L'attenzione
alla realtà e all’esistenza nel loro aspetto enigmatico, è un tratto che
attraversa la storia della ricerca umana. Una storia, è bene precisarlo,
segnata da una costante oscillazione nelle dinamiche della conoscenza,
soprattutto in rapporto alle domande fondamentali come quelle sulla
comparsa della vita, sull’origine e la durata dell’universo, sul
problema del male, della morte…
Certezza o illusione?
Tali
interrogativi alimentano attese di risposte chiare e indubitabili, nella
convinzione che esistano saperi e modelli conoscitivi in grado di
catturare la complessità della realtà. Invece, l’esperienza quotidiana
lascia emergere la fatica della conoscenza, la banalità di risposte a
buon mercato, l’illusione di poter districare il mistero delle cose con
un unico approccio. In altre parole, non si è abituati a convivere con
un conflitto delle interpretazioni che mostra la complessità nella quale
viviamo e che ci caratterizza come esseri in ricerca.
Ora,
uno dei conflitti più rilevanti è quello tra fede, religione e scienza.
Anzi, è un chiaro indicatore di come l’orizzonte della conoscenza sembra
doversi intendere entro confini particolari che non autorizzano un
conoscere differente. La convinzione, assai diffusa, è che la scienza
abbia dimostrato in qualche modo la falsità della religione, per il
semplice motivo che rappresenta l’unica prospettiva da offrire intorno
ai problemi dell’esistenza. «Secondo un’immagine popolare - scrive lo
scienziato e teologo John Polkinghorne – l’impresa scientifica
disporrebbe di un metodo infallibile e, di conseguenza, i suoi risultati
non sarebbero altro che l’inesorabile conquista della verità. Il
controllo sperimentale verifica o falsifica le proposte avanzate dalla
teoria.
I
problemi vengono risolti così per sempre e con unanime soddisfazione;
leggi che mai saranno infrante sono sotto gli occhi di tutti. Ma
scopriremo ben presto che, in realtà, le cose vanno in maniera molto più
sottile ».1 Non meraviglia, di conseguenza, il fatto che la
fede e la religione non siano in grado di competere con un modo di
conoscere le cose così sicuro e affidabile. Sono, piuttosto, pericolose,
perché tendono a mascherare la realtà, a non offrire prove, ripetendo
argomentazioni che hanno il sapore di antiquate superstizioni. In
definitiva, la religione non è in grado di fornire più alcuna
spiegazione che abbia una qualche importanza.
Il
virus
della religione
È
sulla base di questi presupposti, che si muove il
neoateismo
che,
sebbene faccia la sua comparsa nel panorama culturale tra il 2006 e il
2007, riapre una serie di questioni critiche già presenti nella prima
metà del Novecento circa l’opportunità storica e culturale di un
umanesimo ateo. Se a un primo livello, emerge la necessità di un dialogo
tra scienze naturali e religione, ad una dimensione più radicale si
ripropone la domanda verso quale Dio il neoateismo oppone la sua critica
e quale sia il posto della fede. L’assunto che accomuna diversi
pensatori neoatei è che “l’ipotesi di Dio”, qualora avesse un senso,
dovrebbe essere verificata secondo gli stessi criteri che presiedono a
qualsiasi affermazione scientifica. Ne consegue che in virtù di tali
criteri l’esistenza di Dio è una fiaba e la religione è un’emozione da
superare. Di più, impedisce l’avanzamento delle conoscenze e il
progresso sociale. Lo sfondo di tali argomentazioni è costituito dal
darwinismo
inteso come teoria universale, capace di spiegare gli sviluppi della
realtà entro il sapere della biologia. Pertanto, anche se si dovesse
ammettere la presenza dell’elemento religioso nel corso dell’evoluzione
della specie umana, essa va considerata come un prodotto accidentale,
utile, per certi versi, ma non funzionale alla crescita e maturità
dell’uomo. In tal senso, appare emblematica la posizione di Richard
Dawkins.
Nella sua opera
Il
gene egoista2
sostiene che come nell’evoluzione biologica agisce da replicatore il
gene,
in quella culturale il “meme”. Questo termine, che nasce dalla fusione
di “gene” e “memoria”, tende a spiegare come idee, prodotti, frasi, mode
siano effetti della selezione che i memi operano sulla cultura.
All’interno di questo sviluppo culturale, alcuni memi hanno un alto
valore di sopravvivenza. E tra questi c’è il “meme Dio” che, come un
virus,
è in grado di contaminare le persone e di resistere a qualsiasi terapia.
Ora,
al di là del fatto che è difficile mostrare che idee e artefatti
culturali siano ragionevolmente contenuti in un codice genetico che si è
affermato da solo, ciò che colpisce è la riduzione di Dio a semplice
effetto di una evoluzione culturale, oggetto di una terribile illusione
che, però, persiste nonostante tutto. Se così fosse, allora, o
l’evoluzione culturale è incapace di espellere la religione e la fede,
oppure la questione è di altra natura. Vale a dire, richiede un
approccio alla realtà meno pregiudiziale e misurato sul solo sapere
scientifico.
La
logica della fede
La
critica del neoateismo ci pone dinanzi ad una questione decisiva: è
realmente indispensabile il credere all’uomo? L’esperienza non sembra
dare scampo: per quanto la si voglia classificare come residuo di un
passato logoro o reputarlo accessorio all’orientarsi dell’uomo nel
mondo, la fede, nelle sue diverse tipologie, appartiene a ogni uomo e
donna. I motivi possono essere molteplici. Di fatto, la forza del
credere esibisce le sue credenziali come insostituibili (o quasi) quando
si è nella condizione di spiegare le cose; o, meglio: nell’«organizzare
in modo coerente molte osservazioni».3 In altre parole, ciò
che va interpretato e compreso è perché l’uomo è
costruito per credere,
perché nella sua ricerca di senso non può fare a meno delle credenze.
Questo dato, però, fa scattare l’ironia scettica che ritiene il credere
un sapere e un comportamento culturale irrazionale, in quanto immaturo e
fittizio.
Ora,
se il credere è un inquilino abituale della vita quotidiana, una certa
ragione deve esserci, per quanto strana possa sembrare. Anche perché il
mondo umano sembra essere resistente ad un approccio limitato alla sola
costruzione scientifica della realtà. Ad una osservazione più attenta,
la dimensione del credere nelle cose, negli altri, in se stessi, in una
Trascendenza, è un ingrediente difficilmente irrinunciabile che conferma
un duplice paradosso. Il primo, è che senza il credere sarebbe
complicato andare avanti nel quotidiano; il secondo, è che la credenza
sostituisce spesso l’incertezza. Anzi, se da questa innescata, può
divenire più forte del sapere. Per cui, come annota lo psicologo
cognitivo P. Legrenzi, «Credere è qualcosa di meno di sapere: indica
quel che non sappiamo per certo. Ma è anche qualcosa di più: garantisce
una forma di conoscenza “più che certa”, che può persino andare al di là
dei fatti e sconfinare nella fede».4
Una
simile comparsa del bisogno di credere individua nell’atto di fede
un’audace testimonianza dell’impossibilità di evadere le questioni per
eccellenza dell’esistenza: la dignità di ognuno di noi e la finalità del
nostro vivere. Vale a dire, le domande fondamentali che premono sul
cammino culturale dell’umanità. Che, ben inteso, non dipende in modo
deterministico dal dato biologico della vita e dalla sua esigenza di
autoproduzione e sopravvivenza.
Recuperare il senso del mistero
Senza dubbio, il neoateismo offre una caricatura della scienza, la quale
è ben consapevole della sua relatività. Il suo muoversi all’interno del
dato e dell’accaduto, non la priva di quel valore di trascendenza, che
rinvia al
recupero del senso del mistero.
La scienza è chiamata dall’incontro con l’esperienza religiosa, a
cessare di considerarsi apologia e ideologia della realtà esistente, per
divenire strumento di ricerca e creazione di nuovi modelli. Al tempo
stesso, l’esperienza religiosa deve imparare a cogliere la sua
pertinenza nella conoscenza della realtà, in un’umiltà che non pretende
di avere tutte le risposte.
La
fede non è l’espressione di una “minor età” dell’uomo, incapace di
indicare un significato alla realtà. Non è neanche la certezza libera
dal dubbio che naviga tranquillamente nei contrasti e insuccessi della
storia. Sarebbe solo la controfigura di un’ambiguità irresponsabile,
anche se astuta nel saper trarre profitto da quegli accadimenti che
esigono risposte a buon mercato. Spesso, credendo di possedere una
risposta, si rischia di dirigersi verso le derive della fede, il cui
volto è l’integralismo e il totalitarismo del pensiero unico. Piuttosto,
la fede è
l’inizio indeducibile di un’esistenza nuova,
in virtù della quale credenti, diversamente credenti e atei, condividono
la stessa possibilità: sono l’uno per l’altro segno di un incontro con
il mistero mai definitivo, che allarga
l’angolo del perché.
«Scienza e fede sono anche le due ali che consentono di volare verso
orizzonti sempre più lontani […] L’uomo pensante accetta volentieri un
orizzonte continuamente mutevole. Non vive di sole certezze, senza porsi
dubbi, bensì stupito e meravigliato, si rimette ogni volta in gioco,
facendo della domanda e del dubbio la molla vitale per una ricerca
onesta, animata da interrogativi incessanti, nella speranza di una
risposta che apra la porta a nuove domande».5
1 J. POLKINGHORNE,
Scienza e fede,
Mondadori, Milano 1987, 14.
2 R. DAWKINS,
Il gene egoista. La parte immortale di ogni essere
vivente,
Mondadori, Milano 2007.
3 P. LEGRENZI,
Credere,
Il Mulino, Bologna 2008, 29.
4
Ibidem,
14.
5 C.M. MARTINI, «Una riflessione», in IDEM,
Orizzonti e limiti della scienza. Decima cattedra dei
non credenti,
Cortina, Milano 1999, 156.
Carmelo Dotolo
Pontificia Università Urbaniana
www.carmelodotolo.eu