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n.6
novembre/dicembre 2013

 

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La sfida del neoateismo

Come ripensare il rapporto tra fede e scienza?

 di Carmelo Dotolo

 

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L'attenzione alla realtà e all’esistenza nel loro aspetto enigmatico, è un tratto che attraversa la storia della ricerca umana. Una storia, è bene precisarlo, segnata da una costante oscillazione nelle dinamiche della conoscenza, soprattutto in rapporto alle domande fondamentali come quelle sulla comparsa della vita, sull’origine e la durata dell’universo, sul problema del male, della morte…

Certezza o illusione?

Tali interrogativi alimentano attese di risposte chiare e indubitabili, nella convinzione che esistano saperi e modelli conoscitivi in grado di catturare la complessità della realtà. Invece, l’esperienza quotidiana lascia emergere la fatica della conoscenza, la banalità di risposte a buon mercato, l’illusione di poter districare il mistero delle cose con un unico approccio. In altre parole, non si è abituati a convivere con un conflitto delle interpretazioni che mostra la complessità nella quale viviamo e che ci caratterizza come esseri in ricerca.

Ora, uno dei conflitti più rilevanti è quello tra fede, religione e scienza. Anzi, è un chiaro indicatore di come l’orizzonte della conoscenza sembra doversi intendere entro confini particolari che non autorizzano un conoscere differente. La convinzione, assai diffusa, è che la scienza abbia dimostrato in qualche modo la falsità della religione, per il semplice motivo che rappresenta l’unica prospettiva da offrire intorno ai problemi dell’esistenza. «Secondo un’immagine popolare - scrive lo scienziato e teologo John Polkinghorne – l’impresa scientifica disporrebbe di un metodo infallibile e, di conseguenza, i suoi risultati non sarebbero altro che l’inesorabile conquista della verità. Il controllo sperimentale verifica o falsifica le proposte avanzate dalla teoria.

I problemi vengono risolti così per sempre e con unanime soddisfazione; leggi che mai saranno infrante sono sotto gli occhi di tutti. Ma scopriremo ben presto che, in realtà, le cose vanno in maniera molto più sottile ».1 Non meraviglia, di conseguenza, il fatto che la fede e la religione non siano in grado di competere con un modo di conoscere le cose così sicuro e affidabile. Sono, piuttosto, pericolose, perché tendono a mascherare la realtà, a non offrire prove, ripetendo argomentazioni che hanno il sapore di antiquate superstizioni. In definitiva, la religione non è in grado di fornire più alcuna spiegazione che abbia una qualche importanza.

Il virus della religione

È sulla base di questi presupposti, che si muove il neoateismo che, sebbene faccia la sua comparsa nel panorama culturale tra il 2006 e il 2007, riapre una serie di questioni critiche già presenti nella prima metà del Novecento circa l’opportunità storica e culturale di un umanesimo ateo. Se a un primo livello, emerge la necessità di un dialogo tra scienze naturali e religione, ad una dimensione più radicale si ripropone la domanda verso quale Dio il neoateismo oppone la sua critica e quale sia il posto della fede. L’assunto che accomuna diversi pensatori neoatei è che “l’ipotesi di Dio”, qualora avesse un senso, dovrebbe essere verificata secondo gli stessi criteri che presiedono a qualsiasi affermazione scientifica. Ne consegue che in virtù di tali criteri l’esistenza di Dio è una fiaba e la religione è un’emozione da superare. Di più, impedisce l’avanzamento delle conoscenze e il progresso sociale. Lo sfondo di tali argomentazioni è costituito dal darwinismo inteso come teoria universale, capace di spiegare gli sviluppi della realtà entro il sapere della biologia. Pertanto, anche se si dovesse ammettere la presenza dell’elemento religioso nel corso dell’evoluzione della specie umana, essa va considerata come un prodotto accidentale, utile, per certi versi, ma non funzionale alla crescita e maturità dell’uomo. In tal senso, appare emblematica la posizione di Richard Dawkins.

Nella sua opera Il gene egoista2 sostiene che come nell’evoluzione biologica agisce da replicatore il gene, in quella culturale il “meme”. Questo termine, che nasce dalla fusione di “gene” e “memoria”, tende a spiegare come idee, prodotti, frasi, mode siano effetti della selezione che i memi operano sulla cultura. All’interno di questo sviluppo culturale, alcuni memi hanno un alto valore di sopravvivenza. E tra questi c’è il “meme Dio” che, come un virus, è in grado di contaminare le persone e di resistere a qualsiasi terapia.

Ora, al di là del fatto che è difficile mostrare che idee e artefatti culturali siano ragionevolmente contenuti in un codice genetico che si è affermato da solo, ciò che colpisce è la riduzione di Dio a semplice effetto di una evoluzione culturale, oggetto di una terribile illusione che, però, persiste nonostante tutto. Se così fosse, allora, o l’evoluzione culturale è incapace di espellere la religione e la fede, oppure la questione è di altra natura. Vale a dire, richiede un approccio alla realtà meno pregiudiziale e misurato sul solo sapere scientifico.

 

La logica della fede

La critica del neoateismo ci pone dinanzi ad una questione decisiva: è realmente indispensabile il credere all’uomo? L’esperienza non sembra dare scampo: per quanto la si voglia classificare come residuo di un passato logoro o reputarlo accessorio all’orientarsi dell’uomo nel mondo, la fede, nelle sue diverse tipologie, appartiene a ogni uomo e donna. I motivi possono essere molteplici. Di fatto, la forza del credere esibisce le sue credenziali come insostituibili (o quasi) quando si è nella condizione di spiegare le cose; o, meglio: nell’«organizzare in modo coerente molte osservazioni».3 In altre parole, ciò che va interpretato e compreso è perché l’uomo è costruito per credere, perché nella sua ricerca di senso non può fare a meno delle credenze. Questo dato, però, fa scattare l’ironia scettica che ritiene il credere un sapere e un comportamento culturale irrazionale, in quanto immaturo e fittizio.

Ora, se il credere è un inquilino abituale della vita quotidiana, una certa ragione  deve esserci, per quanto strana possa sembrare. Anche perché il mondo umano sembra essere resistente ad un approccio limitato alla sola costruzione scientifica della realtà. Ad una osservazione più attenta, la dimensione del credere nelle cose, negli altri, in se stessi, in una Trascendenza, è un ingrediente difficilmente irrinunciabile che conferma un duplice paradosso. Il primo, è che senza il credere sarebbe complicato andare avanti nel quotidiano; il secondo, è che la credenza sostituisce spesso l’incertezza. Anzi, se da questa innescata, può divenire più forte del sapere. Per cui, come annota lo psicologo cognitivo P. Legrenzi, «Credere è qualcosa di meno di sapere: indica quel che non sappiamo per certo. Ma è anche qualcosa di più: garantisce una forma di conoscenza “più che certa”, che può persino andare al di là dei fatti e sconfinare nella fede».4

Una simile comparsa del bisogno di credere individua nell’atto di fede un’audace testimonianza dell’impossibilità di evadere le questioni per eccellenza dell’esistenza: la dignità di ognuno di noi e la finalità del nostro vivere. Vale a dire, le domande fondamentali che premono sul cammino culturale dell’umanità. Che, ben inteso, non dipende in modo deterministico dal dato biologico della vita e dalla sua esigenza di autoproduzione e sopravvivenza.

Recuperare il senso del mistero

Senza dubbio, il neoateismo offre una caricatura della scienza, la quale è ben consapevole della sua relatività. Il suo muoversi all’interno del dato e dell’accaduto, non la priva di quel valore di trascendenza, che rinvia al recupero del senso del mistero. La scienza è chiamata dall’incontro con l’esperienza religiosa, a cessare di considerarsi apologia e ideologia della realtà esistente, per divenire strumento di ricerca e creazione di nuovi modelli. Al tempo stesso, l’esperienza religiosa deve imparare a cogliere la sua pertinenza nella conoscenza della realtà, in un’umiltà che non pretende di avere tutte le risposte.

La fede non è l’espressione di una “minor età” dell’uomo, incapace di indicare un significato alla realtà. Non è neanche la certezza libera dal dubbio che naviga tranquillamente nei contrasti e insuccessi della storia. Sarebbe solo la controfigura di un’ambiguità irresponsabile, anche se astuta nel saper trarre profitto da quegli accadimenti che esigono risposte a buon mercato. Spesso, credendo di possedere una risposta, si rischia di dirigersi verso le derive della fede, il cui volto è l’integralismo e il totalitarismo del pensiero unico. Piuttosto, la fede è l’inizio indeducibile di un’esistenza nuova, in virtù della quale credenti, diversamente credenti e atei, condividono la stessa possibilità: sono l’uno per l’altro segno di un incontro con il mistero mai definitivo, che allarga l’angolo del perché.

«Scienza e fede sono anche le due ali che consentono di volare verso orizzonti sempre più lontani […] L’uomo pensante accetta volentieri un orizzonte continuamente mutevole. Non vive di sole certezze, senza porsi dubbi, bensì stupito e meravigliato, si rimette ogni volta in gioco, facendo della domanda e del dubbio la molla vitale per una ricerca onesta, animata da interrogativi  incessanti, nella speranza di una risposta che apra la porta a nuove domande».5

 

1 J. POLKINGHORNE, Scienza e fede, Mondadori, Milano 1987, 14.

2 R. DAWKINS, Il gene egoista. La parte immortale di ogni essere vivente, Mondadori, Milano 2007.

3 P. LEGRENZI, Credere, Il Mulino, Bologna 2008, 29.

4 Ibidem, 14.

5 C.M. MARTINI, «Una riflessione», in IDEM, Orizzonti e limiti della scienza. Decima cattedra dei

non credenti, Cortina, Milano 1999, 156.

 

Carmelo Dotolo

Pontificia Università Urbaniana

www.carmelodotolo.eu

 

 

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