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n. 05 maggio 2007

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La tentazione del potere
Lectio divina: Marco 10,32-45

di Marcello Brunini
 

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Gesù, nel vangelo di Marco, da buon conoscitore ed educatore del cuore, aiuta i suoi discepoli a prendere contatto con il desiderio di potere che si annida nelle loro profondità. Il Maestro sa bene che coloro che hanno autorità devono tener presente quella subdola tentazione del potere, che è nascosta nell’esercizio stesso dell’autorità. L’opposto dell’amore, difatti, non è immediatamente l’odio, ma il potere. Ciascuno di noi ama le persone con le quali condivide l’esistenza quotidiana ma, al contempo, vuole che facciano ciò che noi desideriamo. C’è in ognuno un desiderio di prevaricazione sull’altro. Questo atteggiamento si ritrova nella famiglia, negli Istituti, nella Chiesa, nella società.

Gesù aiuta a prendere contatto con questa tentazione di prevaricazione. È importante seguire il suo cammino di purificazione dal potere, perché aiuta ad intravedere lo stile che dovrebbe permeare il servizio dell’autorità espresso in un orizzonte spirituale. Un testo di Marco (10,32-45) ne dà una esatta esplicitazione.

"[32] Mentre erano in viaggio per salire a Gerusalemme, Gesù camminava davanti a loro ed essi erano sconvolti; coloro che venivano dietro erano spaventati. Prendendo di nuovo in disparte i Dodici, cominciò a dir loro quello che gli sarebbe accaduto: [33] "Ecco, noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai sommi sacerdoti e agli scribi: lo condanneranno a morte, lo consegneranno ai pagani, [34] lo scherniranno, gli sputeranno addosso, lo flagelleranno e lo uccideranno; ma dopo tre giorni risusciterà".

[35] E gli si avvicinarono Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedèo, dicendogli: "Maestro, noi vogliamo che tu ci faccia quello che ti chiederemo". [36] Egli disse loro: "Cosa volete che io faccia per voi?". Gli risposero: [37] "Concedici di sedere nella tua gloria uno alla tua destra e uno alla tua sinistra". [38] Gesù disse loro: "Voi non sapete ciò che domandate. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati con il battesimo con cui io sono battezzato?". Gli risposero: "Lo possiamo". [39] E Gesù disse: "Il calice che io bevo anche voi lo berrete, e il battesimo col quale io sono battezzato anche voi lo riceverete. [40] Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato". [41] All’udire questo, gli altri dieci cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni. [42] Allora Gesù, chiamatili a sé, disse loro: "Voi sapete che coloro che sono ritenuti capi delle nazioni le dominano, e i loro grandi esercitano su di esse il potere. [43] Fra voi però non è così; ma chi vuol essere grande tra voi sarà vostro servitore, [44] e chi vuol essere il primo tra voi sarà lo schiavo di tutti. [45] Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti"".

Contesto e divisione

I discepoli credono sinceramente che Gesù è il Messia promesso. Pietro lo ha manifestato per tutti (cf. Mc 8,27-29). Tuttavia, hanno serie difficoltà ad accettare il messianismo "debole" in cui Gesù si esprime; egli è un Messia umile e piccolo e, per di più, orientato verso la morte. I desideri, le attese e le speranze del popolo d’Israele attorno al Messia, sembrano infrangersi dinanzi al modo con cui Gesù si presenta. La reazione di Pietro agli annunci della passione rivela questo malcontento e conduce all’incomprensione della missione del Maestro.

Il testo afferma chiaramente: "Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo" (Mc 8,32). Gesù contraddice Pietro: "Va’ dietro a me, satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini" (Mc 8,33). Pietro è "satana", in quanto ripropone a Gesù la tentazione del demonio, che l’aveva spinto verso un messianismo forte e vincente. Gesù rimette Pietro al suo posto: dietro il Maestro. Il posto del discepolo non è davanti, ma dietro, al seguito del Maestro. Pietro ha sempre il desiderio di dire a Gesù quello che deve fare, come comportarsi: Pietro ama il Maestro, ma vuole che faccia come dice lui. Ecco il desiderio nascosto del potere sull’altro.

Ma questo non è tutto. I discepoli non solo pensano secondo satana, ma rivelano un’incomprensione quasi totale della missione di Gesù. Sia dopo il secondo (cf. Mc 9,31) che dopo il terzo annuncio della passione (cf. Mc 10,32-34), sorge tra di essi una disputa sul "potere"; un diverbio su chi tra di essi è il più grande. La tentazione del potere è molto più radicata di quanto sembra e avvolge tutti i discepoli. Gesù li aiuta a comprendere che tra il potere mondano e la gloria della croce c’è profonda opposizione.

Il nostro episodio, inoltre, è la conclusione di tutto l’insegnamento iniziato in 9,35 con il detto: "Se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore (diaconos) di tutti". Al v. 44 del nostro testo viene sottolineato: "Chi vuol essere il primo tra voi sarà schiavo (doulos) di tutti". Questi due versetti racchiudono un insegnamento peculiare: la necessità, per il discepolo, di abbandonare il desiderio del potere e porsi all’ultimo posto per servire tutti, come il Maestro. Il v. 45, poi, fornisce la motivazione di questo atteggiamento, legandolo strettamente al servizio del Figlio dell’uomo.

Il nostro testo può essere suddiviso in due momenti: a) Gesù annunzia per la terza volta la sua passione, morte e risurrezione (vv. 32-34); b) la disputa sul potere, che possiamo suddividere in tre unità: il dialogo tra Gesù e i figli di Zebedeo (vv. 35-40), la reazione degli altri discepoli (v. 41), la risposta di Gesù (vv. 42-45).

Annuncio della passione, morte e risurrezione (vv. 32-34)

Il vangelo di Marco si presenta come un viaggio. Gesù, i discepoli e il lettore sono diretti verso Gerusalemme. Nella città santa si concluderà violentemente la vita di Gesù. Un cammino tracciato da Dio nelle Scritture e accolto con ferma decisione da Gesù: "camminava davanti a loro" (v. 32). È lui il Maestro che cammina davanti al discepolo; è lui che sale per primo e traccia la strada.

Il discepolo è tale perché sta dietro. A Pietro che lo aveva rimproverato, il Maestro aveva risposto: "Va’ dietro a me, satana!" (Mc 8,33). Quasi a dire: "Tu, Pietro, vuoi andare avanti; sei tu che vuoi tracciare la strada. Questo atteggiamento non è da discepolo; il discepolo sta dietro e guarda il Maestro! Siccome tu sei il discepolo, il tuo posto è dietro di me". Il discepolo, difatti, è colui che mette i piedi sulle orme lasciate dal Maestro, è colui che si sovrappone al suo cammino. Se intende mettersi davanti, il discepolo nega se stesso.

I discepoli seguono Gesù "sgomenti… impauriti" (v. 32). Non capiscono fino in fondo, ma intuiscono che cosa accadrà a Gerusalemme. Nel cammino dietro a Gesù c’è posto anche per la paura. Il Maestro stesso ne farà esperienza (cf. Mc 14,33). La sequela di Gesù avvolge tutta la vita, proprio per questo in certi momenti è difficile.

Percependo lo sgomento dei discepoli, Gesù fa una cosa tenerissima: li prende in disparte e li "mette a parte" di ciò che sta per accadergli a Gerusalemme. Condivide con loro la sua vita, la sua morte, l’attesa della risurrezione. Sei verbi descrivono l’azione dell’uomo su Gesù: condannare, consegnare, schernire, sputacchiare, flagellare, uccidere. "È come la somma di tutto il male, che raggiunge la sua consumazione nell’uccisione dello stesso Dio".1 L’ultima azione però sarà quella di Dio: "e, dopo tre giorni, risorgerà" (v. 34).

Gesù si presenta ai suoi come il giusto sofferente, il Figlio dell’uomo ucciso e risorto, umiliato e innalzato.

Dialogo tra Gesù e i figli di Zebedeo (vv. 35-40)

Nel contesto che abbiamo delineato, si collocano le parole di Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedeo. Essi si alleano nel desiderio di primeggiare sugli altri: "Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo" (v. 35).

"Noi vogliamo che tu faccia per noi". In queste parole si esprime la volontà di potenza dei due. Possiamo riformulare così la loro richiesta: "Tu Signore devi fare la nostra volontà, devi venire totalmente incontro ai nostri desideri". Per un discepolo che vive della sola volontà del Maestro, questa è una richiesta veramente distorta. È il rovesciamento del fondamento dell’essere discepoli. Il discepolo non può chiedere ciò, altrimenti si fa Maestro. La tentazione del potere possiede una sua unicità proprio perché ti fa mettere nei panni del Maestro.

"Ciò che chiediamo a te". I discepoli chiedono che Gesù si faccia esecutore dei loro piani. Il discepolo è colui che segue il Maestro, qui, al contrario, è colui che si mette davanti. La domanda dei figli di Zebedeo smaschera la loro volontà di potenza, il loro tentativo di autoaffermazione allo stato puro.

Il Maestro risponde: "Che cosa volete che io faccia per voi?" (v. 36). Gesù non annienta il desiderio del discepolo; lo accoglie, anche quando è decisamente distorto, e cerca di educarlo confrontandolo con la sua vita.

"Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra" (v. 37). Si gioca a carte scoperte. La richiesta che i due esprimono non si limita al prestigio e al potere da esercitarsi su questa terra. Tutto ciò è già stato escluso in precedenza (cf. Mc 9,34-37). L’attuale desiderio dei due fratelli pretende ormai di elevarsi fino al cielo, di impossessarsi anche del Regno e della gloria del Cristo. I due fratelli sembrano non aver percepito niente della confessione di Gesù sulla sua passione e la sua prossima morte. Giacomo e Giovanni vogliono "sedere nella gloria" del Figlio di Dio. "La "Gloria" è sinonimo di Dio, in ebraico significa "peso". È il suo eccessivo amore, che dall’alto l’ha attirato verso di noi. Ogni nostra esaltazione è una vana-gloria, un peso vuoto, un non-Dio. La "sua gloria" invece è l’abbassamento del Figlio dell’uomo crocifisso, giudizio sul mondo e fine di ogni vanagloria. Alla sua destra e alla sua sinistra, al posto dei due fratelli, si troveranno intronizzati due malfattori, fratelli di tutti noi (15,27)".2

I due fratelli non vogliono soltanto la supremazia sugli altri, vogliono partecipare alla gloria stessa del Messia. Pur non conoscendone la natura, essi la ritengono potente, grande, unica perché è la gloria del Messia. Non percepiscono che stanno vanificando in radice il piano del Padre e la sua opera in Gesù.

Allora Gesù propone loro la vera grandezza del discepolo: "Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo che io ricevo?" (v. 38).

Per partecipare alla gloria del Figlio dell’uomo è necessario attraversare una prova terribile, la stessa di Gesù: bere il calice ed essere battezzato.

Il calice di Gesù è quello che lui stesso sarà tentato di rifiutare nel Getsemani: "Abbà! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu" (Mc 14,36). È il calice della croce, il calice amaro di tutto il fiele del mondo (cf. Is 51,17; Sal 75,9). Bere il suo calice, è partecipare al suo destino, diventare suoi discepoli nel servizio, fino alla morte. Solo in questo modo si partecipa della sua stessa benedizione, del suo "calice di salvezza" (cf. Sal 115,13). Bere il suo calice è proclamare: "Il Signore è mia parte di eredità e mio calice" (Sal 15,5).

Il battesimo è, per Gesù, il suo andare in fondo, nell’abisso, in solidarietà con tutti gli uomini, con tutti i peccatori. La sua morte è come un bagno in un mare di sofferenza per la salvezza di tutti. Lo stesso termine, nella letteratura profana, significa "inghiottire", "annegare" e talvolta persino "perdere", "far perire". Per il discepolo, ricevere questo battesimo significa essere "sepolti insieme con lui nella morte… essere completamente uniti a lui con una morte simile alla sua" (cf. Rm 6).

Avere parte alla gloria di Gesù significa, dunque, per il discepolo partecipare fino in fondo al suo destino di morte. La gloria del Maestro è quella della croce; questa gloria è la stessa per il suo discepolo. Chi vuole appartenere a lui deve essere pronto a seguire il suo intero cammino. Partecipando alla sua passione, i suoi discepoli si legano a lui e, con lui, al Padre. Il mistero della passione di Gesù è che esso non lo separa, ma lo lega al Padre. Lo stesso vale per il discepolo.

La risposta dei due è senza tentennamenti: "Lo possiamo" (v. 38). Non hanno capito. Fra la domanda di Gesù e la loro risposta non c’è un attimo di riflessione, così la parola del Maestro non diviene per essi interrogazione e possibilità di cambiamento. Essi sono chiusi nella loro volontà di potenza, di conseguenza, incapaci di prendere contatto con il destino di Gesù. Ad ogni modo, per volontà di carne nessuno può essere discepolo e partecipare alla morte del Maestro. Ciò è solo dono dello Spirito.

Gesù, ugualmente, garantisce loro che saranno suoi discepoli: "Il calice che io bevo, anche voi lo berrete" (v. 39). Lui li ha scelti e la sua fedeltà rimane sulle loro vite. Essi saranno incorporati al suo destino, passando attraverso la sua stessa esperienza di sofferenza e morte.

Questo avverrà. "Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato" (v. 40). Il Figlio dell’uomo non è venuto a conferire privilegi o posti di potere, neppure in rapporto alla sua gloria. Egli è venuto per comunicare la sua umiltà di Figlio. Concedere di sedere alla destra o alla sinistra è proprio del Padre. Gesù è l’umiltà piena, il Figlio senza potere. Solo il Padre concede, a quanti si fanno piccoli come il Figlio, di sedere vicino a lui.

Reazione degli altri (v. 41)
e risposta di Gesù
(vv. 42-45)

"Gli altri dieci, avendo sentito, cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni" (v. 41). Anche gli altri amano il potere e si sentono scavalcati e minacciati dall’iniziativa dei due fratelli. È l’invidia per il potere. Da una parte la via della croce, dall’altra la lotta per il potere. La reazione dei dieci evidenzia il peccato del mondo, comune a tutti, per il quale Cristo muore.

Gesù, allora, "li chiamò a sé" (v. 42). Teneramente il Maestro chiama tutti i suoi discepoli per aiutarli ad entrare nel mistero della sua gloria crocifissa. Li accoglie così come sono, non li caccia via e li aiuta a comprendere il fraintendimento in cui sono caduti circa la sua gloria crocifissa.

"Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi esercitano su di esse il potere" (v. 42). Voi sapete che quanti "sembrano comandare" i popoli, li tiranneggiano e i loro capi spadroneggiano su di loro. Il mondo è governato da un preciso principio: servirsi degli altri per primeggiare. In realtà, costoro sono uomini "capovolti". A loro sembra di comandare e di primeggiare, ma è solo una parvenza.

"Tra voi non è così" (v. 43). La gloria del mondo che si esercita con il dominio, deve essere evitata con cura dai discepoli. Infatti, "tra voi" c’è il Figlio dell’uomo, c’è l’Umile, c’è l’Ultimo. "Tra voi" è possibile un servizio vicendevole, perché "tra voi" c’è il Figlio. Con lui possiamo prendere contatto con la nostra volontà di potenza e capovolgerla in servizio.

"Chi vuol diventare grande tra voi" (v. 43). Anche nel Regno di Gesù c’è una grandezza che va desiderata e chiesta. Lui stesso la desidera per noi. Ma questa grandezza è il servizio: "Sarà vostro servitore", sarà vostro diacono (v. 43). Servo è colui il cui lavoro è dell’altro. Servire, allora, è promuovere il bene dell’altro; è il contrario di servirsi dell’altro o asservire l’altro.

"Chi vuol essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti" (v. 44). Il discepolo di Gesù, non è soltanto un diacono, ma è "lo schiavo". Mentre il servo mette a disposizione dell’altro il proprio lavoro, lo schiavo è tutto del padrone, sua esclusiva proprietà. Nella comunità di Gesù, i discepoli sono schiavi l’uno dell’altro, proprietà l’uno dell’altro. Nella sua comunità vige il paradosso della gloria del crocifisso: grande è chi serve, primo è colui che si fa schiavo.

Accogliendo tutte le fratture e la volontà di potenza presente nel cuore dei discepoli, Gesù li accompagna verso questa paradossale novità. Partendo dal loro desiderio di primeggiare, li aiuta ad entrare nell’altra ottica, li aiuta a trasformarsi in lui.

"Il Figlio dell’uomo non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti" (v. 45). Prima il comando, quindi il motivo del capovolgimento di prospettiva. Il Maestro e Signore "non è venuto per essere servito, ma per servire". Questa è la più bella definizione che Gesù dà di sé. Sintetizza il senso della sua venuta tra noi, il fine di tutta la sua vita. Egli è nostro servo, nostro schiavo; colui che mette a nostro servizio la sua opera, la sua parola, la sua stessa vita. Così facendo ci rivela Dio stesso: Dio è colui che serve l’umanità, è colui che si è messo nelle mani degli uomini.

"In riscatto per molti"; in riscatto delle moltitudini, ossia di tutti. Il testo richiama Isaia (53,10-12): "Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori. Quando offrirà se stesso in espiazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore. Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà la loro iniquità. Perciò io gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché ha consegnato se stesso alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i peccatori".

Gesù offre in sacrificio la sua vita a servizio e in riscatto delle moltitudini. Il suo destino di "giusto sofferente" lo lega a tutto il male del mondo. Egli prende su di sé il peccato e lo vince per tutti. Ogni uomo è anche uno schiavo del peccato, vive in disaccordo con Dio e non può con le proprie forze riconciliarsi con lui. Gesù è venuto a riscattare i peccatori, a riconciliarli con il Padre.

Così la sua vita, in quanto posta "a servizio", diventa un’esistenza donata a tutti; una vita che trova nella morte il suo sigillo ultimo e definitivo, come dono della vita in Dio. È quanto il centurione romano affermerà ai piedi della croce, quando "vistolo spirare in quel modo", vedrà rifulgere sul volto del Crocifisso la gloria del Dio vivente e farà risuonare, per la prima volta sulla terra, il grande segreto del Vangelo: "Veramente quest’uomo era Figlio di Dio!" (Mc 15,39).

Alla gloria della croce conduce la nostra solidarietà con Cristo e con i fratelli. La vita cristiana prima di essere un servizio è una mistica. Il servizio cristiano non ha il suo fondamento in sentimenti di partecipazione alla vita degli uomini o in un semplice aiuto offerto agli ultimi. Le radici profonde del servizio cristiano sono in Cristo Gesù: l’Ultimo. La nostra solidarietà con lui ci porta ad essere ultimi, ossia servi, schiavi dei fratelli. Quanto più sono unito a Cristo Ultimo, tanto più sono servo e schiavo degli ultimi; tanto più il mio servizio dell’autorità fa trasparire lui: l’Ultimo degli ultimi.

Certamente il servizio di Gesù e il suo radicale effetto salvifico sono unici. Eppure anche il piccolo e contraddittorio servizio di governo può, se disinteressato, esprimere un timbro liberatorio e risvegliare la speranza, liberare dalla necessità spirituale e corporale, portare aiuto, perdonare, favorire la pace, promuovere la vita dei singoli e della comunità.

Per un confronto con la vita quotidiana

Afferma il Vangelo di Giovanni:

"Io sono venuto nel nome del Padre mio e voi non mi accogliete; se un altro venisse nel proprio nome, lo accogliereste" (Gv 5,43).

"Per quale motivo non comprendete il mio linguaggio? Perché non potete dare ascolto alla mia parola. Voi avete per padre il diavolo e volete compiere i desideri del padre vostro. Egli fin da principio è stato omicida e non ha perseverato nella verità, perché in lui non c’è verità. Quando dice il falso, dice ciò che è suo, perché è menzognero e padre della menzogna. A me, invece, voi non credete, perché dico la verità" (Gv 8, 43-47).

"Adesso credete? Ecco, viene l’ora, anzi è già venuta, in cui vi disperderete ciascuno per conto suo (per conto proprio) e mi lascerete solo; ma io non sono solo, perché il Padre è con me" (Gv 16,31-32).

Il demonio è "chiuso nel suo proprio". Il demonio e i suoi figli hanno una loro "gloria": un amore proprio, una volontà propria, una dottrina propria, un’utilità propria. Accogliere il proprio è farsi autoidolatra; è rifiutare di essere icona, ossia immagine di Dio, cioè comunione.

Il "proprio" e la "gloria" del demonio sono l’esatto contrario della parola e dell’esistenza di Gesù: la glorificazione del Padre. Gesù, in quanto Figlio non ha un proprio, il suo proprio è il Padre; tutto il suo essere è esclusiva comunione con il Padre, anche nell’abbandono, e con coloro che lui stesso gli ha affidato, ossia gli uomini tutti.

Coloro che hanno un servizio di autorità nella comunità devono essere consapevoli del loro "proprio"; un proprio esclusivo e demoniaco. Attraverso il rapporto con Gesù, possono aprirsi, nello Spirito, al suo proprio autentico: il Padre e i fratelli.

Il servizio dell’autorità diviene prezioso quando aiuta i fratelli e le sorelle a prendere contatto con le loro chiusure e le loro rigidità. Un peculiare servizio dell’autorità consiste nell’allargare gli orizzonti, nel far uscire dal chiuso del cuore, nel far abbandonare modelli acquisiti troppo legati all’amore proprio, alla volontà propria, alla dottrina propria, all’utilità propria. Questo cammino troverà sempre critica e polemica. L’importante è non lasciarsi scoraggiare e continuare l’offerta della profezia e novità del Crocifisso Risorto. L’autorità che non mette in conto critica e polemica rischia di affondare nel "proprio" demoniaco.

L’avvolgimento nel ruolo. È Nicodemo il personaggio del quarto Vangelo decisamente avvolto nel ruolo. Questi è, sicuramente, una persona buona, sincera, ma estremamente vincolata al suo status sociale, alla sua prerogativa di intellettuale, alla sua condizione giuridica di maestro. Essendo troppo legato a questi ruoli non riesce a viverli con libertà e scioltezza, anzi ne rimane per lo più soffocato. E questo lo frena nel suo cammino di fede e di sequela. Ciò che vive Nicodemo può sperimentarlo chi occupa nella comunità un posto di autorità.

L’invidia come paura di sottrazione dell’autorità. Il quarto Vangelo registra l’invidia dei capi nei confronti di Gesù; un’invidia che, suscitata dal timore di perdere il potere di fronte al popolo, si trasforma in accusa nei suoi riguardi (cf. Gv 7,31-32.44-49.51-52). Coloro che hanno un compito di autorità è importante che si interroghino sulla dimensione dell’invidia, intesa proprio come timore di perdere l’autorità di fronte agli altri.

La vanagloria. "Come potete credere, voi che prendete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene da Dio solo?" (Gv 5,44). Gesù mette a nudo il bisogno tutto umano di cercare la gloria e la lode vicendevole (io lodo te e tu lodi me!), anziché la gloria di Dio. La vanagloria, collegata all’esercizio del potere, si esprime soprattutto nell’uso dell’autorità per creare consenso attorno alla propria persona e a quei progetti che favoriscono esclusivi riconoscimenti personali. Nota Martini: "È certamente più facile ricevere plausi che fischi; però è più bello accettare i fischi perché quando si entra in contrasto con qualcuno, è possibile esprimere un valore"; nel contrasto può emergere davvero il "peso", la "caratura" di ciascuno, in particolare di coloro che hanno autorità.3

Il togliersi di mezzo. Il racconto del cieco nato, che diviene vedente, evidenzia il passaggio dalle tenebre alla luce della fede per intervento di Cristo (cf. Gv 9). L’uomo, cieco dalla nascita, è condotto da Gesù verso una luce totalmente nuova. Egli non recupera un bene che già possedeva, ma rinasce a una nuova esistenza.

Il servizio dell’autorità nella Chiesa dovrebbe esprimersi in maniera analoga all’agire di Gesù nei confronti del cieco nato. Coloro che sono rivestiti di autorità sono chiamati, con la discrezione e non con la direzione, a incoraggiare i fratelli, affinché ciascuno possa rintracciare il proprio nucleo originale, ossia quel potere donato a ciascuno e che va posto a servizio di tutti.

Per operare in questa direzione è opportuno che l’autorità lasci spazio a colui che serve. Quando l’autorità si tira indietro, l’altro può tentare la propria responsabilità e accedere al proprio cammino di libertà.

Un uso corretto, creativo ed educativo dell’autorità sta nella capacità di coloro che la incarnano a togliersi di mezzo, affinché l’altro sia quasi costretto a tirare fuori tutto il potenziale di cui è capace nella relazione con la vita. Solo un’autorità che ha tale coraggio è capace di conservare, condividere, permettere.

Note

1. S. Fausti, Ricorda e racconta il Vangelo. La catechesi narrativa di Marco. Ancora, Milano 1990, 333.

2. S. Fausti, Ricorda e racconta il Vangelo, 339-340.

3. C.M. Martini, Il caso serio della fede. Piemme, Casale Monferrato 2002, 143.

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