n. 7/8
luglio/agosto 2003

 

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Reimpostazione della vita spirituale a partire dal Concilio Vaticano II
Esperienze in corso nelle congregazioni religiose

di P. Innocenzo Gargano, osb.cam

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Premessa

 Opportunamente, mi sono stati indicati i confini spazio-temporali. Si tratta di pensarci come “religiosi” all’interno della “nuova” Europa, che presto comprenderà tutti i cosiddetti Paesi dell’Est – eccetto forse la Russia, – ma a partire da una data precisa e determinante: il Concilio Vaticano II.

Che cosa può comportare tutto questo?

Anzitutto credo che comporti un allargamento dei nostri orizzonti spazio-temporali.

Ormai si è concluso una volta per tutte il tempo in cui potevamo pensarci unicamente all’interno della nostra piccola Italia. Siamo cittadini europei, aperti inevitabilmente alla mondialità. Utilizziamo tutti l’internet, il che significa che siamo continuamente “in rete”. Il textus, cioè il tessuto della nostra vita è strettamente connesso, legato a quello di tutti gli altri concittadini europei e – direi – semplicemente con i cittadini del mondo.

  

La postmodernità

 Se poteva essere vero già dopo la seconda guerra mondiale che “nessun uomo è un’isola”, lo è ancora di più oggi per tutti e per ciascuno, senza distinzione.

L’affermazione appena fatta sembra scontata. E tuttavia le implicanze sono di enorme portata. Perché? Perché questo allargamento enorme degli orizzonti avviene in un contesto epocale definito da molti come postmoderno.

La post-modernità – viene chiamata così la nostra “epoca” successiva alla “modernità” – sembra caratterizzarsi come un tempo in cui sono crollati quasi del tutto alcuni valori che avevano caratterizzato la modernità, mentre ne sono stati proposti di nuovi.

Per capire di cosa si tratti mi permetto di ricordare in sintesi – attingendo al dibattito che si è acceso nella nostra Congregazione camaldolese nei due ultimi Capitoli Generali – alcune riflessioni che ci hanno accompagnato in questi anni.

Durante il Capitolo del ’99, Maria Ignazia Angelini, abbadessa di Viboldone (MI), ci ricordava che la modernità nasce sotto il segno del disincanto del mondo e dell’idea di emancipazione anzitutto dal passato. Tale emancipazione è perseguita attraverso il principio della soggettivizzazione e della razionalizzazione. I due principi imperversano separatamente fino agli anni ’60 del novecento, creando frammentazione senza arbitrato alcuno, essendo la libertà umana concepita come cominciamento assoluto, al vertice del divenire del mondo.

Originariamente la modernità è in conflitto con le grandi visioni unitarie, universali dell’umano, siano esse filosofiche o religiose, denunciandole come favole. Ma per legittimare le sue regole di gioco la modernità costruisce un discorso di legittimazione che chiama “filosofia”, cioè un metadiscorso che implica una filosofia della storia prodotta con la «narrazione dell’illuminismo fino alle grandi ideologie fiorite e sepolte nel XX secolo», che anche per questo viene definito «secolo breve».

La caduta di queste “grandi visioni” ha prodotto incredulità verso ogni genere di ideologia, trascinando con sé la filosofia metafisica e le certezze dell’istituzione universitaria.

Questa vera e propria rottura dell’universalità del sapere, con la crisi della cultura occidentale, apre la porta al dialogo tra le culture, acuisce la sensibilità e la tolleranza rispetto alle differenze, ma non riesce più a proporre un misura comune, non arbitraria né basata sull’accordo, di fronte a cui confrontarsi nel dialogo. Rimane aperta la porta ad ogni arbitrio. Si dialoga, si apprezza rispettosamente la diversità dell’altro, ma poi ognuno ritorna, con sottile malinconia, miope presunzione, o patetico narcisismo, nel suo piccolo mondo1.

 

Alcune megatendenze

 In quella stessa occasione venivano sottolineate anche tre “megatendenze” presenti nella società attuale e cioè:

1. Il mutamento del modello economico, che ha generato, grazie ad una straordinaria rivoluzione tecnologica, il predominio dell’aspetto finanziario su quello più strettamente produttivo.

2. La diffusione di una cultura di massa di tipo programmatico funzionale, grazie al cumulo di informazioni massmediali di cui possono fruire tutti, in qualsiasi parte del mondo, con conseguente riduzione dell’approfondimento delle conoscenze stesse.

3. La marginalità o addirittura la fine dell’incidenza politica dei singoli o dei piccoli gruppi ai quali si offrono solo delle supplenze consolatorie e ingannevoli, perché prive di qualsiasi apporto davvero efficace sul reale. Le decisioni vere, quelle che contano, vengono prese infatti sistematicamente “altrove”, cioè in quel mondo complesso, anonimo e tecnologicamente avanzato, che si perde nell’indifferenziato degli interessi del potere “finanziario” internazionale.

 

 Conseguenze nello stile di vita

 Le conseguenze di queste megatendenze sono sotto gli occhi di tutti. Mi permetto di richiamarne alcune:

 a. L’idolatria del denaro, con sottomissione cieca da parte di tutti, ricchi o poveri che siano, al demone della cupidigia. Chi non ha, desidera con tutte le sue forze di avere; e chi ha, desidera, altrettanto fortemente, di avere di più.

La cupidigia comporta poi inevitabilmente una continua destabilizzazione con conseguenze macroscopiche come quelle dell’assalto delle nostre coste da parte dei meno fortunati della terra; dell’inurbamento caotico che fa lievitare enormemente città già al limite della loro capacità di accoglienza e di servizi; del degrado ecologico, soprattutto delle periferie in cui crescono a dismisura baraccopoli assolutamente disumane sotto tutte le latitudini della terra; dell’ingigantirsi della criminalità organizzata; dell’istinto necrofilo del consumismo che lacera le strutture elementari della vita. (E. Fromm)

b. La perdita dell’interiorità, dovuta all’opinione diffusa che quel che serve è salvare la faccia, impressionare, in positivo o in negativo poco importa: stupire o atterrire si equivalgono e comunque quel che conta è apparire, facendo di tutto per essere “a la page” e comunque non perdere il treno annuale o stagionale della moda. Si è disposti a “mettere in piazza” anche la propria anima e, secondo le occasioni, a venderla al primo offerente, o addirittura a “perderla”, pur di “fare spettacolo” o meglio fare audience, secondo il gergo comune dei mass media.

Si è stabilita una sconcertante alleanza cultuale profana tra bellezza, benessere e gioventù che fa dimenticare dove risiede la vera dignità dell’uomo. Da qui la marginalizzazione dell’anziano, dell’handicappato e del malato che invece sono di fatto rivelazione veritiera dell’uomo concreto e dei suoi limiti2.

Se tutto questo lo si fa sulla propria persona, a fortiori poi si pensa di poterlo fare sugli altri, insistendo smodatamente sul diritto all’informazione fino a imporre la presenza del microfono o della telecamera negli angoli più remoti della casa e dell’anima altrui. Si è esagerato al punto, in queste cose, da dovere inventare istituzioni appropriate a difendere la privacy contro invadenze inopportune e indesiderate. Carpire i segreti degli altri è divenuto un must soprattutto da parte di intervistatori di ogni tipo. E da questo desiderio-dovere di messa in scena di tutto e di tutti non riescono a scampare né gli aspetti più intimi dell’amicizia né, tanto meno, le manifestazioni religiose più sacre o più personali. Basti osservare con quanta curiosità, oserei dire “malizia”, gli zoom dei teleobiettivi o delle telecamere insistono nei particolari di un uomo, “pubblico” a qualunque titolo, sia egli presidente di una qualsiasi istituzione più o meno importante, “attore”, “atleta”, o qualunque altra cosa, non escluso, anzi qualche volta con particolare insistenza e “golosità”, l’uomo “religioso”. Il dentro è fuori e la stessa libertà della persona, così tanto sbandierata da tutti, in realtà corre gravissimi rischi di essere platealmente tradita e conculcata.

 c. Disgusto dell’essere e dell’esserci, causato soprattutto dal senso di impotenza e della in-incidenza sulle cose, sugli avvenimenti, sugli uomini. Ci si sente “sperduti nell’universo”, pilotati da altri dai quali dipendiamo in tutto e per tutto, ma questi “altri”, che decidono per noi e al nostro posto, sono calcolatori freddi e disinteressati, che agiscono soltanto in base alle possibilità strettamente tecniche e all’interesse economico.

La persona è un numero o una lettera dell’alfabeto calcolati sulla cifra mensile o annuale del suo reddito – si pensi all’espressione corrente: “un uomo o una donna da un milione di dollari o di euro” – valutata, promossa o retrocessa a partire dall’efficienza che, a sua volta, deve produrre un interesse economico sufficientemente alto da poter giustificare la sua permanenza in Ditta o nella Istituzione.

E’ ovvio che chiunque si senta giudicato con simili parametri di riferimento si consideri un nulla, disgustato di sé, disgustato degli altri, disgustato del lavoro che compie, annoiato di tutto, impedito persino nell’intimità della propria famiglia, di godere delle cose buone della vita e di gioire con gli altri.

Come può essere capace di sorridere un uomo ridotto a pura merce di scambio valutata in base a parametri puramente tecnici o di tornaconto finanziario? E noi sappiamo che se all’uomo viene tolto il sorriso che, unico, lo definisce, distinguendolo dagli altri esseri creaturali, non gli resta altro che detestarsi finendo inevitabilmente nei labirinti indicibili che chiamiamo droga, alcoolismo, depravazione, asocialità, in gente che si lascia andare nelle forme più varie popolando i marciapiedi, i sagrati delle Chiese, le pensiline delle stazioni e spesso addirittura i cunicoli delle nostre fognature. Si può immaginare un degrado più umiliante e umiliato di questo? Eppure tutto questo cade quotidianamente sotto i nostri occhi in questa “nuova” Europa.

 d. La fuga nel soggettivismo dovuta forse a una certa demoniaca trasformazione del vizio in virtù. Dal momento che “è permesso tutto a tutti”, l’unico valore che rimane è quello di affermare la propria individualità soggettiva, la comprando gli altri o vendendo se stessi poco importa, pur di essere ahead, come si dice in America, cioè pur di essere i primi e “primeggiare” sugli altri con battaglie e guerre estremamente aggressive giustificate come “preventive”.

Il concorrente va battuto sul tempo e bruciato prima possibile e in modo che non si rialzi più. Il principio pedagogico di prevenire si è trasformato in diritto a “fare guerre preventive” da parte di un qualunque potere che intenda conservare a oltranza i propri diritti o privilegi acquisiti e lo status quo, oppure che si senta investito di una missione vagamente “messianica”, per garantire la democrazia e la “salvezza” – qualche volta la chiamano proprio così – di tutti gli altri.

 e. Un’esperienza di angoscia, che attraversa l’uomo fino dall’infanzia, insieme con una paura permanente di tutti e di tutto, perfino di se stessi. Espropriati dell’intimità, pressati dai mille volti del potere subdolo dei mass-media, della moda, delle ideologie politiche – universaliste, nazionaliste o regionaliste poco importa – e del fanatismo religioso, ma soprattutto dal desiderio smodato del denaro e dall’imperativo categorico ad essere comunque il primo, a qualunque costo, gli uomini e le donne di questa nostra Europa contemporanea, esplodono in grida incontenibili che sfociano, molto più frequentemente di quanto noi pensiamo, in psicosi inguaribili e mortali.

L’angoscia è il frutto amaro del soggettivismo che lascia irrimediabilmente soli di fronte al vacuum di un’esistenza in cui sono stati feriti a morte i valori primari della relazione libera e affettuosa con gli altri, del pudore dei propri sentimenti e segreti, dell’apertura all’Altro con la A maiuscola, depositario delle nostre gioie e delle nostre lacrime e fonte provvidenziale della nostra speranza e della nostra vita, orientata alla felicità.

 f. Rifugio nell’indifferenza, percepita come scelta protettiva o come salvagente in un mare che non si ha più il coraggio di attraversare. E’ stato smarrito il desiderio di lottare e di appropriarsi responsabilmente della propria vita, ma è svanito pure il gusto di un antagonismo sano che permetteva di porsi sullo stesso livello dell’altro nell’atto stesso in cui si tentava di contestarlo o di dialogare con lui da pari a pari. Vivi e lascia vivere sembra costituire l’unico atteggiamento condiviso da tutti o dalla maggioranza. Il cartello più in vista è non disturbare. I valori sembrano tutti uguali senza più gerarchia fra valori essenziali, vitali e secondari. La fedeltà per tutta la vita, per esempio, non sembra essere di casa più da nessuna parte: né nella vita di coppia o di famiglia, né nelle scelte operative legate al lavoro o a qualche interesse, né nelle opzioni confessionali o religiose. Una scelta di vita vale l’altra e tutto è vissuto nella più completa e mobilissima precarietà. Ci si tuffa in mare con il salvagente e gli sports che attraggono di più sono quelli che garantiscono emozioni anche forti, ma con solide cinture di sicurezza, che permettono di far finta di aver rischiato la vita senza averla esposta in fondo più di tanto.

g. Sperimentalismo ad oltranza. Permettersi di assaggiare tutti i sapori possibili che può offrire la vita, compresi quelli più mistici e spirituali, senza lasciarsi prendere mai completamente da nessuno di essi; questa sembra la filosofia dominante.

L’indifferenza si coniuga perciò con l’instabilità e l’impulso irresistibile a conoscere e sperimentare cose nuove. Non è il valore che conta. Ciò che conta è la novità. Ci si imbarca a ogni fine stagione in viaggi e in crociere che permettano di provare emozioni peregrine di ogni tipo, censurando o tacitando all’origine qualunque tipo di dubbio sul valore culturale o sulla valutazione morale delle scelte fatte.

In verità non interessa l’altro o la sua differenza o diversità; interessa invece il bottino che riesco a fare delle cose dell’altro, un bottino però che poi cesserà di essere ritenuto prezioso, e finirà semplicemente in soffitta, quando, esaurita tutta la sua carica di novità, farà posto inevitabilmente al nuovo viaggio già progettato per il prossimo anno.

  

Dalle Riforme alla Rivoluzione

 Riprendendo il discorso nel successivo Capitolo Generale del 2002, avemmo l’occasione di approfondire ulteriormente le nostre letture della postmodernità, nel tentativo di capire qualcosa di più sull’uomo di oggi e sulla storia umana3.

Constatammo, a proposito della “novità” legata alla “modernità”, che anche la Chiesa e i movimenti cristiani apparivano indubbiamente ai loro inizi come “novità”. Uno degli sforzi più seri che dovettero fare i Padri apologisti cristiani, per farsi accettare dalla cultura dominante greco-romana, era stato infatti quello di dimostrare che ciò che appariva come novum et inauditum di fatto coincideva col quod semper, quod ubique, quod ab omnibus creditum est, se è lecito citare fuori contesto questa formula utilizzata da Vincenzo di Lerins nel V secolo.

Nel Mediterraneo greco-romano il cristianesimo veniva dunque avvertito come “modernità” che innovava sull’ “antichità” ereditata dalla cultura dei Greci e dei Romani.

Le cose si sono capovolte solo quando, dopo aver conquistato alla propria visione del mondo gli uomini e le istituzioni del bacino del Mediterraneo, il cristianesimo aveva ormai permeato di sé e dei propri valori almeno un millennio della storia umana trasformando molti popoli in nazioni definite “cristiane”.

Soprattutto a partire dalle nuove scoperte oltre-oceaniche e in particolare dal XVII secolo in poi, il cristianesimo e i suoi valori cominciarono ad essere ritenuti sinonimi di antichità, mentre valori nuovi venivano proposti e fatti propri progressivamente dall’Europa e dall’intero mondo occidentale, come sinonimi di modernità.

Gli animi più sensibili avevano avvertito assai per tempo la presenza di uno spirito nuovo che soffiava sopra il mondo cristiano e avevano tentato di tenerne conto per “svecchiare” la Chiesa, proponendo riforme che si caratterizzavano come un deciso e radicale ritorno alle fonti o alle origini della Chiesa cristiana o della vita monastica.

Nel passaggio dal primo al secondo millennio, riforme radicali di questo tipo investirono sia le istituzioni ecclesiastiche – si pensi alla cosiddetta Riforma gregoriana di Gregorio VII – sia le istituzioni monastiche. Nomi di rilievo in questo campo furono Pier Damiani, Romualdo di Ravenna, Giovanni Gualberto di Firenze e poi più tardi Bruno della Grand Chartreuse e Bernardo di Chiaravalle in Francia. Appena un secolo più tardi, nella stessa scia si posero, pur con un’accentuazione assolutamente più forte e più decisa sulla novità, lo spagnolo Domenico di Guzman e l’italiano Francesco d’Assisi, con tutta la carica “rivoluzionaria” che li accompagnava. Una carica che divenne prorompente, in altri tentativi di ritorno alle origini che ebbero luogo dal XVI secolo in poi, sia con la Riforma dei Protestanti europei, sia con la Controriforma della Chiesa cattolica uscita dal Concilio di Trento.

«In realtà», ci diceva Giorgio Bonaccorso, un monaco benedettino preside dell’Istituto di Liturgia Pastorale a Padova, «l’epoca che definiamo moderna ha prodotto una concezione della società che porta dalla riforma alla rivoluzione.

L’idea di novità, soprattutto a partire dalla rivoluzione francese, non si qualificò più come un ritorno a fasi precedenti della storia, ma come abbandono di tale passato anche in ciò che, per il suo valore normativo, era chiamato tradizione: con la modernità si ha la novità senza tradizione… Vi sono ovviamente molti altri aspetti della cultura moderna; si pensi, per esempio, alla rilevanza assunta dalla sfera individuale e dalla libertà soggettiva, come pure all’importanza della razionalità… e dell’ autorità della scienza rispetto a qualsiasi altra autorità… La questione centrale è costituita in ogni caso dalla concezione del rinnovamento come rivoluzione, dove la novità non viene più legittimata ricorrendo alle fonti, alle origini o alla tradizione4.

  

Domande aperte

 «È pensabile per un fenomeno culturale», compreso quello che caratterizza i nostri Ordini religiosi, «esibire un’identità che non mutui almeno alcune caratteristiche fondamentali dal passato?». D’altra parte, come «integrare in quella identità anche ciò che non è mai esistito appunto nel passato»?5. Sono gli interrogativi con cui apriva il dibattito del nostro Capitolo 2002 lo stesso don Giorgio Bonaccorso, ma sono anche le domande che interessano noi oggi qui, in questa nostra Assemblea.

Vediamo di farcene carico, con l’aiuto di questo specialista e di alcune riflessioni del cardinale Walter Kasper, abbozzando anche qualche risposta.

I punti nodali del postmoderno possono sostanzialmente essere riassunti, secondo Giorgio Bonaccorso, in:

a. «Una nuova sensibilità tanto verso l’ambiente naturale quanto verso i gruppi sociali»6. Una maggiore disponibilità dunque a farsi ferire il cuore dalla “compassione” verso tutte le creature e naturalmente anzitutto verso l’uomo che non gode né di benessere, né di bellezza, né di gioventù.

La differenza è una delle parole d’ordine della cultura postmoderna. Anche il cristianesimo antico e il mondo moderno avevano il senso della differenza… ma la postmodernità compie un passo decisivo verso l’abbandono di ogni riferimento universale e necessario…, così facendo relativizza tutto, promovendo una novità radicale…

Il sé postmoderno si pensa come un’entità discontinua costantemente plasmata e riplasmata in un tempo neutro… un pluralismo che spesso si trasforma in vuoto ideologico, nell’assenza di ogni senso e di ogni orientamento.

Non vi è alcuna formulazione che possa esaurire la verità, perché non vi è nessun grande racconto che orienti in modo fondativo l’esistenza.

Il pensiero risulta inevitabilmente debole, ossia «un infinito gioco interpretativo che non raggiunge mai un referente forte»7.

b. Il cardinale Walter Kasper (in una conferenza tenuta a Rovereto il 17 marzo 1997 nell’ambito del convegno per il Bicentenario della nascita di Antonio Rosmini e pubblicato dalla rivista Humanitas), dopo aver richiamato l’attenzione sul fatto che «il concetto di postmoderno non è assolutamente unitario neppure sotto il profilo filosofico»8, aveva tenuto a precisare, da parte sua, che «non è ambiguo solo il concetto di postmoderno, ma anche quello di modernità…». In realtà anche «le diagnosi sulla modernità», osservava il cardinale, «possono risultare antitetiche: la modernità può essere concepita, da un lato, come pretesa esagerata di totalità del pensiero; dall’altro come processo di progressiva differenziazione. A seconda della “diagnosi” formulata, la “terapia” postmoderna si configura infatti o come abbandono di ogni pretesa totalizzante, oppure, – è il caso del movimento del New Age – come ricerca di una nuova integralità»9.

E concludeva: «Il problema dell’unità e della molteplicità si pone in realtà come prima questione essenziale nell’ambito di discussione della filosofia del postmoderno.

La decostruzione postmoderna delle pretese totalizzanti della modernità comporta, inoltre la necessità di un’indagine critica della pretesa di totalità della ragione scientifica, cui dovrebbe far seguito la rivalutazione di due altre modalità del pensiero: l’estetica e la mistica10.

Il cardinale concludeva ricordando che il postmoderno va preso sul serio e aggiungendo che «la prima grande sfida è quella di trovare una giusta via al di là del fondamentalismo e del relativismo, del rigorismo e del lassismo, per operare una mediazione tra il senso della identità e l’apertura al dialogo»11. La rivisitazione del modello trinitario – che appartiene al cuore stesso della vita e della teologia della Chiesa – potrebbe fornire, per esempio, contenuti essenziali, «col suo simultaneo rispetto dell’unità e della pluralità, per rispondere a certe provocazioni postmoderne»12.

A proposito poi del carattere estetico del postmoderno, spinto fino alla relativizzazione della ragione scientifica, il cardinale rilevava che «dove le cose rimangono a tal punto indifferentemente l’una accanto all’altra, vi è il grande pericolo che la professione di pluralità e tolleranza si corrompa in indifferenza e disinteresse»13, fino a quell’abbandono della “comunicabilità” che riduce la vita a puro “rapporto estetico” in cui si permette che gli oggetti agiscano sull’uomo «in maniera più o meno eclettica, imponendo una loro com-presenza nell’esperienza del singolo anche quando sono chiaramente contraddittorie fra di loro»14.

Nella “nuova religiosità” caratterizzata dall’eclettismo si riscontra certamente in positivo, una rinnovata esigenza mistica fondamentale che offre all’annuncio e alla pastorale cristiana notevoli possibilità; ma si deve riconoscere anche che questa “religiosità” fluttua liberamente, rifuggendo soprattutto le istituzioni. Infatti si pone in un rapporto estetico con le altre religioni mondiali, desumendo elementi dalle diverse tradizioni religiose, a seconda della felicità che se ne attende e dell’aiuto che se ne spera… «E’ una religiosità che non si esprime quasi mai in affermazioni dottrinali, ma è spesso imbrigliata da una fede vaga e diffusa in una “forza superiore”; una religione tutto sommato ampiamente senza Dio»15.

Di conseguenza per un credente in Cristo l’incontro tra il cristianesimo e le religioni non si può comprendere solo con categorie cognitive ed estetiche, ma deve comportare anche la consapevolezza della dimensione drammatica – sia pure all’interno di una sincera condivisione dialogica – la presenza di concetti come quelli di conversione, scelta, testimonianza, partecipazione, generosità. In concreto occorre rendere tangibili il dialogo e l’annuncio come due aspetti di una stessa missione16. Ed esige i suoi diritti anche la dimensione etica17. Il tutto naturalmente perseguito con estremo rispetto delle scelte dell’altro, ma anche con pazienza senza che venga mai meno la speranza che prima o dopo, grazie al dono di Dio, si potrà realizzare un mondo in cui sia possibile fruire dell’unità nella pluralità sperimentati simultaneamente nella pace.

Con l’incarnazione di Cristo, la sapienza di Dio – in cui tutto è stato creato –, ha fatto il suo ingresso nella storia in tutta la sua pienezza. Dio ha così rivelato se stesso in Gesù Cristo… alfa e omega, asse e punto di convergenza dell’intera storia dell’umanità…

La comprensione cristiana della storia non è un mito, e neppure una “meta-narrazione” (un grande racconto), ma memoria passionis, ricordo attuativo (paradosis) della morte e della risurrezione di Cristo…

Nella forza della speranza, la comprensione cristiana della storia commemora il ricordo del dolore altrui e prende sul serio l’esperienza della sconfitta, come tiene irremovibilmente ferma la speranza nel compimento definitivo18.

  

La vita religiosa nella “nuova” Europa

 Credo che si possa partire da queste ultime osservazioni del card. Kasper per individuare alcuni elementi che potrebbero caratterizzare la vita religiosa nella “nuova” Europa nel contesto della dialogicità alla quale ha richiamato in tanti modi il Concilio Vaticano II19.

a. Fondamento di ogni possibile incontro fra le proposte della vita religiosa e la realtà dell’Europa contemporanea non può non essere anzitutto la memoria passionis et resurrectionis Domini. E’ il Kerigma cristiano. E’ il nostro Kerigma. La nostra stessa vita di consacrati, prima ancora che le nostre parole, è chiamata a essere memoria vivente e attuativa del memoriale della Pasqua.

Da qui una riappropriazione forte e determinante della nota eucaristica che deve caratterizzare la vita di ogni nostra comunità religiosa. Se la celebrazione eucaristica va ritenuta fons et culmen di ogni altra manifestazione della Chiesa, a fortori essa deve essere riconosciuta come fons et culmen di ogni manifestazione di vita consacrata.

E’ opportuno però ricordare che il Concilio parla di Eucaristia celebrata, cioè di quell’evento celebrativo che realizza nell’oggi di Dio quella comunione profonda dei diversi nell’unità che permette di testimoniare efficacemente, di fronte alle negazioni della postmodernità, che è possibile vivere le diversità non come dirompenti e inconciliabili fra loro, ma come fattori della manifestazione multiforme dell’unità comunionale.

L’Eucaristia celebrata è memoriale della passione-morte-resurrezione di Gesù, proposto dentro una comunità che è l’immagine permanente del mistero trinitario in mezzo alla storia e all’umanità.

Essere comunità cristiana significa allora impostare tutti i rapporti interni ed esterni alla comunità a partire dall’immagine eucaristica, in modo tale che chiunque possa riconoscere, dallo stile di vita dei singoli e dell’insieme, i lineamenti precisi di colui che, offrendo se stesso, si è fatto sacerdote, altare, vittima e sacrificio per dare al mondo la salvezza e la felicità, in rendimento continuo di grazie al Padre nello Spirito Santo.

b. Il tesoro da custodire gelosamente nel cuore, per arrivare ad essere ciò che abbiamo appena delineato, potrebbe essere individuato a questo punto in ciò che Giovanni Cassiano avrebbe chiamato Arca in cui sono custodite le tavole della Legge, cioè le Scritture nelle quali abita e dalle quali alita lo Spirito stesso di Dio. Infatti l’unica energia capace di realizzare il simultaneo rispetto dell’identità personale di ciascuno e le esigenze della comunione e dell’unità è quella garantita dalla quotidiana frequentazione della Parola di Dio.

Quest’ultima poi, lungi dal compiacere una tranquillitas ordinis che permetta di vivere indisturbati nel disimpegnativo “credere di credere”, è piuttosto spada a doppio taglio capace di immergersi fino nel midollo delle ossa, discernendo e distinguendo drammaticamente fra ciò che appartiene all’uomo vecchio, da strappare e da buttare nel fuoco, e ciò che, unico, deve essere condotto alla luce e alla crescita, perché fruttifichi negli spazi nuovi del Regno preparato dal Padre (cf Mt 25).

Ascolto quotidiano della Parola significa insomma esposizione costante alla luce tagliente e al fuoco esigente della conversione continua. Significa assenza di ogni compromesso che dovesse comportare una svendita del dono prezioso della fede e tanto meno abdicazioni, più o meno accomodanti, a proporre e testimoniare con franchezza al mondo lo spettacolo tragico di Cristo crocifisso.

c. Il dialogo, che siamo chiamati a vivere da credenti che hanno fatto la scelta della radicalità evangelica, non assumerà mai i contorni di un pacifismo ad oltranza che possa essere anche solo minimamente proposto o costruito sulla menomazione, l’indebolimento o tanto meno la negazione di quei valori che, in quanto cristiani, abbiamo riconosciuto presenti nella sapienza inaudita che accompagna l’altrettanto inaudito scandalo della croce di Cristo.

Il mondo nuovo che, in quanto credenti in Cristo crocifisso e risorto, intendiamo proporre alla nuova Europa col nostro semplice “esserci”, prima ancora che con le nostre opere e le nostre parole, sarà perciò un mondo abitato in ogni angolo dalla speranza dei «cieli nuovi e della terra nuova» i quali trovano proprio nella constatazione del vacuum e del non senso del pensiero debole, in cui è venuto a trovarsi questo vecchio mondo, figlio della modernità, il presupposto paradossalmente ideale in cui possa essere gettato con gioiosa speranza il seme della bella notizia del Vangelo con l’annunzio luminoso della Risurrezione di Cristo.

d. La bellezza che portiamo nella nuova Europa, quella bellezza che certamente salverà il mondo, si dovrebbe riflettere sui volti di ciascuno dei consacrati evangelici e dovrebbe irradiare dalle nostre comunità, perché «vedano le vostre opere buone o glorifichino il Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5,16). Ma noi sappiamo anche che questa “visione” sarà possibile solo se la nostra luce sarà luce autentica, simile a quella che, secondo il Vangelo, «viene accesa non per essere nascosta sotto un tavolo, ma per essere posta sopra il candeliere così che illumini l’intera abitazione» degli uomini (cf Mt 5,15; Mc 4,21; Lc 8,16).

Siamo stati chiamati, in quanto religiosi consacrati, a infrangere il nostro vasetto di unguento prezioso sul capo del Signore (cf Mc 14,3), non soltanto perché sia come «l’olio profumato versato sopra il capo di Aronne e che finisce fino a intriderne la sua fluida barba» (Sl 132), o come il nardo prezioso che Maria, la sorella di Lazzaro, utilizzò un giorno per versarlo sui piedi di Gesù, asciugandoli poi con i suoi capelli, ma perché sia anche «il profumo che si espande liberamente nell’intera casa» (cf Gv 12,1-3).

Credo che sia proprio questo il compito al quale ci sta chiamando il Signore in questa nuova Europa: essere come «città posta sul monte» che doni orientamento sicuro a tanti contemporanei che vagano, senza voglia né meta, nella depressione delle nostre valli (cf Mt 5,14).

e. Il postmoderno ha forse fatto toccare agli europei o agli occidentali il fondale di un abisso dal quale soltanto un nuovo berashit della Parola di Dio potrà definitivamente sollevarli.

Forse è stato dato proprio a noi, che condividiamo questa stessa sorte, insieme con le donne e gli uomini della nostra generazione, di annunziare con franchezza, gioia, libertà, amore, la Parola che salva e riapre all’uomo gli orizzonti nuovi di una vita nutrita di speranza.

Ma come assolveremo un compito tanto difficile, deboli e limitati come siamo? Non ci afferra forse lo sgomento al punto a imporci di dire, senza falsa umiltà, ma con piena consapevolezza e verità: «Signore non sono capace, non sono in grado, non sono degno». Oppure, facendo nostre le obiezioni di Mosè: «Non mi crederanno, non ascolteranno la mia voce, ma diranno: Non ti è apparso il Signore!» (Es 4,1) «Non sono un buon parlatore; non lo sono mai stato prima e neppure da quando hai cominciato a parlare col tuo servo. Sono impacciato di bocca e più ancora di lingua» (Es 4,10).

Se siamo ancora credenti, se abbiamo appena un po’ di fede, quanto un granellino di senape, sappiamo però anche cosa rispose il Signore: «Chi ha dato una bocca all’uomo? Chi lo rende muto o sordo, veggente o cieco? Non sono forse Io, il Signore? Ora va! Sono Io con la tua bocca e ti insegnerò Io quello che dovrai dire» (Es 4, 11).

Buon per noi se, imitando Mosè, ci armeremo di estrema fiducia in Lui, nonostante tutti i nostri travagli, i nostri dubbi, i nostri scetticismi e la nostra angoscia, rispondendo sereni: «Perdonami, Signore mio, manda chi vuoi mandare tu» (Es 4,13), e, se lo ritieni opportuno, eccoci, siamo qua, puoi mandare anche noi.

  

Indicazioni conclusive

 A conclusione di queste riflessioni, mi permetto di sintetizzare nei punti seguenti alcune indicazioni che aiutino tutti a ripensarsi come “religiosi” nella nuova Europa:

Una contestazione visibile della cupidigia e dell’idolatria del denaro. L’esempio di Madre Teresa di Calcutta.

Un recupero della stabilità nel senso proprio di mettere radici solide in un determinato luogo, per stabilire legami veri e duraturi con la gente condividendone gioie e dolori, fatiche e speranze. E dunque attento discernimento nel decidere spostamenti o dislocazioni di opere e di persone. L’esempio dei monaci trappisti di Tibhirine in Algeria e dei numerosissimi missionari e missionarie che hanno scelto di condividere la povertà, le malattie e la guerra presenti nei territori nei quali sono stati inviati, fino al rischio del sacrificio supremo della vita, hanno fatto riflettere molto non credenti e laici in questi ultimi anni.

Rinuncia all’efficienza ad oltranza, soprattutto quando certi criteri di conduzione delle comunità e delle Congregazioni rispondono più ad esigenze tecniche che non ai bisogni veri delle popolazioni in mezzo alle quali si è stati inviati.

Essere per gli altri. Il primato dell’amore generoso verso gli altri può comportare un “perdere la propria vita” aspettando di riceverla di nuovo come “salvata” dalle mani del Signore e non dalle nostre tecniche autodifensive dettate, in modi più o meno scoperti, dal primato dell’io a scapito del primato del noi o della comunione.

Il modo migliore di contestare l’egoismo individualista del postmoderno è infatti dato da esempi concreti di spoliazione di sé e di abbandono totale nelle mani di Dio, le quali si identificano con le mani di tutti coloro nei quali si nasconde il volto misterioso del Figlio dell’uomo che dirà: «Ogni volta che avete fatto queste cose a uno dei miei fratelli più piccoli, le avete fatte a me» (Mt 25,40).

Da qui il radicale negarsi, da parte dei religiosi di qualunque carisma, ad ogni pur minimo tentativo di strumentalizzazione o di sfruttamento dell’altro soprattutto quando l’altro non ha i mezzi fisici, intellettuali, economici o istituzionali per difendersi dalla facile sopraffazione dei più forti.

 Perseguimento dell’interiorità con conseguente rinuncia ad apparire, sviluppando un sano spirito critico, attinto al quotidiano confronto col modo di essere, di insegnare e di operare di Gesù così come ci viene proposto dal Vangelo e dalla riflessione di Paolo. Si gioca forse soprattutto su questo punto la credibilità della proposta “religiosa” nel contesto culturale del postmoderno che, come abbiamo visto, pone nell’appariscenza, nella scenografia e nel fare audience a tutti i costi la ragion d’essere stessa di una qualunque proposta ritenuta valida.

La “vita religiosa” – a differenza forse di alcune esigenze proprie della “Chiesa istituzionale” – dovrebbe non dimenticare mai di essere stata voluta dallo Spirito santo per essere nella Chiesa, e conseguentemente nel mondo, l’immagine permanente del “Crocifisso” abbandonato da tutti e lasciato solo perfino dal Padre, perché fosse chiaro al mondo intero che non sono le opere dell’uomo, neppure dell’uomo religioso, quelle che salvano l’umanità limitata e decaduta, ma è soltanto l’opera di Dio.

Annunziare al mondo l’efficacia dell’inefficiente, la potenza dell’impotenza, e la sapienza della stoltezza, appartiene al cuore stesso di ogni forma di vita religiosa. Non contestano forse tutti i religiosi con la povertà, la fiducia nel denaro; con la castità l’assoluto della fecondità umana a tutti i costi; e con l’obbedienza l’espropriazione dell’ego e di ogni forma di auto affermazione dell’uomo?

Ritorno alle fonti della Scrittura e dei Padri. Il postmoderno, e lo abbiamo visto, è pretesa di poter fare a meno del passato giudicato di fatto soltanto come costrizione e peso di cui liberarsi prima possibile e nel modo più radicale possibile. L’antidoto a simili pretese è certamente una sana valorizzazione della Tradizione con la T maiuscola. Una Tradizione che però, in ultima analisi, permette di ritornare a quell’unica fonte originaria di ogni tradizione, che è costituita dalla Scrittura ricevuta dalle mani degli Apostoli, criterio permanente di discernimento critico di qualsivoglia forma di vita religiosa cristiana.

Il ritorno alla comunità apostolica di Gerusalemme, così come viene descritta da Luca nel suo libro degli Atti, è una costante dalla quale nessuna realtà cristiana potrà mai prescindere.

L’archétipo della comunità monastica, creato e proposto durante le prime generazioni cristiane, diviene a sua volta necessario punto di riferimento e di confronto di ogni successiva forma con cui dovrà essere vissuta la radicalità evangelica nella storia, fino alla fine dei tempi20.

L’idolatria della novità a tutti i costi, che si traduce nel giovanilismo, per cui è degno di attenzione soltanto il nuovo e chi riesce a primeggiare, perché dotato di bellezza, gioventù, benessere, è una delle tentazioni più subdole da affrontare. Tuttavia credo che la si possa superare senza cadere nella demonizzazione di valori che appartengono per definizione al progetto voluto e perseguito da Dio lungo tutta la storia della salvezza umana.

Credo invece che si possa affrontare e vincere questa tentazione relazionando questi stessi valori con il resto della realtà creaturale. In quali modi concreti? Per esempio educando se stessi, e conseguentemente gli altri, a percepire la sete di bellezza che si cela in ogni essere creaturale al di là della corrispondenza o meno delle intuizioni avute ai canoni cosiddetti “convenzionali” della bellezza, che oltretutto mutano con estrema celerità, perfino nelle nostre comunità religiose, sotto gli imperativi dominanti della moda.

Le arti liberali sono il segno più evidente della diversità dell’uomo rispetto ad ogni altro essere creaturale. Perché non dare più spazio, all’interno dei nostri rispettivi carismi, alle capacità artistiche che caratterizzano tanti nostri religiosi e suore, senza piegarle necessariamente all’efficienza immediata richiesta dalle nostre scelte pastorali? Quante depressioni e nevrosi insanabili si sarebbero potute evitare nelle nostre famiglie religiose se non fossero state negate, vilipese, ironizzate, segnate a dito come stravaganze o hobbies inutili, le capacità artistiche, molte volte notevoli, di tanti loro membri finiti nella vacuità! E naturalmente ciò che dico delle capacità artistiche vale anche per ogni altro tipo di capacità, comprese quelle fisiche e intellettuali.

I giovani possiedono evidentemente delle risorse che non vanno in alcun modo sprecate bensì poste generosamente, senza invidie, senza gelosie, a servizio non solo delle nostre piccole comunità o Congregazioni, ma della Chiesa intera e dell’umanità. Sprecare forze giovanili, che potrebbero essere meglio impiegate nel gioioso allargamento del Regno di Dio, per garantire pigrizie più o meno ammantate di necessità dovute a malattie vere o immaginarie, dovrebbe essere considerato un non-senso da non ammettere in comunità. Dovremmo infatti ricordare con timore e tremore, soprattutto in questi casi, l’invettiva di Gesù in Mt 23,15: «percorrete il mare e la terra per fare un solo proselito e, ottenutolo, lo rendete figlio della Geenna il doppio di voi».

Tutto questo ci permette di tenere presente la terza nota caratteristica della postmodernità: il benessere perseguito ad oltranza. Siamo vittime tutti – ed è inutile tentare di nasconderci dietro il dito – di questa costante del mondo occidentale. Non ci vergogniamo affatto di pretendere, difendere, proporre, e qualche volta imporre, il nostro stile di vita, appunto occidentale, anche quando ci ritroviamo a testimoniare i nostri rispettivi carismi nel secondo, nel terzo o nel quarto mondo.

Certi conforts conquistati a fatica, e assolutamente legittimi nella parte occidentale del mondo, sono diventati a tal punto un’abitudine e una necessità, da non riuscire più a farne a meno. Ma forse proprio in questo ci giochiamo ineluttabilmente la nostra credibilità nei confronti degli altri. Io stesso rimango in dubbio su cosa ammettere e cosa evitare, e il dove e il quando e il come, a proposito di un ambito tanto delicato, ma una cosa mi sembra in ogni caso evidente: dovremmo essere più capaci di essenzialità, semplice sì, ma piena di calore e di bellezza, sia nei nostri modi di essere personali, sia nei nostri ambienti comunitari, nelle celebrazioni liturgiche e nei servizi vari che offriamo. Virtù suprema, in questo caso, è certamente il sano discernimento che dovrebbero avere non tanto i responsabili generali, quanto le singole comunità locali.

Il rischio dell’eccentricità. Abbiamo visto che una delle note caratteristiche del postmoderno consiste nell’impressionare, stupire, urtare, atterrire la gente. Basta osservare come “abbelliscono” – si fa per dire – il loro corpo con vestiti, amuleti, piercing, tatuaggi e cose varie i giovani e non più giovani delle nostre piazze. Il desiderio di attirare l’attenzione e di fare spettacolo può rasentare qualche volta il ridicolo soprattutto se a fare tutto questo sono giovani religiosi convinti che sia questa la strada da percorrere per far breccia nel cuore dei loro coetanei. Anche in questo caso non credo sia giusto ironizzare né tanto meno demonizzare nessuno. La tradizione francescana ha, per esempio, una lunga storia positiva in questo ambito. San Francesco, san Filippo Neri, san Giovanni Bosco e tanti altri sono davanti a noi quasi come prototipi di una simile scelta pastorale. E dal confronto con loro e con i loro metodi e contenuti di fondo credo che potremo ricevere indicazioni utili per un sano discernimento in questo campo. In tempi e luoghi appropriati, purché in tutto siano salvaguardate la purezza della fede e le esigenze della carità, mi sentirei felice di avere in comunità giovani e meno giovani creativi e fecondi come i santi che ho appena citato, anche a costo di dover accettare una certa quota di eccentricità.

La comunità religiosa immagine viva e permanente della comunione trinitaria. Mi sembra, questa, la proposta per eccellenza che nessuna comunità religiosa, quale che possa essere il suo carisma specifico, dovrebbe assolutamente trascurare.

Abbiamo notato che la fuga nell’individualismo soggettivo è una delle tendenze permanenti della cultura postmoderna. Questo, che può apparire un aspetto soltanto negativo della cultura contemporanea, nasconde però la sete di un valore estremamente grande, che non possiamo ignorare: la dignità della persona umana. E mi perdonerete se, su questo punto, mi permetto di ricordare di fronte a voi l’insegnamento che ho ricevuto da un nostro padre anziano, recentemente scomparso, che si chiamava don Benedetto Calati del quale ho scritto ripetutamente nei miei tre quaderni di Camaldoli intitolati Camaldolesi nella spiritualità italiana del Novecento, pubblicati con le EDB di Bologna negli anni 2000-2002.

Per ciò che riguarda l’accentuazione, tipicamente postmoderna, delle identità pluraliste e delle differenze direi che gli Ordini religiosi, visti tutti insieme, ne sarebbero una prova lampante. Il problema si pone invece, e diventa grave, quando una simile “identità pluralista” viene affermata a livello della singola persona umana che dice di sé: “io sono una e centomila”, aggiungendo che, appunto per questo, non si può neppur lontanamente pensare di potersi legare a una scelta definitiva per la vita, perché questo priverebbe la persona – così si dice – della libertà di cambiare, mutandosi in una delle altre novantanovemila identità nelle quali è contenuto l’intero!

Il rispetto delle differenze è divenuto per tanti anelito a diversificarsi cambiando identità ad ogni stagione della vita come i serpenti cambiano pelle col mutarsi delle stagioni annuali.

E’ ormai una realtà, in tante congregazioni e monasteri maschili e femminili, la presenza di quarantenni e oltre nei noviziati, che una volta ospitavano solo dei teenagers o al massimo di giovani dai venticinque ai trent'anni.

Sono le vocazioni dell’era postmoderna con le quali occorre fare i conti nell’Europa del prossimo futuro. Presto l’organizzazione del tradizionale periodo formativo dei candidati alla vita religiosa dovrà affrontare dunque problemi del tutto inediti nei quali sarà necessario verificare anzitutto se si è di fronte a conversioni autentiche o semplicemente a uno dei tanti assaggi di esperienze nuove ed exciting, come si dice in inglese, che darebbero un sapore momentaneamente diverso al palato desideroso di non perdere nessuna occasione della vita, sempre pronti ad assaporarne un’altra.

L’apertura al dialogo col diverso trova in questo contesto il suo humus più fertile, ma corre anche il rischio più pericoloso. Queste nuove vocazioni possono appartenere infatti indifferentemente sia alla fascia dei quarantenni disgustati della vita precedente, contro la quale intendono reagire con durezza e determinazione fondamentalista; sia alla fascia di coloro che, avendo cavalcato tutte le esperienze, religiose e non, intendono proseguire imperterriti sulla stessa linea, coinvolgendo, ove possibile, le comunità che li hanno accolti, pronti a gridare allo scandalo della chiusura mentale o confessionalista, di fronte a un rifiuto a seguirli per la stessa strada.

Potrebbe essere opportuno allora prepararsi per tempo a rispondere, in questi casi, richiamando l’estrema serietà che comporta ogni vero dialogo, così come abbiamo sentito nelle precisazioni del Cardinale Kasper.

 

Il senso di impotenza può trovare un antidoto, testimoniato con forza e con chiarezza, dalla riscoperta del perenne valore monastico del nascondimento e dell’insignificanza o inutilità, secondo i criteri del mondo, dell’essere «absconditus cum Christo in Deo» (Col 3,3). Da cui il valore di sentirsi frumentum Christi, secondo l’espressione di sant’Ignazio di Antiochia, il quale proseguiva: «dentibus bestiarum molar ut panis purus inveniar» (sarò triturato dai denti delle belve per essere riconosciuto pane puro [del Signore]).

 L’inutilità riscoperta alla luce della richiesta evangelica: «Quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare» (Lc 17,10), potrebbe essere un valore importante da riproporre proprio a quelle realtà religiose che abitualmente si autodefiniscono di “vita attiva”. Non sembri una provocazione. Si tratta infatti di accogliere con maggiore serenità la fine di alcuni servizi di supplenza che, proprio grazie alla sensibilizzazione perseguita per decenni, e in alcuni casi per secoli, sono diventati parti integranti della politica sociale in moltissimi paesi della nostra Europa, rendendo obsolete o comunque superate dallo sviluppo sociale, servizi e prestazioni di ogni tipo che avevano giocato un ruolo molto importante nella crescita, anche numerica, di tanta parte delle Congregazioni religiose qui rappresentate. Ricordiamo ancora le parole di Gesù registrate nel Vangelo di Giovanni: «In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12,24).

 Dopo tutto ciò che ci siamo venuti dicendo, mi permetto di chiudere ricordando a tutte voi e a tutti noi che ogni forma di vita religiosa cristiana, sia “attiva” che “contemplativa” o “mista”, non potrà mai prescindere da quel vero e proprio archetipo della vita consacrata che viene proposto negli straordinari testi di Luca in Atti 2, 37-38.42-47 e Atti 4,32-35; fondamentali testi nei quali ogni consacrato ritrova gli elementi portanti di quella apostolica vivendi forma che lo distingue e lo immette nel cuore stesso della Chiesa.

 


 1.                  Maria Ignazia Angelini, «Non mi vergogno del Vangelo» (Rm 1,16). La lettura delle Scritture, anima della spiritualità monastica di fronte alle sfide del postmoderno, in Emanuele Bargellini, Camaldolesi ieri e oggi. L’identità camaldolese nel nuovo millennio, Edizioni Camaldoli, 2000, pp. 88-90.

2.                  2. E. Shockenoff, Etica della vita. Un compendio teologico, Queriniana, Brescia 1997.

3.                  3. Cf Ivan Nicoletto (a cura di) Monachesimo arrischiato. Per una fede ospitale, Edizioni Camaldoli 2003.

4. Giorgio Bonaccorso, Sfidati dal presente, possiamo essere una presenza sfidante?, in Ivan Nicoletto (a cura di), Monachesimo arrischiato, Edizioni Camaldoli 2003, p. 12.

5. Ibidem, p. 12.

6. Ibidem, p. 13.

7. Così il Bonaccorso, o.c., pp. 13-14, con riferimento, spesso letterale a G. Chiurazzi, Il postmoderno. Il pensiero nella società della comunicazione, Mondadori, Milano 2002; K. Kumar, Le nuove teorie del mondo contemporaneo. Dalla società post-industriale alla società postmoderna, Einaudi, Torino, 2000; J.F. Lyotard, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Feltrinelli, Milano 1991; G. Vattimo, Ricostruzione della razionalità, in Filosofia ’91, Laterza, Bari 1992.

8. Walter Kasper, La Chiesa di fronte alle sfide del postmoderno in Humanitas n. 2, 1997, p. 173.

9. Ibidem, p. 174.

10. Ibidem.

11. Ibidem.

12. Ibidem.

13. Ibidem, p. 181.

14. Ibidem.

15. Ibidem.

16. Ibidem, p. 183,

17. Ibidem.

18. Ibidem, pp. 188-189, passim

19. Si ricordino soprattutto la Costituzione Gaudium et Spes e le Dichiarazioni Dignitatis humanae, Nostra Aetate e Unitatis Redintegratio.

20. Cf il mio articolo: Spiritualità monastica oggi, in Gianfranco Brunelli (a cura di), Monachesimo, laicità e vita religiosa, EDB, Bologna 1995, pp. 19-37. 

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