n. 7/8
luglio/agosto 2002

 

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Formazione umana e cristiana nella vita religiosa
di Enzo Bianchi
 

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Innanzitutto ringrazio la Presidenza USMI dell’invito che mi è stato rivolto, ma vi dico anche la mia gioia di esser qui in mezzo a voi. Nei confronti della vita religiosa io sto vivendo sentimenti di partecipazione alla vostra ansia, alla vostra fatica e in questo momento e in quest’ora non facile, sono convinto che la Chiesa, soprattutto la nostra Chiesa che è in Italia, sarà segnata da una maggior povertà se viene meno la vostra testimonianza, se viene meno la vostra presenza anche solo attraverso una grande riduzione di numero.

Ho sovente anche l’impressione che i responsabili nella Chiesa non siano sufficientemente consapevoli di che cosa significhi nel cattolicesimo italiano la scomparsa o la riduzione, permettetemi la locuzione, della presenza delle suore. Perché io stesso devo soprattutto a loro tutta la mia formazione cristiana e il mio povero cammino di vita spirituale. Nello stesso tempo però vorrei dirvi che sono convinto che si possa applicare a voi quell’immagine che ritrovate nel profeta Isaia. Quando Isaia ha la visione di un ceppo bruciacchiato, un ceppo divelto, un ceppo che sembrerebbe significare soltanto la fine, ebbene la parola del Signore su quel ceppo è “ma se è radice santa ne rinascerà un albero nuovo”. Io sono convinto che la vita religiosa vostra, essendo radice santa, rinascerà, anche se oggi magari queste spinte di rinascita sembrano poche o addirittura estremamente deboli. Non temete dunque: c’è speranza nel Signore e credo che è importante avere questa consapevolezza.

La vita religiosa è una testimonianza e un segno necessario alla Chiesa. Le forme di vita possono anche mutare, alcune incarnazioni di questa testimonianza possono anche finire, ma la vera preoccupazione è che, se la radice è santa, i virgulti santi continueranno ad esserci e porteranno il loro frutto. E’ con questa convinzione, e soprattutto sapendo che mi ha preceduto mons. Luciano Monari, un Vescovo che conosco bene per il suo insegnamento, io cercherò non di darvi un tracciato biblico e un tracciato teologico, ma piuttosto vorrei fermarmi su alcuni elementi estremamente pratici che riguardano il cammino, la crescita, nella vita religiosa e che io reputo assolutamente urgenti nella nostra situazione.

 

Elemento fondante della vita religiosa

Cristo ci ha lasciato un esempio chiarissimo affinché seguiamo le sue tracce, le sue orme. Mi spiego: noi che vogliamo essere i suoi seguaci, avendo assunto il nome di cristiani, appartenenti a Cristo, dobbiamo seguirlo, dobbiamo vivere in memoria di Lui la vita cristiana. Insisto in memoria di Lui, sapendo che faccio riferimento all’Istituzione eucaristica, ma convinto che nell’Istituzione eucaristica, ciò che Gesù vuole istituire è la vita cristiana che noi viviamo in memoria di Lui, con la forma che Lui ci ha lasciato e di cui ci ha lasciato segno nell’Eucaristia. Questo è il cristianesimo, nient’altro.

E la vita religiosa non è altro che la vita cristiana. Vita in cui tentiamo di vivere la radicalità del Vangelo; ma questa vita deve essere compresa come vita di discepolato, vita con Gesù, esistenza umana coinvolta con Gesù, vita come l’ha vissuta Gesù Cristo. Consapevoli della distanza abissale tra Gesù Cristo e qualsiasi suo discepolo, tuttavia noi dobbiamo assolutamente credere a questa possibilità di vivere come Gesù ha vissuto. Questo non è né utopia né retorica, perché il cristiano che segue il Signore è un uomo che è stato creato secondo l’immagine, cioè è stato plasmato secondo il modello del Figlio di Dio, Gesù Cristo. Così ci ricorda Paolo in Colossesi 1,16-17. Un uomo che è attirato da Cristo, dunque, ed è dotato di quella grazia, che è lo Spirito Santo, per vivere come Gesù ha vissuto e per giungere allo stesso telos, la vita eterna, la vita filiale in Dio.

Vivere l’esistenza umana di Gesù è la vocazione del cristiano e dunque del religioso, della religiosa che segue le orme di Cristo anche nell’assumere la sua forma di vita e segnata, non dimentichiamolo, da celibato e vita comune. Ma vivere un’esistenza umana e cristiana comporta una crescita.

L’apostolo Paolo più volte ritorna sul tema della crescita, della maturazione, sempre evidenziando che il compimento è la carità. Lo dice nella Prima Lettera ai Corinti, capitoli 12 e 13. Il cristiano è chiamato alla pienezza della carità attraverso una ricerca, un cammino, una crescita umana e spirituale che lo deve condurre all’uomo perfetto e maturo, alla misura della statura della pienezza di Cristo. Si tratta cioè di crescere sotto ogni aspetto “sino all’uomo perfetto, a quello sviluppo che realizza la pienezza del Cristo” (cf Ef 4,14).

Anche l’Apostolo Pietro chiede ai cristiani di desiderare il latte spirituale non adulterato per crescere verso la salvezza (cf 1Pt 2,2). C’è un verbo, il verbo augsano e derivati ed è un verbo molto significativo che appare sovente nella parenesi neotestamentaria proprio per indicare la crescita, la dinamica della vita spirituale di ogni discepolo. Crescere, maturare è una necessità della vita e corrisponde alla volontà di Dio, il quale ha rinunciato a esser tutto, perché l’uomo viva davanti all’uomo e viva nell’irriducibile alterità, gli possa rispondere crescendo nella libertà e nell’amore che sono le due condizioni essenziali all’alleanza.

 

Crescere: la prima vocazione umana e spirituale

Il primo gesto di Dio creatore è stata la benedizione sulla crescita dell’uomo (cf Gn 1,28) e Ireneo di Lione commenterà che Dio ha creato l’uomo bambino, infante, perché cresca e come uomo vivente sia la sua gloria. Crescere è dunque la prima vocazione umana e spirituale e certo comporta dire sì, un vero Amen a Dio nell’obbedienza filiale, acconsentendo alla crescita, alla vita e beneficiando delle energie dello Spirito Santo presente come dinamis della vita cristiana a partire dal Battesimo. Io amo la comprensione della vita religiosa come vita del battezzato, come sviluppo di quel germe cristico di vita immesso nel cristiano con il Battesimo e quindi come risposta al dono specifico del celibato per il regno, in una dinamica che ha come protagonista lo Spirito Santo che sempre più conforma a Cristo chi ha voluto seguirlo. Certamente questa crescita, questa maturazione non è esente da problemi perché non avviene in modo automatico; ci sono molti ostacoli e contraddizioni poste dalle vicende della vita. Sicché crescere in statura, in sapienza e in grazia davanti a Dio e agli uomini è un itinerario per tutti faticoso, sovente a caro prezzo; un itinerario in cui sono necessarie indicazioni, regole, maestri che facciano segno, ma nel senso proprio del verbo semain (fare segno).

Dunque è necessaria anche la formazione, perché rari sono gli uomini e le donne, se mai sono esistiti, veramente teodidatti, istruiti, formati da Dio stesso. L’itinerario di crescita di formazione – non dovremmo mai dimenticarlo – è un cammino pasquale, associato alla vita, alla passione, alla morte, resurrezione di Gesù Cristo; un cammino chiamato sovente lotta spirituale, battaglia invisibile. Se Paolo amava leggere la vita cristiana come lotta spirituale, soprattutto la vita religiosa ha ricercato e meditato a lungo su questo aspetto della sequela, trasmettendo di generazione in generazione una sapienza esperienziale raffinatissima. E’ necessaria una formazione che sia veramente un camino di maturità e di pienezza.

Mi si consenta ancora un’annotazione in questa premessa: questo processo di formazione non deve essere qualcosa che viene arrestato con la professione religiosa o con una tappa che appartiene ai primi anni; questo processo deve durare tutta la vita. Se la crescita umana e spirituale si arrestasse, allora sarebbe davvero difficile poter affermare che c’è una reale continuità nella sequela del Signore. Se non si arresta questa crescita umana e spirituale non si arresterà neppure la formazione, perché questo è un processo per il quale uno è trasformato a immagine di Cristo, sotto l’azione dello Spirito Santo, durante tutta la sua vita. Non dice forse l’Apostolo che noi siamo chiamati a essere trasformati a immagine di Cristo (cf 2Cor 3,18), in un processo che deve davvero coprire tutta la nostra vita? Guai a chi sente la formazione permanente come un ripasso o come un recyclage o come un aggiornamento. So che, purtroppo, è ancora così nella vita religiosa. No: è semplicemente una necessità per crescere in epignosis, in sovraconoscenza di Cristo, per crescere umanamente fino a fare della propria vita umana e spirituale un capolavoro, un’opera d’arte, cioè fino a riprodurre nella nostra vita la vita di Gesù.

Crescita umana e crescita spirituale devono andare di pari passo e non possono fare a meno di una sinergia reciproca nello svolgersi e nell’evolversi del tempo; se una manca l’altra resta fragilissima e in questi casi ci si prepara soltanto a una vita segnata da contraddizioni, aforie, crisi con esiti incerti. Perché, mi si permetta di dirlo, errori di spiritualità diventano prima o poi degli errori, delle mancanze nella vita umana fino a essere patologie psichiche, financo somatiche.

 

Quale cammino di formazione

1. Le condizioni

Un primo aspetto che voglio mettere in evidenza riguardo alla formazione è che essa deve avvenire con uno scopo primario, ma che tuttavia deve essere già acquisito potenzialmente da parte del religioso e della religiosa. La formazione deve essere pensata riguardo a due condizioni assolutamente necessarie per la vita cristiana e quindi per la vita religiosa. Condizioni che sono anche scopo della vita: la libertà e l’amore. In libertate et propter caritatem dicono i Padri della vita monastica. E io credo che non si sottolinea a sufficienza questa necessità. Ma sono certo che oggi queste condizioni della sequela sono assolutamente da evidenziare, anche quale scopo della vita religiosa, perché noi siamo in una cultura dominata dall’idea del caso e della necessità. Forse molti di voi ricorderanno il famoso libro di Jacques Maunot Il caso e la necessità, un libro apparso nel 1969 e che ha segnato tutta una generazione, ma che è diventato una eredità trasmessa alle nuove generazioni che fanno l’esperienza del primato della tecnica. Ciò che domina la vita sarebbero il caso e la necessità. Ma nella vita cristiana il primato è dato dalla libertà e dall’amore, due parole significativamente al centro della memoria di Gesù Cristo, al centro della vita cristiana.

Voi tutti conoscete il Vangelo, e sapete come sia uno sforzo comune agli evangelisti dirci che Gesù è andato verso la sua passione e morte nella libertà e per amore; non perché lo attendeva una necessità, un destino e neppure perché c’erano degli eventi che succedevano a caso. Ma direi di più, in tutte le anamnesi di Cristo, presenti nelle anafore eucaristiche di Oriente e di Occidente, si evidenzia che Gesù andò verso la passione e la morte come era vissuto per la libertà e per amore. Nella libertà della scelta, libertà nel compiere la volontà di Dio e per l’amore di Dio e di noi uomini.

Vi do alcune citazioni: “liberamente stese le braccia sulla croce”, “liberamente andò verso la sua passione e morte, per amore nostro, per noi, per la nostra salvezza”. Queste condizioni di libertà e amore che contraddistinguono la vita, morte e resurrezione di Gesù, sono anche le condizioni della vita cristiana e della sequela. Ogni sequela deve avvenire nella libertà del chiamato, una libertà da accrescere ma che deve essere presente in chi vuole entrare nel cammino della vita religiosa e deve avere come motivazione determinante l’amore del Signore. Nelle condizioni di libertà, di amore, l’obbedienza al Signore può essere autentica; il fare la volontà di Dio può essere un impegno assunto. Solo nella libertà e nell’amore si può accogliere una forma vitae e di conseguenza una regola di vita. Solo così si può perseguire un cammino che comporta innanzitutto la rinuncia totale nell’amore.

Insisto su rinuncia, perché mi sembra che qui ci sia uno dei più grandi tradimenti della vita religiosa oggi: non si vuole più assolutamente mettere in evidenza questa parola determinante per la sequela cristiana: rinuncia, rinuncia. Solo nella libertà e nell’amore si può correre con il cuore dilatato sperimentando l’inenarrabile dolcezza dell’amore sulla via dei comandamenti. Certamente questa libertà del candidato non è piena né è giunta a pienezza. Ma questa libertà e questo amore devono essere presenti come un semen che ha la capacità di assecondare la crescita fino a dare frutto.

Dal candidato alla vita religiosa si deve attendere dunque una scelta libera, un atto libero che sia vera risposta nell’amore a una chiamata del Signore. Il candidato non conosce tutte le sue motivazioni che lo portano alla vita religiosa; non sa che in lui abitano forze segrete che lo spingono a quel tipo di scelta e che magari sono segnate da un’ombra; ma se è sincero, se sente in sé l’amore del Signore, certamente potrà iniziare un cammino che lo impegnerà per tutta la vita fino alla morte, nella purificazione delle sue scelte, diventando sempre più libero a prezzo di dovere assumere quell’ombra presente in lui e che magari ha avuto un peso nella sua scelta iniziale.

Dio si serve anche dell’ombra che è in noi e ogni ombra nasconde una luce. Quanto mi piace questo commento di Agostino alla Lettera di Paolo ai Romani: “Tutto concorre al bene di quelli che amano Dio, anche il peccato commesso” osa dire audacemente Agostino. Ed è qui che vorrei solo evidenziare questa necessità dell’Amore del Signore, cioè della presenza di sentimenti, ricerca, desiderio di Dio, il Dio personale vivente e vero a cui dare del tu, il Dio che Gesù Cristo ha raccontato, Lui immagine del Dio invisibile. Non si segue Cristo per un’opera, per una diaconia, lo si segue per amore di Lui e per amore suo si assume una forma vitae, una diaconia, un ministero.

Io purtroppo non ho sentito tutta la relazione di mons. Luciano Monari, però alla fine egli ha detto con forza che la sequela è sequela personale di Gesù. Io vi faccio notare una cosa straordinaria che c’è all’interno della tradizione spirituale buddista. Viene detto al discepolo: “se tu incontri il Budda uccidilo”, perché ciò che conta è l’insegnamento morale del Budda. Nel cristianesimo, ciò che conta è la persona di Gesù, perché Gesù quando ha parlato della sequela, ha detto a causa mia e del Vangelo, non a causa di un insegnamento e di un messaggio e ha osato dire parole che turbano chiunque si mette su una via di spiritualità non cristiana: «se uno ama il padre e la madre più di me non è degno di me». Nessun maestro ha mai chiesto di essere amato lui più dei vincoli naturali o di altri vincoli che abbiamo. Gesù invece l’ha chiesto, perché quello che sta al centro della sequela è la sua persona. La sequela è esser coinvolti nella sua vita, fino a seguire l’agnello dovunque egli va.

2. Fasi del cammino di sequela

Permettetemi allora di mettere in evidenza alcune fasi o stadi di quello che può essere il cammino di sequela e letto anche come formazione. Il processo di iniziazione alla vita religiosa conosce evidentemente diverse fasi o stadi. E la formazione interviene soprattutto in quella tappa primaria che è il postulantado.

Quale formazione offrire in questo primo tempo che dovrebbe essere sufficientemente lungo in modo che sia possibile trasmettere almeno un’informazione? Durante il tempo del postulantado la prima preoccupazione dei formatori dovrebbe essere quella di trasmettere un’informazione perché il candidato possa conoscere in modo reale, semplice e anche rapido la forma vitae che egli pensa possibile per sé nella realizzazione della chiamata del Signore. Io sottolineerei che il postulantado non è un tempo tanto di formazione ma soprattutto di informazione. La mia impressione è che oggi non si presti abbastanza attenzione a questa tappa di vita e di fatto sovente si è incapaci di fare differenza tra postulantado e noviziato, oppure il postulantado è ridotto a un tempo in cui il candidato è lasciato a vedere. Questa mia osservazione è avvalorata dal fatto che oggi molte sono le partenze durante il noviziato, più del 50% normalmente negli istituti. E questo non è positivo; indica che non c’è stato sufficiente discernimento in quella che dovrebbe essere la prima tappa.

Il novizio è uno che ha già deciso di assumere un cammino, non è più chiamato a osservare, a conoscere. E’ colui che si appresta ad assumere un impegno anche se soggetto a probazione. Ecco perché nel postulantado il grande impegno della formazione deve stemperarsi nell’informazione. Da parte di chi è incaricato, ma anche da parte di tutta la comunità, senza presumere che questo avvenga automaticamente. Non basta essere presenti per dare o ricevere informazione; certamente l’informazione costa, richiede attenzione, impegno e fatica, ma è assolutamente necessaria. Oggi poi i candidati alla vita religiosa poco conoscono delle differenti forme in cui essa si concretizza e vive. Non sempre sono in grado di discernere quale forma di vita li attrae di più.

Certamente per entrare nel postulantado devono avere chiara la vocazione al celibato. Ma sappiamo tutti che la vita comunitaria può assumere forme molto diverse, dalla residenza della Societas Jesu, alla comunità apostolica e alla comunità cenobitica. E’ durante il postulantado che questa informazione deve avvenire perché il candidato possa davvero riconoscersi in quella forma vitae in cui è impegnata la sua ricerca. Perché tanti giovani, tra i pochi che oggi entrano nella vita religiosa, nel corso della formazione se ne vanno e sovente troppi, mi permetto di dire, bussano alla porta di altri istituti? Perché questa migrazione?

3. Discernimento

Accanto all’informazione nel postulantado è anche necessario il discernimento. Questa operazione è diventata oggi più difficile e più lenta. La verità, l’autenticità della vocazione emerge oggi più lentamente e sovente più tardi. Occorre per questo discernimento anche un apporto non solo da parte di un incaricato, ma anche di altri membri che conoscono il postulante e lo conoscono nel lavoro, nello svolgere lavori e incarichi comunitari, della casa.

Questo discernimento deve puntare soprattutto alla conoscenza del postulante e a verificare l’autenticità della vocazione almeno su alcuni punti:

Rapporto con la famiglia. La sequela del Signore, narrata e proposta nei Vangeli mette sempre in evidenza l’abbandono della casa e della famiglia. So di toccare un tema nel quale negli ultimi decenni, secondo il mio giudizio, si è sfiorata l’incoscienza all’interno della vita religiosa. Seguire Cristo nel celibato significa anche abbandonare la famiglia; realmente fare questo abbandono. Bisogna verificare veramente se il postulante sa amare più Cristo di suo padre, sua madre. La qualità e l’autenticità del celibato per il regno dipende anche dal rapporto che si sa vivere con la propria famiglia. Certo un rapporto nell’amore e nella carità ma assolutamente sottomesso al primato dell’amore per Cristo. Soprattutto oggi che nelle nuove generazioni la tendenza è a prolungare l’adolescenza all’infinito, i sociologi parlano di post-adolescenze interminabili e lo sapete tutti, non vogliono neanche uscir di casa, arrivano addirittura a una vita da single, materialmente coniugati ma continuano ad andare a casa dai propri genitori, quasi incapaci di uscire da quel grembo. Proprio perché c’è questo tipo di cultura occorre ricordarci che nel Nuovo Testamento la sequela di Cristo richiede un abbandono reale della famiglia.

Molti giovani potrebbero essere tentati di prendere la vita religiosa come esperienza da farsi e a questo sono incoraggiati anche dal volontariato, sovente predicato dalle nostre chiese senza mettere in evidenza la differenza con la vita religiosa. Allora non si coglie più la verità di una vocazione al celibato. La vocazione religiosa – seppur poi segnata dalla fraternità e dall’affetto reciproco – è una forma che assume sempre la dimensione di solitudine, che non si può e non si deve assolutamente negare.

Altri potrebbero servirsi della comunità religiosa come tappa per un’uscita dalla famiglia verso il mondo, facendo della vita religiosa un luogo intermedio tra la fuga dalla famiglia e prima di una vita autonoma nella società. Questo è un aspetto importante: io so di istituti religiosi (mi permetto di dirlo, non voglio darvi troppi esempi di episodi ma la mia esperienza per la frequenza con cui partecipo o a consigli delle forme di vita religiosa o predicando gli esercizi) in cui si arriva a questo punto: nelle comunità soprattutto apostoliche, le suore giunte a 60-65 anni, quando vengono richiamate e devono cambiare la forma della loro testimonianza, non restano in congregazione, sovente tornano a casa. Questo è significativo, non hanno mai fatto un vero distacco dalla famiglia e la famiglia è sempre restata per loro una possibilità di esito. Questo in alcune congregazioni assume una percentuale molto forte. Potrei anche darvi le cifre.

Legata a questa possibilità che riguarda il rapporto con la famiglia sta la possibile ricerca di sicurezza. Questa possibilità è sempre stata presente nella vita religiosa, forse un tempo più di ora perché si andava in convento anche per mangiare pane e avere una vita di qualità migliore che in casa. Ma oggi è ancora possibile che uomini e donne segnati da immaturità, da incertezza, da una certa ansia per una vita autonoma e da protagonisti nella vita, pensino alla vita religiosa come luogo di protezione. E qui spero di non ferire nessuno, ma devo dirvi che soprattutto la vita religiosa segnata dalla clausura di fatto esercita molta attrattiva su soggetti che hanno paura del mondo o che sentono difficile la relazione e la comunicazione con l’altro. Entrando nella vita claustrale trovano un ambiente protetto, un luogo di eventuale nascondimento da ciò che potrebbe risultare per loro un handicap o una sconfitta e assumono sovente un’immagine ideale per parenti e amici. Essere protetti,  nascondere le proprie debolezze fisiche o psichiche, è una seduzione possibile nei monasteri. Ma sovente significa poi una vita comune invivibile. Ve lo dico per esperienza.

Orientamento sessuale. Il ritardo nel processo di orientamento sessuale è un altro elemento che rende oggi il discernimento più difficile. Eppure questo va fatto perché non è possibile scegliere e assumere il celibato senza una certa consapevolezza della propria dominante sessuale e del proprio orientamento sessuale. In questo il postulante/la postulante vanno certamente aiutati a porsi delle domande, a esercitarsi a dire in modo trasparente e semplice il tessuto dei propri sentimenti, dei propri affetti, delle proprie pulsioni. La castità, vissuta soltanto come astinenza, non è garanzia di una chiamata al celibato. Ci può essere una castità che è soltanto una condizione non ancora provata, involuta. E in questo caso, in realtà, si è fortemente minacciati nel cammino che si deve intraprendere.

Non sto qui ad analizzare in profondità questo punto. Voglio solo sottolineare la necessità del discernimento, su questa capacità a vivere del celibato. Anche qui noi troppo spesso dimentichiamo, lo dimenticano i preti, i presbiteri nei seminari, ma anche la vita religiosa, che il celibato, secondo il Nuovo Testamento, è un dono, è un carisma. Non è qualcosa che uno può assumere sempre e in ogni condizione. Gesù ha detto una parola precisa: “Pochi capiscono questa parola, chi può fare spazio, faccia spazio” (cf Mt 19). Non a tutti è data la possibilità di vivere il celibato se non ne ha ricevuto il dono. Chi non ha ricevuto questo dono o carisma non deve essere incoraggiato in una vita di celibato e anche se ha dentro di sé dei desideri occorre fare un discernimento se è un desiderio di seguire il Signore in una vita estremamente impegnata o se è un desiderio di seguire il Signore nel celibato, che è un’altra cosa.

Patologie psichiche. Un’altra difficoltà oggi è rappresentata dalle malattie psichiche, le quali il più delle volte si manifestano in modo più chiaro ed evidente dopo i 30 anni. Quasi sempre però ci sono dei segni che dovrebbero essere colti e osservati. Chi ha la responsabilità del postulantado deve esercitarsi all’osservazione del candidato. Soprattutto nel suo rapporto con il proprio corpo, con il cibo e con il lavoro. Non dimenticate questo. Questi rapporti colti con un’attenta osservazione possono fornire dei segni premonitori circa una difficoltà di equilibrio e di maturità. La postura assunta, permettetemi di dire soprattutto nella preghiera e nelle forme di vita comune; imparare a guardare la postura del corpo, l’attenzione al proprio corpo, possono rilevare patologie che in seguito si accresceranno e dunque bisogna fare questa operazione in modo da arrivare prima a rendersi conto della possibilità di una persona a una vita comune, visto che poi la vita religiosa ha come fondamenti il celibato e la vita comune. Se sono fragilità devono essere assolutamente tenute presenti nella formazione umana e spirituale. Se sono patologie vanno al più presto misurate e curate fino a essere letti come aspetti che possono anche richiedere al candidato di non continuare quel cammino vocazionale. Anche perché nella vita comune quasi tutte le patologie di tipo psichico aumentano soltanto e diventano più difficili da essere vissute.

Ci sono fragilità che impediscono la vita comune e che sono in contraddizione con essa. Se si vuole vivere veramente una vita comune seria e di qualità occorre misurare se uno è in grado di assumerla e poi di essere uno che vi partecipa responsabilmente. Molte lamentele della vita comune sovente dipendono da alcune persone che di fatto la impediscono, la paralizzano, la svuotano, proprio perché incapaci di viverle. Tutto questo va misurato perché uno possa partecipare ad un’avventura come quella della vita religiosa.

4. L’evento del lutto

Sempre in riferimento del postulantado vorrei dire che è importante che intervenga l’evento del lutto. Voi sapete che cosa è l’evento del lutto secondo le scienze umane. C’è una rinuncia da fare, c’è un reale abbandono da perseguire e questo ha un prezzo, ha un costo. Il candidato alla vita religiosa deve prendere coscienza di ciò che ha lasciato, senza paura. Oggi l’ansia e l’angoscia di poche vocazioni sono cattive consigliere. Innanzitutto ci fanno perdere di vista i criteri per cui certe persone non dovrebbero assolutamente entrare nel cammino monastico, L’ansia ci chiede quasi di pigliare chiunque bussi alla nostra porta; al contrario di quello che ci diceva Benedetto: “non si conceda facilmente a uno di entrare”. Ma soprattutto qualche volta impegna tutta la comunità a rendere queste persone a loro agio, metterle in una condizione di protezione, sovente anche di calore affettivo che non permette di patire il lutto verso ciò che si ha lasciato.

L’evento del lutto che deve arrivare nel postulantado significa una crisi, un momento in cui ciò che si ha lasciato deve apparire nella sua cruda realtà, deve esserci il momento in cui si esperimenta una spoliazione reale. Altrimenti significa che quel candidato o prima o dopo non aveva davvero degli elementi di vita reale e viveva più nell’immaginario. L’abbandono della casa, della terra, della famiglia, degli amici e della professione, nel linguaggio dei Vangeli – ricordate casa, famiglia e campi? – deve essere un dato vissuto che rende degno di seguire Gesù, non moralmente ma perché pone delle condizioni autentiche alla scelta. “Chiunque non rinuncia a quanto ha non può essere mio discepolo” (Lc 14,33).

Questa rinuncia e la consapevolezza di essa attraverso il lutto permette di stare insieme al figlio dell’uomo che non ha dove posare il capo, di metter mano all’aratro senza volgersi indietro. Gesù non ha voluto catturare seguaci, non ha reclutato militari, ha voluto dei discepoli che avessero la coscienza espressa da Pietro: “Noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito”. Detto non come rivendicazione per un merito, ma coscienza che si ha davvero lasciato qualcosa per seguire Gesù. Ciò che forma l’identità personale sono le relazioni con la famiglia, con gli amici, le attività e il lavoro. Ora ciò che forma l’identità personale, quando si entra nella vita religiosa, è perduto, deve essere sentito come una perdita. E’ allora che il tempo di morte può davvero diventare rinascita. Non si tratta di dimenticare il passato ma di rileggerlo con lucidità, scoprirvi ciò che si è lasciato, leggere l’azione di Dio, acconsentire a ciò che Dio ci promette davanti. Anche stamattina mons. Monari in fondo con quell’immagine della parabola del Vangelo di Tommaso, il pesce grande e il pesciolino ha detto la stessa cosa. Ecco bisogna dire sì al pesce grande ma sapere che si buttano a mare i pesciolini, averne coscienza e sapere ciò che si è perso.

5. Integrazione

Se il postulantado è contrassegnato dall’informazione, dalla conoscenza, il tempo che segue deve essere caratterizzato dall’integrazione. Soprattutto nel tempo del noviziato, ma intendo per questo tempo tutto il tempo prima della professione. Si tratta di passare dall’informazione all’integrazione. Qui davvero c’è iniziazione alla vita religiosa, adesione a una forma vitae particolare, partecipazione soprattutto a una vita comune. E il noviziato è il tempo per eccellenza dell’epifania. Il candidato vive l’epifania di se stesso.

E anche la comunità fa la sua epifania per il candidato. Prima il candidato poteva ignorarsi, non conoscersi. Ora sono gli altri con la loro presenza, la loro comunicazione che lo obbligano a vedere, riconoscere le sue debolezze, le sue fragilità, i suoi enigmi, le sue oscurità, i suoi punti anche di peccati. Voi tutti sapete come è terribile questo momento perché prima ci si era abituati a nascondere; con la scuola, eventualmente il lavoro, avevamo fabbricato tanti elementi che erano una maschera. E potevamo anche ignorare di essere quel che siamo. Ma messi nella vita comune religiosa, scopriamo gelosie, invidie, scopriamo che siamo cattivi, scopriamo molte debolezze, insufficienze che ci accompagnano. Ebbene solo così in questa verità, in questa epifania, si opera quell’incontro tra comunità e candidato che permette un cammino di partecipazione di responsabilità e di affetto fraterno. E’ così che il novizio deve passare dall’io ideale all’io reale.

Quelli che non fanno questa operazione sono quelli che tutta la vita sognano di avere quella dodicesima qualità che non hanno. Io credo che un bel libro per la vita religiosa è il libro di Musil l’uomo senza qualità. Cioè un uomo il quale ha undici caratteri, è sposato, ha un mestiere… ma lui dice: io sono veramente me stesso, avrei veramente la vita sviluppata se avessi la tredicesima qualità, quella che lui non ha. Nella vita religiosa questo è una specie sempre presente, sono quelli che poi dicono: si io sono qui ma se fossi in quella comunità, ma come sarebbe un’altra cosa. Mi è stato dato questo servizio ma se io facessi l’altro… Ma il problema è che nel noviziato l’io ideale deve morire e si tratta di assumere l’io reale. Attenzione: non vi sto indicando dei cammini di tipo psicologico, perché poi l’io reale si trova in Cristo, non si trova in noi stessi. Si tratta di arrivare al “per me morire è un guadagno”; fino al “non sono più io che vivo ma Cristo che vive in me”. Questo processo dura tutta la vita, ma se non è innescato a partire dal noviziato, noi in realtà creiamo dei religiosi con le maschere. Costantemente intenti a fabbricarsi una maschera per non essere colti nella loro verità all’interno della comunità. E così dopo che il novizio ha cercato di smascherare l’io ideale e impara ad accettare e assumere l’io reale, può passare dall’io al noi comunitario.

Si dovrebbe quindi puntare sulla formazione per far capire al novizio che lui entra in un’alleanza di fratelli o di sorelle ed entrare in un all’alleanza significa essere capaci di spoliazione, essere capaci della semplificazione di sé, avere un impegno per una comunicazione in ciò che è essenziale con gli altri e con la comunità. E soprattutto imparare non solo la docilità su cui si insisteva una volta ma la docibilità. Che vuol dire quella capacità a imparare ad essere istruiti. Noi oggi, mi permetto di dire che non voglio ferire nessuno, anche per quelli i quali vengono da formazioni molto intense come i movimenti, si rischia a un certo punto che non hanno questa capacità di docibilità. Hanno i loro schemi, hanno la loro visione della vita religiosa. Invece bisogna assolutamente che si esercitino ad accettare di essere istruiti dai fratelli, dalle sorelle, dalla comunità altrimenti non passeranno mai al noi. E diranno alla comunità e all’istituto: voi o all’istituto alla terza persona. Ma anche la comunità deve assolutamente operare una spoliazione che permette al novizio di incontrarla nella realtà e verità. E’ vero che il novizio va iniziato alla regola di vita, alla comprensione del dono e del ministero proprio, ma occorre che tutta la comunità sia consapevole di questo incontro in cui accoglie un altro fratello, un’altra sorella.

Nel noviziato è indispensabile, infine, accrescere la conoscenza di Dio del mistero cristiano, abbandonare immagini di Dio che non derivano dal Vangelo ma da altre tradizioni. Qui c’è un compito di render Dio buona notizia, di evangelizzare Dio, abbattendo tutte le immagini degli dei perversi. Questo cammino – si abbia il coraggio di dirlo con chiarezza – è un cammino di obbedienza e l’obbedienza va vista veramente come il Vangelo la delinea, l’obbedienza a Dio, l’obbedienza alla sua volontà, obbedienza che è possibile se c’è un continuo accrescimento dell’epignosis, della sovraconoscenza di Cristo.

Quanto agli strumenti della formazione del noviziato voglio dirvi brevemente quali sono. Il primo: la lettura. Non dico solo la lectio divina ma lettura. Questo significa che occorre dare nella formazione tempo per leggere, silenzio per la lettura, solitudine per la lettura, insegnando l’atto della lettura. Perché nella tradizione cristiana nella vita religiosa i libri sacri occupano un posto importante. Leggere assicura elementi per una formazione permanente, permette di rompere la monotonia dei giorni, è una lotta contro il logorio del tempo.

Guardate: una vita religiosa in cui non si legge è votata alla decadenza. Voglio dire innanzitutto lettura della tradizione cristiana, lettura dei Padri, lettura dei maestri spirituali, ma anche lettura di ciò che gli uomini hanno saputo dire nella loro ricerca di senso. Insomma, si tratta di un tempo di crescita in cui si impara davvero a conoscere. Ed è all’interno di questo elemento che bisogna trovate tempo per pensare, tempo per restare con se stessi, l’habitare secum, tempo per favorire la vita interiore. Un problema delle nuove generazioni è che non sanno né pensare né leggere e hanno una scarsa vita interiore. E’ il vero problema delle nuove generazioni. Alla lettura non sono più abituati perché i mass media portano altri segni. Il pensare, perché la vita è diventata vertiginosa, non lo sanno più.

Una delle cose più belle che ha fatto l’Episcopato francese due mesi fa è mandare una lettera ai cattolici di Francia sulla lettura. Io spero che la leggiate perché sarà pubblicata, spero dal Regno. Ma è una lettura in cui i Vescovi dicono come è essenziale la lettura per la vita cristiana. Tanto di più mi permetto di dirlo per la vita religiosa.

Molta importanza inoltre devono avere la preghiera e la liturgia. Se il novizio deve essere condotto a relazione profonda e personale con Dio occorre che impari anche a pregare, a vivere liturgicamente quella relazione, che è l’alleanza vitale e salvifica che avviene nella liturgia. Purtroppo oggi nella vita religiosa c’è talmente una mistica dell’opera, dell’azione, del servizio della carità, della diaconia per cui la vita religiosa oggi di fatto vive uno scollamento con la liturgia.

Vedrete nei prossimi decenni cosa significherà questo impoverimento e questo allentamento del rapporto con la liturgia che difficilmente è davvero centrale nella vita del religioso. E allora, o noi riportiamo la liturgia al centro della vita, intendo dire al centro della giornata o altrimenti noi stemperiamo la vita religiosa in un’opera filantropica, un volontariato di persone consacrate.

6. Lotta spirituale

L’altro strumento che deve essere assolutamente acquisito è la lotta spirituale questa capacità di resistenza e di lotta verso le tentazioni idolatriche che accompagnano ogni uomo ovunque e in qualunque situazione si trovi. La vita religiosa ha elaborato una vera e propria sapienza della lotta spirituale. La si insegna ancora la lotta spirituale nel noviziato o nella formazione? Io ho l’impressione di no.

 

Conclusione

Ho voluto tratteggiarvi il cammino di crescita di maturità e formazione che porta a quella professione religiosa che indica un’assunzione dell’alleanza con la consapevolezza di essere stato troppo veloce nel percorrere questo cammino e le sue tappe, ma credo di potere contare sulla vostra pazienza e sulla vostra comprensione, il tempo che mi era indicato, era anche molto breve. Ho scelto questi cammini; presto uscirà un mio libro sulla vita religiosa, molto ampio, che vuol essere una lettura di tutti i suoi aspetti. Il titolo è significativo Non siamo migliori e troverete in quel libro in maniera più estesa quello che vi ho detto qui. Perdonatemi se ho ferito qualcuno tra di voi.

Grazie dell’ascolto.*

* La relazione non è stata rivista dall’autore, per impossibilità di tempo disponibile.

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