n. 9
settembre 2002

 

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Simbolismo e vita consacrata
«Un tesoro in vasi di creta»
(2Cor 4,7)
di Corrado Maggioni
 

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Anfora, brocca, calice, coppa, sono assimilabili all’accezione comune di vaso, applicata a una serie di utensili di varia fattura, accomunati dall’identica funzione di contenere qualcosa. Ne esistono di argilla, di legno, di vetro, di metallo, di pietra, oggi anche di materiale sintetico. I vasi di creta sono i primi e più diffusi testimoni dell’industriosità e della creatività umana: la loro produzione non è ordinata semplicemente a fini pratici e alimentari, ma occasione e mezzo per esprimere il genio artistico dell’uomo attraverso forme diverse e decorazioni originali.

Il vaso è un oggetto che rimanda ad altro da sé: innanzitutto all’artigiano che lo ha pensato, plasmato, decorato; e poi allo scopo per cui è stato fatto, giacché anche i vasi pregiati, in cui predomina l’aspetto estetico, evocano nella forma una precisa destinazione. Materiale, modellatura, scopo, provenienza, epoca, preziosità, contenuto… sono tutti aspetti che in qualche modo non parlano solo del vaso in sé, ma portano a coglierne la valenza simbolica. Circoscrivendo lo spazio, in cui viene delimitato il dentro e il fuori, il vaso nasconde e offre ciò che contiene. E’ il contenuto, infatti, a realizzare il significato del recipiente. Un vaso chiuso può celare un mistero. Un vaso vuoto è segno di capacità recettiva o di totale oblazione; ma anche… di inservibilità.

La sua forma dice malleabilità verso chi l’ha plasmato. La sua apertura verso l’alto invoca l’effusione di una presenza che riempia. Il suo ritaglio di forme nello spazio implica solidità. La sua integrità impedisce la dispersione di quanto contiene. La sua fragilità è proverbiale: basta poco per ridurlo in cocci. Tutti questi significati contribuiscono a qualificare il vaso come simbolo di recettività, interiorità e oblatività. Esso allude al mistero dell’esistere in un corpo, luogo in cui è racchiusa e circola la vita ricevuta affinché, a sua volta, venga donata.

 

Un opera che ispira

Nessun vaso si fabbrica da sé. La sua esistenza suppone un vasaio che lo ha ideato e, in una parola, dato alla luce. Il passaggio dall’informe argilla alla forma scolpita del vaso richiede una mente ispiratrice, delle mani esperte, l’azione di elementi come l’acqua e il calore del sole o del fuoco: il vaso racconta pertanto un gesto creativo, offrendo uno spiraglio interpretativo sull’origine dell’uomo. Chi è il “fattore” della natura umana? E’ rintracciabile in essa la firma di Colui che l’ha posta in essere? Non è facile rispondere a tali domande, perché la firma non si trova per esteso, ma è riconoscibile tramite indizi da decifrare.

Ecco perché gli antichi Egizi veneravano nel dio Khnum colui che, su una ruota di vasaio, modellava il germe della vita umana prima di affidarlo alla normale generazione nel grembo materno. Secondo una tradizione mesopotamica, i primi uomini furono plasmati col fango mescolato al sangue del sacrificio di un dio. La mitologia greca faceva risalire l’origine del genere umano all’impasto di terra e acqua modellato da Prometeo. Mitico è il vaso di Pandora.

Il vaso ha un suo posto di rilievo in ambito cultuale, specie nei sacrifici e nell’offerta di doni alla divinità. In Mesopotamia, era attribuita funzione di altare a supporti a forma di vaso in cui erano posti dei rami di palma, innaffiati da sacerdoti. Similmente, i rilievi sulle pareti dei templi egizi mostrano il re nell’atto di offrire agli dei coppe colme di latte e vino. In ogni espressione religiosa il rapporto con Dio trova visibilità simbolica nel presentare alla divinità bevande e cibi, ovviamente in vasi. Sono soprattutto i liquidi (acqua, olio, vino, profumo, latte, sangue) ad aver bisogno di recipienti adatti, sia per attingerli che per conservarli e farne dono.

Anche i pasti rituali, in cui si stringono patti di comunione con la divinità o vincoli di amicizia tra popoli e persone, prevedono l’uso di vasi “sacri”, distinti da quelli di uso comune, ossia “profani”. La stessa descrizione del culto dell’Antico Testamento menziona espressamente recipienti di vario tipo, usati per riti sacrificali e di espiazione (cf 2Cr 24,14). In un vaso di terracotta viene immolato un uccello con acqua viva per la purificazione del lebbroso (cf Lv 14, 5). Nella dedicazione dell’altare, già al tempo dell’Esodo, sono impiegati per l’oblazione piatti e vassoi d’argento contenenti farina impastata con olio e coppe d’oro colme di profumi (cf Nm 7). Né c’è da dimenticare la conca di rame contenente l’acqua per le abluzioni dei sacerdoti (cf Es 30,17). Il bacino di metallo con abbondante acqua lustrale, che troneggiava nel tempio di Salomone, ha il significato del bacino cosmico, luogo originario di vitalità (cf 1Re 7,23-26).

 

Nelle mani del vasaio

In tali coordinate culturali e religiose si muove anche la tradizione biblica delle Scritture, innervata dalla “novità” dell’amore di Dio creatore e redentore. Così scrive l’autore delle origini: «Il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente» (Gen 2,7). In Adamo (tratto dalla ’adamah = terra) è rinvenibile l’immagine e la somiglianza del vasaio che lo ha dato alla luce, con supremo e libero volere: «Ecco, come l’argilla è nelle mani del vasaio, così voi siete nelle mie mani» dice il Signore (Ger 18,6). A tale affermazione di Dio, corrisponde la professione di dipendenza dell’uomo dal suo Creatore: «Noi siamo argilla e tu colui che ci dà forma, tutti noi siamo opera delle tue mani» (Is 64,7).

Non è nella logica delle cose, dunque, che la creatura si stimi uguale al suo Creatore: «Forse che il vasaio è stimato pari alla creta? Un oggetto può dire del suo autore: “Non mi ha fatto lui”? E un vaso può dire del vasaio: “Non capisce”?» (Is 29,16). Dio è il “signore” dei vasi siglati con la sua impronta. Come il vaso dipende dalle mani del vasaio che lo plasma secondo un intento preciso, così anche l’uomo, ugualmente tratto dalla polvere del suolo: «Come l’argilla nelle mani del vasaio che la forma a suo piacimento, così gli uomini nelle mani di colui che li ha creati, per retribuirli secondo la sua giustizia» (Sir 33,13).

Se l’opera non sortisce secondo le attese, chi la modella è pronto a rimaneggiane l’argilla in vista di una nuova creazione. Lo rileva Geremia, osservando il vasaio al lavoro: «Se si guastava il vaso che egli stava modellando, come capita con la creta in mano al vasaio, egli rifaceva con essa un altro vaso, come ai suoi occhi pareva giusto» (Ger 18, 4). Certo, un vaso che non si presta al servizio per cui è stato voluto non ha motivo di esistere e perciò viene frantumato.

Come il vasaio può spezzare i propri vasi, così il Creatore ridurrà in cocci la superbia dell’opera delle sue mani. Il re Ioiakim, infatti, per l’infedeltà di cui si è macchiato viene paragonato a un vaso spregevole e rotto, che non piace più a nessuno (cf Ger 22,28). Guai all’uomo che si ribella contro Dio, discutendo in modo arrogante «con chi lo ha plasmato»; egli è semplicemente «un vaso tra altri vasi di argilla. Dirà forse la creta al vasaio: “Che fai”? oppure: “La tua opera non ha manichi”?» (Is 45,9). Al Messia, inviato per ristabilire il dominio fino ai confini della terra, sarà dato il potere di frantumare interi popoli «come vasi di argilla» (Sal 2,9).

Sarà rimasta impressa nelle menti degli anziani e dei sacerdoti di Gerusalemme, la lezione impartita ad essi da Geremia, il quale, comprata una brocca di terracotta, presso la Porta dei cocci la spezzò sotto i loro occhi, accompagnando il gesto con queste parole: «Così dice il Signore degli eserciti: Spezzerò questo popolo e questa città, così come si spezza un vaso di terracotta, che non si può più accomodare» (Ger 19,1-11).

La fragilità del vaso illustra bene la fragilità dell’uomo, sia fisica che spirituale: entrambi sono fatti di terra. Sono consistenti eppure precari. Il loro valore sta soprattutto in quanto contengono: alla grazia di Dio deve corrispondere la vigilanza umana, che implica sapienza e prudenza affinché il vaso non si crepi, compromettendone la capacità di custodire il dono ricevuto. L’insipienza, infatti, manda in rovina, giacché «l’interno dello stolto è come un vaso rotto, non potrà contenere alcuna scienza» (Sir 21,14). Perdere il favore di Dio è sentirsi ridurre a un vaso vuoto (cf Ger 51,34).

 

Vaso di elezione

Un vaso è fatto anzitutto per contenere… Similmente, l’uomo per essere ricettivo del progetto di Dio. Per questo la Scrittura ricorre volentieri all’immagine del vaso per esortare il credente a valutare e riscoprire la sua vocazione di custode dei doni del Signore, divenendo luogo di accoglienza e di oblazione del mistero della grazia divina riversata nei cuori dallo Spirito.

Saulo è indicato dal Signore stesso ad Anania come “un vaso di elezione”, ossia colui nel quale egli intende depositare la missione di annunciare il suo nome davanti ai popoli, ai re, ai figli di Israele (cf At 9,15). San Paolo non dimenticherà mai di essere al servizio di Colui che lo ha “invasato” della sua santa unzione, per renderlo docile portatore della sapienza del Vangelo. Mai lo abbandonerà la coscienza della propria fragilità: anzi, la sua debolezza rende più chiara la straordinaria potenza effusa in lui per grazia del cielo. La chiamata a far conoscere la gloria divina che risplende sul volto di Cristo è affidata, in effetti, a vasi di “coccio”: «noi abbiamo questo tesoro in vasi di creta, perché appaia che questa potenza straordinaria viene da Dio e non da noi» (2Cor 4,7).

Il simbolismo del vaso è caro a san Paolo per illustrare il mistero del vivere in Cristo. Se ne serve, sull’esempio dei profeti d’Israele, per mostrare la sovranità del volere divino che guida le sorti degli umani, con paziente misericordia: «O uomo, tu chi sei per disputare con Dio? Oserà forse dire il vaso plasmato a colui che lo plasmò: “Perché mi hai fatto così”? Forse il vasaio non è padrone dell’argilla, per fare con la medesima pasta un vaso per uso nobile e uno per uso volgare? Se pertanto Dio, volendo manifestare la sua ira e far conoscere la sua potenza, ha sopportato con grande pazienza vasi di collera, già pronti per la perdizione, e questo per far conoscere la ricchezza della sua gloria verso vasi di misericordia, da lui predisposti alla gloria, cioè verso di noi, che egli ha chiamati non solo tra i Giudei ma anche tra i pagani, che potremmo dire?» (Rm 9,20-24).

Dipende da Dio la nostra santificazione, ma a noi tocca rispondere al disegno per cui ci ha creati e chiamati alla santità: «In una casa grande non vi sono soltanto vasi d’oro e d’argento, ma anche vasi di legno e di coccio; alcuni sono destinati ad usi nobili, altri per usi più spregevoli. Chi si manterrà puro astenendosi da tali cose, sarà un vaso nobile, santificato, utile al padrone, pronto per ogni opera buona» (2Tm 2,20-21). Ed è ancora facendo leva sull’allusione tra vaso e corpo, che l’Apostolo ammonisce ad evitare la dissolutezza della vita sessuale: «Perché questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione: che vi asteniate dall’impudicizia, che ciascuno sappia mantenere il proprio corpo (in greco vaso) con santità e rispetto, non come oggetto di passioni e libidine» (1Ts 4,4-5).

 

Un ammirabile “vaso”

L’antico uso di raffigurare un’anfora sulle lapidi catacombali è da ricondurre alla simbologia che vede nel cristiano il vas Christi. Prendendo dimora nel battezzato, Cristo abita nel nostro corpo, trasformandolo in sacrificio spirituale, vivente e gradito a Dio (cf Rm 12,1). Non sono più i vassoi d’argento pieni di fior di farina né le coppe d’oro colme di profumo che Dio desidera ricevere nel culto inaugurato dalla nuova alleanza sigillata nel sangue del suo Figlio, ma quel culto spirituale che sale a lui da un’esistenza conformata a quel sacrificio. Siamo noi i vasi colmi di preghiera che Dio gradisce, ossia la nostra vita obbediente a ciò che esce dalla sua bocca. Non a caso, infatti, davanti all’Agnello celeste san Giovanni descrive l’offertorio «di coppe piene di profumi, che sono le preghiere dei santi» (Ap 5,8).

Non è sfuggita alla pietà medievale l’applicazione del simbolo del vaso alla Vergine Maria: docile alla mano dell’Eterno, lo Spirito ha ri-plasmato in lei l’originale natura umana compromessa dal peccato; nella sua integrità è maturato il frutto della vita; dalla sua oblatività sono offerti il pane e il vino che nutre le nostre anime.

I titoli con cui è onorata nelle litanie lauretane: vas spirituale, vas honorabile, vas insignae devotionis (tempio dello Spirito Santo, tabernacolo dell’eterna gloria, dimora consacrata di Dio), trovano la loro migliore spiegazione nei testi dei Padri antichi e medioevali, d’Oriente e d’Occidente. Così sant’Efrem acclama Maria: «Vaso di tutta la grazia dello Spirito Santo». L’inno Akathistos: «Esulta, o vaso che hai ricevuto l’inesauribile balsamo, in te versato perché non manchi mai». San Germano di Costantinopoli: «Sacrosanto vaso d’oro purissimo, che contiene la vera Manna del cielo, che è Gesù Cristo, dolcezza delle anime nostre». Adamo di S. Vittore: «Salve, o Madre del Salvatore, vaso scelto, vaso onorabile, vaso della grazia celeste, vaso da sempre eletto, vaso fuori del comune, vaso plasmato dalle mani della Sapienza». E sant’Anselmo: «La carne della Vergine è chiamata vaso spirituale perché nella sua carne non regnò il peccato, né la carne si ribellò allo Spirito, né la carne ritardò lo Spirito, perciò non fu solo pura, ma purissima». Per questo, il vaso del suo corpo non è stato frantumato dalla corruzione del sepolcro!

 

L’umiltà di servire con sapienza

La diversità non deve far scordare la “originalità” di ciascun vaso, superando inutili confronti sulla maggiore capienza: a che serve l’ampiezza se poi resta soltanto un vuoto immenso, incapace di adempiere al disegno che ha ispirato il vaso? Non conta “quanto” un vaso può contenere: è decisivo che svolga al massimo la propria capacità di servizio.

Vale anche per la vita religiosa! La coscienza della propria “originalità” e la certezza che nessuno potrà colmare il vuoto del proprio dono incompleto a Dio e ai fratelli, deve portare la persona consacrata a corrispondere docilmente alla vocazione ricevuta. Ecco l’augurio a chi si dispone a consacrarsi al servizio del regno dei cieli con la professione perpetua: «Dio che ha iniziato in voi quest’opera buona, la porti a compimento» (Rituale, p. 47).

Non c’è da illudersi, poiché siamo fatti di “coccio”: la superba confidenza nella propria forza anziché in quella del Vangelo è causa di incrinature nel nostro vaso, non facilmente riparabili se non dalla misericordia divina e dalla comprensione del prossimo. La virtù dell’umiltà e della prudenza (talvolta scaltrezza) deve far parte del bagaglio con cui i religiosi sono chiamati ad affrontare il cammino della vita con altri vasi, di argilla e di ferro… Così si prega per i neo-professi: «Ti piacciano per l’umiltà, o Padre, ti servano docilmente» (Preghiera di benedizione I);

Per tutelare l’integrità del proprio vaso, affinché non si disperda la santa unzione riversata in esso dallo Spirito di Dio, è necessario conoscere i propri punti di fragilità e di forza, valorizzando le potenzialità impresse in noi da Colui che ci ha plasmati così. Nell’accogliere il proposito delle neo-professe, così la Chiesa prega: «Manda, o Signore, il dono dello Spirito su queste tue figlie… Negli eventi umani sappiano vedere la divina provvidenza che li guida» (Preghiera di benedizione II).

Dal simbolismo del vaso ai tre voti: la castità come trasparente circolazione di quell’Amore che basta a colmare di gioia il nostro cuore; la povertà come scelta di acquisire ricchezze che non sono di questo mondo; l’obbedienza come tensione continua di conformarci alle attese del Vasaio che ci ha creato.

Si può finire frantumati dall’egoismo, ma anche dall’amore. Quando sorella morte ridurrà in cocci il nostro vaso di argilla, sia il tesoro in esso contenuto a riversarsi nelle coppe d’oro presso il trono dell’Agnello. Avvenga di noi come del vasetto di olio assai prezioso che Maria di Betania spezzò per onorare il Signore e riempire di profumo tutta la casa (cf Gv 12,3).

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