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 n°1 del 2001

 

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La notte della vita consacrata oggi
Valori teologici e spirituali

di
Emilio Grasso

 

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Il termine "notte"

Trattando la questione della fede san Tommaso afferma che "ogni creatura appare tenebra quando è messa a fronte dell’immensità della luce divina"1. La notte, quindi, la si comprende e definisce in relazione al giorno, come le tenebre in relazione alla luce.

Analogicamente, possiamo propriamente parlare di "notte della vita consacrata oggi" solo se compariamo due momenti temporali di questa. Dobbiamo altresì aggiungere che vanno tra di loro comparati momenti omogenei e di significato comune.

In questo senso bisogna diffidare di una indebita comparazione tra il momento originario e originante di un Istituto di vita consacrata e il momento della quotidianità dello svilupparsi storico di un determinato carisma. A maggior ragione vanno evitate comparazioni e confronti tra la vita dei cosiddetti "movimenti" e quella degli "Istituti di vita consacrata". Queste comparazioni sono, come altre, improprie e forvianti poiché mettono a confronto due momenti completamente differenti nella genesi e nella struttura e che caratterizzano fenomeni tra loro diversi. Il che, naturalmente, non esclude anzi favorisce il dialogo e il reciproco arricchimento.

Per usare un linguaggio caro a Sartre, non possiamo mettere a confronto il momento irrepetibile del "gruppo in fusione", "la Bastiglia come esigenza primaria della libertà comune", con il sistema istituzionale che ne deriva e nel quale la libertà dei singoli rinvia necessariamente all’autorità come terzo regolatore.

Riprendo le categorie introdotte dal sociologo Francesco Alberoni e ne do una interpretazione del tutto personale2. Alberoni usa le nozioni di stato nascente, innamoramento, istituzione, amore.

L’innamoramento lo possiamo considerare come l’irrompere del nuovo e del gratuito nella vita, l’amore come l’unica possibilità di fedeltà a quell’istante unico.

L’innamoramento è libertà, rottura di vincoli precedenti, creazione di ciò che non v’era. L’amore, invece, è legge che deriva da quell’innamoramento, costruzione nello spazio e nel tempo del contenuto di quell’incontro.

L’amore si colloca tra il principio e la fine ed è caratterizzato dalla nostalgia e dal desiderio, muovendosi tra memoria e futuro. L’innamoramento ascolta e contempla. L’amore attua e rende visibile, intelligibile, comunicativo quel fondamento.

Si ama perché si è innamorati. Se si è veramente innamorati non si può non amare. Solo chi arriva a essere "contemplativo in azione"3 unisce nello stesso atto innamoramento e amore.

Se dunque, riprendendo il concetto iniziale di san Tommaso, consideriamo la vita consacrata nel suo attuarsi storico e la paragoniamo al carisma delle origini e al suo pieno significato finale, dobbiamo sempre considerare il tempo che viviamo come "notte".

Il criterio del giudizio, infatti, ci è dato dall’alfa e dall’omega in cui ci si muove e qualsiasi realizzazione è sempre "notte", di fronte alla luminosità del mattino e allo splendore del giorno ultimo e nuovo.

Se si perdono di vista questi punti orientativi del cammino si evacua il significato teologale e spirituale della notte, non si coglie la ricchezza del tempo che ci è dato vivere, si creano attese e delusioni, progetti e fallimenti, successi e smarrimenti che nulla hanno a che fare con il carisma che ci è dato vivere.

Dico questo poiché molte volte si usa il termine "notte" senza specificarne il significato e si carica questo concetto di valenze improprie. Sul piano dell’esperienza personale, poi, cui il termine è maggiormente inerente, fenomeni come la malinconia, la depressione e altre anomalie psichiche possono accompagnare la notte spirituale, ma non ne costituiscono il proprium.

In altre parole non tutto quello che non riusciamo a controllare e a far rientrare in schemi rispondenti a una certa razionalità possiamo chiamarlo "notte".

Questa precisazione è fondamentale poiché introduce una distinzione tra fenomeni differenti che vanno pertanto affrontati con una pluralità di strumenti analitici, diversificando conseguentemente anche le risposte.

Va evitato il rischio del riduzionismo a un solo fattore nell’analisi d’un fenomeno che, invece, va abbordato con l’apporto delle differenti discipline, nel rispetto dell’autonomia d’ogni campo d’indagine. Questo permette l’individuazione sempre più precisa del problema nelle sue giuste dimensioni e la conseguente risposta ai corrispondenti livelli.

Il segno decisivo, per parlare di notte in senso teologale, è il ricordo di Dio e la sollecitudine penosa di servirlo, pensando di non far nulla4.

San Giovanni della Croce, proprio nella Notte oscura, sottolineava la relazione struggente con l’illuminazione della "fede oscura e viva, della speranza certa e della carità perfetta", proprio ladove più alto è il momento delle tenebre e della morte interiore.

L’anima – scrive san Giovanni della Croce – "indossava il bianco vestito della fede mentre usciva da questa notte oscura, allorché camminando, come è stato detto, in mezzo a tenebre e angustie interiori, l’intelletto non trovava alcun sollievo di luce né in alto, poiché il cielo le pareva chiuso e Dio nascosto, né in basso, poiché i suoi maestri non la soddisfacevano. E così essa soffrì con perseveranza passando per quei travagli senza stancarsi e venir meno all’Amato, il quale nei travagli (e nelle tribolazioni) prova la fede della sua sposa, affinché essa possa dire con verità le parole di David: Per le parole delle tue labbra io perseverai per aspri sentieri"5.

Pluralità di letture dei carismi

Un’altra considerazione metodologica s’impone. Con l’espressione "vita consacrata" ci si riferisce a una serie di fenomeni differenti per origini, tipologie, datazione, finalità, aree geografiche e culturali, per cui risulta del tutto impossibile dare una valutazione complessiva dei problemi, delle difficoltà, degli aspetti negativi che non si vorrebbe che passassero al nuovo millennio. Altrettanto dicasi delle speranze e delle attese, delle sfide e delle proposte.

Riferendosi, infatti, a un fenomeno di esteso significato, si rischia di affermare qualcosa che, volendo abbracciare tutta la complessità del fenomeno, non contiene nulla di significativamente rilevante.

Cosa possono avere in comune Istituti di antica fondazione nati in paesi di cristianità costituita e carichi di memorie, d’una teologia elaborata e sperimentata, di finalità ben determinate, di strutture e finanziamenti consolidati, con Istituti nati in paesi di recente evangelizzazione per rispondere a esigenze contingenti, senza un fondamento spirituale proprio, con strutture e finanziamenti precari?

Cosa hanno in comune Istituti poveri di storia e di mezzi, ma affermati in contesti altamente conflittuali e in espansione vocazionale, con Istituti ridotti all’orlo della sopravvivenza, in attesa della vocazione che non arriva e che non sono disposti, dopo aver perso l’ars viviendi, a apprendere l’ars moriendi?

E riferendosi ai contesti culturali e geografici, cosa hanno in comune Istituti che vivono in aree ove ancora si respira il pre-moderno e altri ove il postmoderno è avanzato? E cosa Istituti con un’apertura internazionale e altri che si sviluppano solo su basi strettamente locali? Vi sono poi Istituti così legati al periodo storico nel quale sono nati e del quale hanno interpretato le esigenze che risultano difficilmente capaci di inculturarsi in altre situazioni. In questi Istituti s’è creata tra carisma e cultura del tempo di fondazione un tale amalgama che i due elementi, se separati, rischiano di produrre la dissoluzione del tutto.

Da queste brevi e sommarie considerazioni ne consegue la necessità che ogni Istituto rilegga il suo carisma e la sua storia nel tempo e nel luogo ove è chiamato a vivere, facendo anche una pluralità di letture contestualizzate.

Fedeltà creativa nel tempo della globalizzazione

Una delle chiavi di lettura del nostro tempo è senz’altro quella introdotta da McLuhan quando parla del cosiddetto "villaggio globale".

Il pianeta internet e tutto il sistema telematico permettono sempre più il trasferimento d’ogni avvenimento dalla periferia al centro e contemporaneamente dal centro a ogni punto della periferia. Questo comporta la riduzione d’ogni realtà periferica a un’unica realtà centrale, ma anche il frantumarsi del centro in una miriae di punti periferici.

Mentre si afferma sempre più una direzione unicentrale, si moltiplica in pari tempo tutto un policentrismo, con conseguente esplosione di conflitti non più governabili. Non si tratta di demonizzare il fenomeno e di cercare nella parola magica "globalizzazione" il capro espiatorio su cui scaricare tutti i problemi che si presentano. Si tratta, per noi, di capire il fenomeno e di differenziare le risposte, a partire dallo spazio che è nostro come consacrati.

La vita consacrata, infatti, riacquista tutto il suo valore profetico solo nella misura in cui riscopre la propria peculiarità e rinunzia con gioia e pace a tutti quegli spazi che non costituiscono il suo proprium.

I consacrati trovano la fonte della propria vita nello specifico carisma autenticato dalla Chiesa che sono chiamati a leggere e inculturare nei mutati contesti storici. Ciò richiede quella fedeltà creativa di cui parla l’Esortazione apostolica Vita consecrata, ladove fa risuonare l’appello "a ricercare la competenza nel proprio lavoro e a coltivare una fedeltà dinamica alla propria missione, adattandone le forme, quando è necessario, alle nuove situazioni e ai diversi bisogni, in piena docilità all’ispirazione divina e a al discernimento ecclesiale" (VC 37).

Analogicamente alla lettura della Sacra Scrittura, anche il carisma d’un Istituto va letto e interpretato con l’aiuto dello stesso Spirito mediante il quale è stato scritto all’inizio d’una storia (cf DV 12). Al di fuori di quello Spirito possono darsi varie griglie di lettura, ma esse non danno la ragione ultima dell’esistenza d’un Istituto e non ne garantiscono più la sopravvivenza secondo il progetto di Dio.

In tal caso l’Istituto può anche trovare una via di sopravvivenza, nuove forme di consenso e anche di successo. Ma questa luce nulla avrebbe a che fare con il suo alfa e il suo omega, unici punti nei quali un Istituto trova le stelle orientative nella notte che deve vivere.

Ritorna a questo punto il discorso sulla notte intesa in senso teologale, come anche, in maniera speculare, quello sul giorno.

V’è sempre la tentazione in agguato di sfuggire per vie traverse, attraverso scorciatoie e improvvisazioni, alla notte e al deserto che dobbiamo attraversare, se vogliamo arrivare alla pienezza della luce unica che illumina il cammino.

Nell’espressione "fedeltà creativa", cui i consacrati sono particolarmente chiamati in questo tempo caratterizzato da profonde mutazioni contestuali che configurano un’autentica svolta epocale, sono racchiusi l’alfa e l’omega, il principio e la fine della vita consacrata.

Tra questi due punti luminosi si compie il viaggio nel tempo della notte.

La fedeltà creativa, infatti, contiene in sé la nascita e lo sviluppo del carisma delle origini e richiama due dimensioni della vita consacrata: quella profetica e quella escatologica.

La dimensione profetica

"La funzione di segno, che il concilio Vaticano II riconosce alla vita consacrata, si esprime nella testimonianza profetica del primato che Dio e i valori del Vangelo hanno nella vita cristiana. In forza di tale primato nulla può essere anteposto all’amore personale per Cristo e per i poveri in cui Egli vive" (VC 84).

Si configurano qui due istanze con le quali i consacrati sono chiamati a rapportarsi. Si tratta, per riprendere alcune piste di ricerca delineate da due dei maggiori teologi del nostro secolo, Karl Rahner e Edward Schillebeeckx, d’una visione che sia allo stesso tempo mistica e d’impegno sociale, politico ed economico. Impegno che esige assolutamente e necessariamente una formazione teologale e teologica, con l’orecchio teso alla voce del passato e della grande traizione religiosa e umanistica, che deve cominciare a essere trasmessa sin dal noviziato6.

In un tempo in cui v’è un’autentica inflazione di profeti e ognuno si sente autorizzato non si sa bene da chi a smerciare le sue profezie, è bene richiamare i caratteri del vero volto del profetismo cui i consacrati sono in maniera del tutto speciale chiamati a confrontarsi.

Ravasi indica tre criteri oggettivi7:

  1. Il segno attuato, così formulato da Geremia: "Egli sarà riconosciuto come profeta mandato veramente dal Signore soltanto quando la sua parola si realizzerà (Ger 28, 9).

  2. L’analogia della fede: non può il profeta essere in contraddizione col messaggio globale della Rivelazione (cf Dt 13, 2-4).

  3. La non-burocratizzazione del carisma. Se il profeta perde la sua autonomia nella fedeltà alla parola di Dio vivente nella storia e si cristallizza in una struttura, dipendendo dalle formule fisse della tradizione e del potere politico, non è più portavoce di Dio, ma professionista servile (cf 1Re 22, 5-12).

Vivere la funzione profetica comporterà quindi per i consacrati:

  1. Il vivere le cose dette, mostrando nella propria persona il volto concreto della parola e ponendo all’interno della relazione l’incarnazione della parola stessa. Con la certezza che il nuovo volto della vita consacrata sarà soprattutto il volto della relazione8.

  2. Assumere la globalità del messaggio rivelato senza mutilazioni o messe tra parentesi delle parti che possano risultare scomode all’interlocutore. Purtroppo molte volte si tagliano e sopprimono le parti del Vangelo che la mentalità contemporanea, da noi interpretata, giudica incomprensibili. Si elimina o edulcora così lo scandalo e la follia, si riduce il tutto in pillole facilmente digeribili, si cerca di propinare quel che si ritiene accettabile e si finisce col restare assimilati in tutto e per tutto alle mode del tempo. Pronti poi, come le mode cambiano, a strappare pagine non più assimilabili e, magari, a rincollare quelle non prima usate. Si cae in tal maniera, pur partendo dalle migliori intenzioni, in quella che il Card. Ratzinger chiama "l’ideologia del dialogo, ideologia che si sostituisce alla missione e all’urgenza dell’appello alla conversione"9.

  3. Il rispetto delle prime due condizioni farà del consacrato l’amico di Dio e dei poveri. La sua presenza nel mondo non sarà di tipo consolatorio e alienante, intimista e deresponsabilizzante. Al contrario sarà una presenza, come richiesto nell’Evangelii nuntiandi pronta a "sconvolgere mediante la forza del Vangelo i criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti di interesse, le linee di pensiero, le fonti ispiratrici e i modelli di vita dell’umanità, che sono in contrasto con la parola di Dio e col disegno della salvezza" (EN 19).

I consacrati non dovranno aver paura di dire verità anche scomode, verità che contrastano con l’indirizzo delle istituzioni politiche o religiose e che possono mettere in pericolo la vita di chi le annunzia.

L’annunzio, infatti, fa già irrompere il Regno nella storia e questa irruzione comporta sempre, in qualche maniera, una morte.

La dimensione escatologica

La seconda dimensione richiamata dalla fedeltà creativa è la dimensione escatologica. È nota l’affermazione di Balthasar: "L’escatologia è il segno dei tempi della teologia contemporanea"10.

Il grande teologo ricorda che "il regno di Dio, poiché Gesù è un uomo, non viene soltanto dall’alto e dall’esterno; è essenzialmente anche frutto della terra. Frutto di Maria e in essa di tutto il popolo santo, il quale ha realmente una missione in questo mondo"11.

Per il suo ruolo di segno escatologico, la vita consacrata ricorda che sola cosa necessaria è cercare il regno di Dio e la sua giustizia, invocando incessantemente la venuta del Signore (cfr. VC 26).

"Questa attesa – è scritto nell’Esortazione apostolica – è tutt’altro che inerte: pur rivolgendosi al Regno futuro, essa si traduce in lavoro e missione, perché il Regno si renda già presente ora attraverso l’instaurazione dello spirito delle beatitudini, capace di suscitare anche nella società umana istanze efficaci di giustizia, di pace, di solidarietà e di perdono" (VC 27).

Ritroviamo qui le due configurazioni, mistica e politica, cui si è precedentemente accennato.

Uno dei rischi che corre oggi la vita consacrata è quello dell’intimismo e della ricerca di spazi asettici e neutrali, dopo l’ubriacatura dell’impegno del "tutto è politico" degli ultimi decenni. V’è in questo sfuggire completamente la dimensione politica della realtà, come nel voler ridurre tutto a politica, la presenza d’una crisi sempre in agguato nel rapporto tra fede e storia, tra trascendenza e immanenza, tra interiorità e mondo, tra escatologia e incarnazione.

Se è difficile vivere la tensione dialettica tra i due poli, non per questo è lecito sopprimerla e rifugiarsi in uno dei due elementi in questione a esclusione dell’altro. Molte volte si è creata nella prassi una separazione in ciò che doveva restare distinto, una confusione in ciò che era chiamato a essere unito, costruendo situazioni nelle quali ognuno viaggiava per suo conto assolvendo una funzione e lasciando a altri le restanti funzioni. Si è venuta molte volte a creare una incomunicabilità e una conseguente incomprensione di fondo, con gelose e accanite difese di spazi ritenuti conquistati in eterno e percepiti come sempre insidiati. E poiché le due polarità debbono sempre essere presenti, si è finito per assumere comportamenti e posizioni ben distanti dalla propria vocazione e dal proprio carisma.

È triste vedere l’arroccarsi sulla propria identità arrivare, in nome delle supposte esigenze di Dio e del carisma, alla strenua difesa, fino alla rottura dell’unità, di quelle che altro non risultano essere che espressioni culturali d’un altro tempo.

Sul versante opposto la ricerca del presenzialismo a tutti i costi e dell’inseguire l’ultima moda arriva al punto di negare l’autonomia del mondano e l’estraneità di tante sue realtà, nel tentativo di mettere un distintivo o ricoprire d’una croce anche quello che, pur dovendo essere amato, deve essere riconosciuto, in nome del rispetto della libertà della persona, nella sua alterità e forse anche nella sua opposizione.

Al fondo v’è una paura della solitudine, del seguire nudi il Cristo nudo12, dell’affidarsi completamente alla Parola che ci chiamò, del vivere fino in fondo il sì della prima ora, fino alle sua conseguenze estreme.

Rischiamo a volte di sovraccaricare la stessa comunità di attese e significati impropri o cerchiamo nel mondo, magari illudendoci con la scusa della missione, quello che dentro non sappiamo trovare o, più semplicemente, non c’è dato di trovare.

La dimensione escatologica, unita a quella profetica, la contemplazione del Regno e delle sue esigenze unita all’annunzio senza vergogna e paura della Parola ascoltata, pregata, contemplata e vissuta sono le uniche stelle polari nel cammino della notte, notte che a volte si fa veramente oscura.

Sentinella, quanto resta della notte?

Se la notte è, come abbiamo visto, il tempo che intercorre tra il principio e la fine, al consacrato compete, in forza del suo ruolo di segno escatologico, interpretare il tempo e porsi come sentinella cui ci si rivolge per domandare quanto manca all’alba.

"Sentinella, quanto resta della notte? Sentinella, quanto resta della notte?" (Is 21, 11).

Nello scorrere della notte, ove l’oscurità non permette più la percezione distinta del succedersi delle ore e tutto diventa indistinto e confuso, nella notte delle persone e dei popoli ed anche nella possibile notte della comunità cristiana, si delinea il carisma insostituibile dei consacrati, la loro dimensione escatologica e profetica.

Essi, nel pieno della notte, sono le sentinelle che vigilano e a cui ci si rivolge per domandare quanto ancora si deve attendere per veder spuntare l’alba del mattino che viene.

"Sentinella, quanto resta della notte? Sentinella, quanto resta della notte?".

Sono i consacrati la riserva escatologica del popolo di Dio, coloro che scrutano incessantemente i segni del Regno di Dio e della sua giustizia, e che sono illuminati dall’amore personale per Cristo e per i poveri in cui Egli vive.

Se la notte è il tempo così stabilito nel confronto con la luce del giorno, la notte scomparirà quando spunterà il mattino.

Ma quanto resta ancora da attendere?

Quando vedremo finalmente lo spuntare dell’alba?

Giorno e notte, luce e tenebre, bene e male, libertà e schiavitù, vita e morte vanno da noi interpretate e lette come realtà teologali. Le scienze umane vanno rispettate nella loro autonomia e nei loro statuti epistemologici.

Guai, però, se perdiamo il senso ultimo del nostro carisma di consacrati, assumendo una dimensione che non è il nostro proprium.

Il proprium del consacrato non lo si trova nella finalità per cui un Istituto è nato.

La crisi, ma mi si permetta di dire la tragedia, di tante vocazioni religiose la si trova nell’aver posto il fine come fondamento ontologico.

La scuola, l’assistenza ai malati, l’educazione dei giovani, l’accompagnamento dei disabili, la missione, la predicazione, o qualsiasi altra finalità sono legate al tempo della notte. Queste finalità scompariranno.

Cielo e terra di prima scompariranno e il mare non ci sarà più (cf Ap 21, 1).

In quel tempo anche "le profezie scompariranno; il dono delle lingue cesserà e la scienza svanirà" (1Cor 13, 8). "Non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno" (Ap 21,4).

Tutti i carismi legati a un’opera svaniranno. Essi sono legati al tempo e servono per illuminare la notte. Inoltre non bisogna mai dimenticare che le singole comunità religiose possono spegnersi. Istituti che non sono più adatti alla loro epoca possono essere costretti a chiudere. La garanzia di durata perpetua sino alla fine del mondo, che è stata data alla Chiesa nel suo insieme, non è necessariamente accordata ai singoli Istituti religiosi13.

Lo sguardo sulla luce che viene e dichiara la fine del tempo appartiene alla sentinella, al consacrato.

Egli non è chiamato alla mera gestione delle opere, ma a leggere ed interpretare i segni dei tempi con fedeltà creativa, a annunziare profeticamente quali siano le esigenze del Regno nelle mutevoli circostanze storiche.

Se le scienze umane possono e debbono aiutarlo, gli "occhi della fede"14, che penetrano e scrutano ogni realtà, dovranno avere la parola ultima.

Anche su questa fedeltà siamo chiamati a rimetterci profondamente in questione. Alla domanda posta: "Sentinella, quanto resta della notte?", la sentinella risponde in maniera tale che lascia a chi domanda la parola ultima, il gesto finale che impegna tutta la responsabilità personale: "Viene il mattino, poi anche la notte; se volete domandare, domandate, convertitevi, venite!" (Is 21, 12).

Fino alla fine dei tempi il profeta che viene da Dio non potrà mai annunziare un mattino senza fine.

"Viene il mattino, poi anche la notte". È falso profeta chi nella notte che incombe non sa vedere il mattino che viene. Ma lo è altrettanto chi nel mattino che sorge non sa intravedere la notte che sopraggiunge.

L’autentica profezia non si accompagna alla ricerca del consenso e non si sottopone alla tirannia dei numeri. Non si affida all’audience o ai sondaggi d’opinione.

Il vero profeta non dice quello che il pubblico che ascolta vuol sentire e non si preoccupa dei risultati che verranno. Una folla che riempie i templi o le piazze non è, in sé, segno d’una nuova primavera. Come non è segno di notte profonda il vuoto e l’abbandono.

Fino alla fine vi sarà un conflitto fra il potere del maligno ed il Regno di Dio.

V’è una dimensione esodiale, diasporica e crocifissa della realtà che non possiamo illuderci mai di eliminare.

È per questo che la sentinella, nell’individuare l’alternarsi di mattino e notte non si sottrae al dialogo e alla pazienza dell’ascolto: "Se volete domandare, domandate". Ma non esaurisce nel dialogo tutto il suo essere sentinella.

Vi sono due parole che deve dire, che non ha il potere di eliminare dal suo vocabolario: "Convertitevi, venite!". Egli sa che "la libertà per il male non ha più l’ultima parola"15, e per questo anche l’annunzio della notte che ritorna dopo il mattino è annunzio di speranza. Egli non teme, osa, accetta tutte le sfide. Egli è libero e con gioia immette con la sua presenza nella storia degli uomini, nella storia che è la sua storia, sulla terra che è la sua terra, un soffio di libertà e gioia.

 

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