossimità e di comunione, stringe un’alleanza con l’uomo. Egli dichiara: «Sarò il vostro Dio» (Gen 17,8). «Renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione» (Gen 12,1), promette ancora Dio ad Abramo. Ciò non significa che Dio, oltre ai beni materiali, garantisce gloria e fama al patriarca. Il nome di Abramo sarà reso grande e fonte di benedizione perché assunto da Dio stesso nel momento della sua autopresentazione. Dio ha voluto qualificarsi con il nome di Abramo, si è compiaciuto d’essere proclamato ed invocato «il Dio di Abramo» (Es 3,15). Qui sta la grandezza del nome di Abramo: è entrato a far parte del biglietto da visita di Dio. E qui sta soprattutto la grandezza di Dio, un Dio che non si vergogna di legarsi al nome, al volto, alla vita e alla storia delle sue creature, un Dio che si fida, si compromette, pur conoscendo la fragilità umana. L’autore della lettera agli Ebrei dice bene: «Dio non disdegna di chiamarsi loro Dio: ha preparato infatti per loro una città» (Eb 11,16).

Maria Ko Ha Fomg fma
Biblista
Via Cremolino, 141 – 00166 Roma

 

 

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