n. 2 febbraio 2001

 

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di Biancarosa Magliano

 
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Arpa o cetra...

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Lungo i fiumi di Babilonia
là sedevamo in pianto, ricordandoci di Sion.
Sospesi ai pioppi di quella terra
tenevamo le nostre cetre.
Sì, là ci chiesero parole di canto quelli
che ci avevano deportati,
canzoni di giubilo quelli che ci avevano oppressi:
“Cantateci i canti di Sion”.
Come cantare i canti del Signore
in terra straniera?

Così racconta e lamenta il salmo 136.

Il poeta Byron – nei versi riportati in quarta di copertina - cambia lo strumento; anziché di cetre, egli parla di arpe. Jacques Maritain scriveva:

Io voglio cantar per te, Signore,
canti d’amore canti di dolore
al suono dell’arpa.

Ma tant’è. Con arpe o con cetre, con cembali sonanti o altro strumento (ma spesso la Bibbia parla di arpe e di cetre) appese ai pioppi, quello era il tempo dell’esilio, della lontananza angosciante dalla patria, dal tempio, nell’attesa spasmodica del ritorno. Il regno di Israele e di Giuda erano stati spappolati e israeliti e giudei erano stati deportati in Assiria o Babilonia. Un esilio durato 70 anni, ripetutosi poi con un nuovo esodo. I profeti - soprattutto Isaia e Geremia - aiutarono il popolo a prendere coscienza che quella situazione ingrata era frutto della propria infedeltà all’alleanza. Ritornarono, infatti, alla loro terra, e sotto la spinta delle invettive o dei richiami, delle

denuncie o degli annunci premonitori dei profeti inviati da Dio, ripresero a vivere in fedeltà la sudditanza fatta d’amore e timore al Dio dell’alleanza.

La sensazione dell’esilio, dell’essere in attesa, del vivere nella provvisorietà, nella incompiutezza, non è estranea a nessun uomo e a nessuna donna. Forse per quella passione d’infinito che gli brucia dentro. Per quell’arsura di cui parla il salmo 62: “Dio, Dio mio, te cerco fin dall’aurora; di te ha sete l’anima mia; verso di te anela la mia carne, come una terra deserta, arida, senz’acqua”.

Ognuno vive le sue crisi esistenziali che lo spingono alla ricerca, alla domanda, che gli pongono interrogativi a volte lancinanti o che lo caricano di luminosa speranza, di sicure aspettative. Ben lo sanno i mistici! Ma non è difficile né raro, nei nostri ambienti, imbattersi con sorelle anziane che vivono nella letizia il tempo dell’attesa e del raccolto ultimo, della vendemmia di una stagione feconda, anche se faticosa e dura. San Bernardo parlava di “questo nostro pellegrinaggio di esuli”.

 Anche per Maria e Giuseppe dalla terra d’esilio dove li aveva ‘confinati’ Colui che su di essi aveva il supremo dominio - secondo Luca - è giunta l’ora del ritorno perché è morto “chi vuol uccidere il bambino” e fanno ritorno a casa, alla sinagoga, alle amicizie, ai parenti, alla loro terra. E’ quel ‘poi’, è quel ‘ritorno’, che normalmente si fa “glorificando e lodando Dio” come facevano i pastori tornando ai loro pascoli dopo essere stati alla grotta di Betlemme.

Gli apostoli, prima della risurrezione, scrive Marco, “erano in lutto e in pianto”. Non credettero manco a Maria di Magdala, la donna - sempre secondo Marco - da cui erano stati cacciati sette demoni. Ma quando vedono il Risorto e non possono più non credere, la loro prospettiva di vita cambia. Ascoltano e accolgono l’invito ad andare e annunciare.

Non è qui il momento né il luogo per parlare dei molti personaggi, di grande pensiero o di forte sentire, costretti all’esilio per motivi politici o tirannici, pur di salvare la libertà di espressione nei vari aspetti. Morti i tiranni, mutate le situazioni sociali o politiche, religiose o culturali, l’esiliato normalmente torna… e si porta la “cetra” o l’“arpa”, - simboliche - e riprende a cantare…

La vita consacrata stessa sta vivendo da anni il suo tempo di esilio - almeno nei Paesi ad alto sviluppo economico - in sintesi il suo tempo di ricerca, di interrogativi; che forse tarderanno ad avere risposte precise; perché nessuno sembra averle in questo momento. Si fanno tentativi; qua e là sorgono proposte ed esperienze nuove; vengono poste suggestioni anche allettanti. Certo è che si parla – e si scrive – dell’urgenza di relazionalità e di comunione vera all’interno delle comunità, del bisogno di abitare e gestire il cambiamento, di vivere una spiritualità cristologica autentica e incarnata, perché il solo frenetico attivismo in cui sembra di essere caduti non salva nessuno: né le persone, né la missione, né gli Istituti. Ma il tutto dovrà superare la critica e il vaglio della storia.

In questo numero - come già nei suoi 50 anni di storia - la rivista offre con semplicità la sua proposta su vari fronti: della spiritualità e della psicologia, della vita comunitaria, e apostolica. Siamo coscienti che alcuni articoli sono particolarmente impegnativi. Si tratta di “leggere e soffermarsi”. Leggere e, magari, ri-leggere. La lettura precipitosa, affrettata, pur di arrivare alla fine, non serve. Sarebbe quel poco di rugiada posata sull’erba o quel poco di nebbia che un po’ di sole o un po’ di vento facilmente disperdono.

“La molta religiosità, scrive Benoît Standaert, animata dalle migliori intenzioni e da una grande generosità, può indurre in errore molte persone; molti sacrifici eroici ma privi di intelligenza possono far sprofondare nell’abisso”. Lo stesso autore afferma che “l’arte della lettura si trova oggi in grave crisi in mezzo ai tanti nuovi media”. Leggere, infatti, e un’arte, una pratica ben precisa. Sant’Agostino, giunto a Milano in cerca di incontrare il grande Ambrogio scrive di lui: “Non mi era possibile interrogarlo su ciò che volevo e come volevo. Caterve di gente indaffarata, che soccorreva nell’angustia, si frapponevano fra me e le sue orecchie, tra me e la sua bocca. I pochi istanti in cui non era occupato con costoro, li impiegava a ristorare il corpo con l’alimento indispensabile, o l’anima con la lettura. Nel leggere i suoi occhi correvano sulle pagine e il cuore ne penetrava il concetto, mentre la voce e la lingua riposavano... Sovente lo vedemmo leggere tacito, e mai diversamente. Ci sedevamo in un lungo silenzio: e chi mai avrebbe osato turbare una concentrazione così intensa?”.

Sappiamo che in molte comunità o Istituti la rivista è valorizzata per la lettura spirituale, per l’orientamento formativo; che superiore la utilizzano per l’animazione comunitaria; alcuni laici la valorizzano per l’insegnamento nella scuola di religione e ciò ci sorregge.

E come succede da quasi 10 anni, anche stavolta il numero 2 è accompagnato da un supplemento. Il titolo è: I volti della donna consacrata. E’ un omaggio, un semplice gesto d’amore e di gratitudine per chi ci segue con fedeltà. Era giusto che, nata per la formazione e l’animazione della vita religiosa apostolica femminile, riprendesse in sintesi i temi che la contraddistinguono: come vogliamo che sia la suora del terzo millennio? Sono alcune suggestioni. Non tutto è detto. Ci auguriamo - almeno questo - di viverle in pienezza. Bello sarebbe se ogni suora l’avesse a… portata di mano e di occhi per una consultazione, per una rilettura non superficiale, per una maggiore consapevolezza della propria identità e della propria missione.

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