n. 2 febbraio 2001

 

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Compagni di viaggio:
il malato e noi
di Luciano Sandrin
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Un posto dentro di noi

La vita è come un viaggio che percorriamo entusiasti o incerti, soli oppure in mezzo a tanta gente. Il passo può farsi improvvisamente lento e sentiamo il bisogno che qualcuno ci sia accanto e ci dia una mano, ma soprattutto ci dia la sicurezza di una presenza amica.

La malattia, con la sofferenza che l’accompagna e con le paure che evoca, è spesso un’esperienza di smarrimento e di solitudine: ci sentiamo improvvisamente estranei a noi stessi, senza riferimenti e improvvisamente insicuri. La presenza di coloro che ci amano o di chi, a vario titolo, ci assiste e ci cura può essere il segno di un’appartenenza che credevamo smarrita, di una relazione che riannoda i frammenti del nostro corpo e della nostra vita, di un sostegno alla nostra speranza lungo tutto il nostro camminare.

Chi ci ama o si interessa di noi può esserci accanto, compagno di viaggio disponibile, per impedirci di annegare o per fornirci la preziosa "manna" di una vicinanza che cura, che ama e che consola. A volte tutto ciò non succede. Chi dovrebbe starci vicino si allontana e chi si avvicina crea nel rapporto con noi una grande distanza. Forse perché si rispecchia in noi e rifiuta, nel nostro dolore e nella nostra malattia, il suo stesso dolore e le sue stesse fragilità. Forse perché ha semplicemente paura. O forse vorrebbe aiutarci ma non lo sa fare.

Scrivendo il mio ultimo libro ho rivisto, come in un film, una parte importante dalla mia vita: immagini, volti e tante emozioni. Ho rivisto i tanti malati che ho accompagnato e che hanno accompagnato le mie incertezze, anche nel volerli aiutare. Ma ho rivisto anche le tante persone che, accanto al malato per amore e per professione, mi hanno insegnato, spesso silenziosamente, elementi preziosi di un rapporto sanante1.

Ho rivisto anche una signora. Facevo il cappellano in ospedale. Ero stato fuori sede per qualche giorno, non ricordo neanche più perché. Tornato, ripresi con calma i miei giri in reparto e, malato dopo malato, arrivai in ginecologia. La caposala al vedermi mi aggredì. Dov’ero stato tutti quei giorni? Ero di luna buona e risposi alla domanda scherzandoci su. Mi avevano cercato dappertutto. Mi permisi di dire che c’era il cappellano di guardia. No, no! Un’ammalata voleva proprio parlare con me. E mi indicò la signora. Strano! Tra me e lei, nei giorni precedenti, c’erano stati semplici saluti e molti silenzi.Era in una stanza a due letti e ogni volta che entravo, dopo qualche saluto e rispettando il suo silenzio, mi mettevo a parlare, con un certo disagio, con l’altra signora e ogni tanto guardavo anche lei (che ce l’avesse coi preti, pensavo, e quindi anche con me?). Ancora dubbioso guadagnai la stanza. E lei, il tempo di un saluto e poi giù, come una diga che cede. Si mise a raccontarmi tutto di sé: il marito in carcere, i suoi figli drogati, la sua vita un inferno, e lei a sgobbare di notte al ristorante, fino a non poterne fisicamente più. E ora lì in ospedale malata e angosciata. "Queste cose - mi disse - non le dico a nessuno. Ma a lei sì. I giorni passati la guardavo ogni tanto e l’ascoltavo. L’osservavo mentre parlava. Ho capito che potevo fidarmi, che non sarei stata giudicata".Improvvisamente compresi i suoi silenzi. Mi studiava quasi a vedere se c’era posto anche per lei dentro di me. E saggiava la mia disponibilità, la capacità di ricevere il suo dolore. Aveva spiato il mio dialogo e s’era fatta l’idea che l’avrei saputa ascoltare.

Accanto al malato, suoi compagni di viaggio, noi entriamo in un gioco relazionale, nel quale tutto ciò che facciamo o che non facciamo, diventa per lui un messaggio importante: anche il silenzio diventa parola. E può riflettere la nostra serenità o le nostre paure. La nostra paura della malattia, del dolore e della morte, se negata e soffocata, ci rende muti e incapaci di aiutare.

Il malato ha bisogno di comunicare, di poter narrarsi e sentirsi capito e accettato. "L’impatto improvviso o permanente con l’infermità può produrre sconcerto o rabbia, depressione o paura, ribellione o senso di colpa. La relazione sanante non comporta solo la cura della parte malata della corporeità, ma anche il dialogo con la persona per comprenderne la storia, recepirne i meccanismi di difesa, avvertirne i pensieri e le preoccupazioni, accoglierne i sentimenti, individuarne le risorse e i valori. L’attenzione globale permette di passare dal contesto limitato della guarigione biologica all’orizzonte più vasto della guarigione biografica, che abbraccia l’interezza della persona.Comunicare a questi livelli è offrire salute, significa scoprire che in ogni malato abita un medico interiore, per cui la sfida rivolta ai professionisti della medicina e dell’assistenza è di educarsi a individuarlo e a portarlo alla luce. Apprendere questo linguaggio sanante risulta più facile quando l’operatore sanitario è consapevole del malato che porta in sé, malato rappresentato dai propri limiti e fragilità, per cui è più capace di accostarsi a chi soffre con atteggiamenti di umanità e di parità"2.Il dolore del malato entra spesso in risonanza con i nostri presenti o antichi dolori. Nel dialogo con chi soffre vengono a galla le nostre ferite e le barriere che abbiamo man mano costruito fin dalla nostra infanzia, per salvarci dal nostro profondo dolore. Sono barriere che ci impediscono di essere veramente noi stessi e di essere presenti agli altri e in comunione con loro. Per ascoltare la parola del malato, e decifrare le sue emozioni, dobbiamo imparare a non far tacere il dolore delle ferite che abitano dentro di noi.

 

La paura del diverso

Viviamo in una società che enfatizza la salute, la bellezza, la giovinezza, il benessere e ci è quindi psicologicamente disturbante e difficile pensare ai "rovesci della medaglia" che pure fanno parte della vita: la malattia, il dolore, l’handicap, la vecchiaia... e la morte.La malattia, prima o poi, ci tocca da vicino: ci ammaliamo noi stessi o le persone che più amiamo. Rimuoverla dalla nostra vita personale e sociale non solo complica i nostri rapporti con coloro che stanno vivendo l’esperienza della malattia ma ci rende anche più drammatica, ed a volte insostenibile, la "nostra" malattia: quando cioè ne siamo personalmente implicati.

Eppure con la malattia dobbiamo imparare a convivere. Lo devono fare soprattutto coloro che sono affetti da malattie croniche. Di fronte ad una diagnosi di malattia cronica, la prima sensazione che il malato ha è quella di un incredibile tradimento da parte della vita. Tanti impegni, progetti, desideri: tutto annullato, d’un colpo solo. L’elemento del definitivo sembra segnare in modo irrevocabile il suo futuro. Egli è un individuo che deve convivere con una malattia in un mondo costruito per i sani e nel quale, non poche volte, si sente straniero.

Le malattie croniche, che sono tra loro molto diverse, hanno però in comune il fatto che "durano nel tempo"; hanno cioè un particolare carattere temporale, nel quale la sofferenza presente è percepita sempre sullo sfondo dell’esperienza passata e delle possibilità future, è intrecciata nella biografia della persona (e della sua famiglia).L’individuo malato vive una specie di interruzione biografica, il sentimento che il corso della propria vita è seriamente minacciato e con esso la propria identità. A questa rottura la persona deve rispondere attraverso una ricostruzione narrativa, dando nuovi significati alla sua biografia, un nuovo filo conduttore al racconto della sua vita.

Egli deve trovare una strategia di adattamento a una malattia che dura a lungo nel tempo o che accompagnerà tutta la sua vita. Anche la famiglia deve fare questo lavoro. A confrontarsi con la malattia, infatti, non è solo il malato. Sono i familiari e gli amici più intimi: un insieme di personaggi inseriti in una stretta e coinvolgente "rete di relazioni". La storia della malattia è il racconto non solo della storia personale del malato ma di tutta la famiglia: la trama di un romanzo familiare. Il racconto della malattia è il racconto della storia del malato, ma anche della storia familiare.

Per noi che stiamo accanto al malato, e lo vogliamo aiutare, ricercare il significato che la malattia ha per il malato, vuol dire fare un viaggio con lui dentro la sua storia familiare e dentro la ricchezza delle sue relazioni.

Troppe parole e un tipo di compassione che le fa sentire sempre in debito: è questa la critica che alcuni familiari di bambini che convivono con una disabilità fanno a tutti noi. Troppa superficiale e distante la nostra partecipazione.

Loro hanno invece bisogno che qualcuno si cali empaticamente dentro alla loro vita, li capisca dal di dentro, vesta i panni del loro disagio, della loro emarginazione, stia loro accanto, si faccia loro compagno di viaggio anche per un breve tratto di strada e dia loro una mano per ristabilire il controllo sulla situazione, anche attraverso aiuti semplici ma concreti: fare la spesa, dare una mano nei piccoli lavori in casa, prendersi cura dei bambini non disabili, dare informazioni utili sull’assistenza finanziaria e sui programmi di intervento precoce, farli entrare in gruppi di aiuto e di supporto, dar loro il cambio per farli "respirare" per qualche ora o concedere loro la possibilità di passare una giornata tra marito e moglie in santa tranquillità, senza il bambino. Ciò che si dovrebbe innanzitutto fare è aiutare queste famiglie ad evitare l’isolamento.

In alcune circostanze, il silenzio che circonda il mondo della disabilità potrebbe essere rotto anche attraverso celebrazioni appropriate, il luogo del gesto di tenerezza, del canto e della lode a Dio: il tempo in cui le famiglie dei bambini disabili vengono aiutate a fare lutto - fare pasqua e cioè passare - dal "bambino sognato" al "bambino reale", accettandolo insieme con la comunità in cui vivono.Anche il grido di rabbia, detto o cantato, diventa allora un momento di liberazione: un pellegrinaggio che nella "terra straniera" della disabilità può far scoprire la presenza silenziosa di un Dio che è anzitutto tenera comunione. Il tutto mediato dalla presenza di una comunità che, passando con loro la Porta redentiva del dolore, ha tolto le molte, e invisibili, barriere mentali che impediscono a chi soffre di accedere al cuore della nostra vita personale, sociale ed ecclesiale.

La persona con handicap sperimenta, molto spesso, il rifiuto a causa di una diversità non desiderata di cui è portatrice, e con cui viene identificata: non una persona che ha una disabilità, un handicap, ma che è un disabile, un handicappato. In questa chiave, l’ambiente sociale inquadra e interpreta ogni suo gesto e ogni suo messaggio: la disabilità assorbe dunque l’identità della persona e ne comporta un cambio, sempre in senso restrittivo. E questo diventa un filtro attraverso il quale la persona con handicap viene percepita e il binario entro cui viaggiano i nostri comportamenti nei suoi confronti.

L’intervento riabilitativo ha in sé un’immensa potenzialità di ricostruzione dell’identità. Esso ha infatti lo scopo di cercare, insieme al paziente, i "trucchi" utili ad aggirare le difficoltà, ossia per fare con l’handicap e non per non fare o fare contro. L’identità, allora, si può costruire integrando elementi che da uniche possibilità diventano una delle caratteristiche specifiche di una persona. Ciò che conta, è che il paziente possa integrare l’handicap nella propria identità, e non costruisca quest’ultima solo attorno all’handicap, ricercando invece una propria autonomia, non sempre quella sognata, ma quella reale e "possibile"3.

Ma questo è soprattutto un problema culturale. "Santo Padre, mi chiamo Claudio, comunico attraverso una lavagnetta trasparente in un modo nuovo e veloce". Con queste parole iniziava una lettera scritta al Papa, nei giorni del giubileo delle persone disabili. E continuava: "Il vero problema dell’handicap è solo la paura della diversità. Non che tutto il resto non esista, ma, secondo me, riveste un ruolo di secondo piano. La parola chiave perché questo cambiamento culturale avvenga è fiducia. Santo Padre, il termine disabile vuol dire non abile e con la fiducia non centra nulla, bisogna trovare un nuovo termine, io propongo diversabile, che vuol dire abile in modo diverso. Quando ho capito queste cose ho cominciato, e non ho ancora finito, un cammino di liberazione che spero, mi porterà a essere unico nella mia diversità. Credo, infatti, che la diversità ci aiuti tutti a capire come ogni uomo sia unico e speciale, e per questo amato in modo particolare dal Signore. È chiaro, quindi, come la diversità sia fonte di gioia, di vita e di salvezza. È finalmente forse il momento di passare da una logica basata sulla sofferenza a una nuova cultura fondata sulla risurrezione che è partecipazione alla vita"4.

Crisi e opportunità

L’esperienza di malattia è un’esperienza di crisi. E come ogni crisi essa ha in sé delle opportunità: non ultima quella di pensare al trascendente, di purificare l’immagine stessa di Dio e di cogliere la sua presenza nelle relazioni con gli altri. La malattia evoca l’idea di un viaggio che rivela le illusioni e obbliga a rivedere ciò che si pensava tranquillamente acquisito.Accompagnare il malato vuol dire camminare con lui nell’elaborazione di nuovi equilibri - dalle illusioni alla realtà - coscienti che nella relazione con lui entrano in gioco le sue e le nostre immagini su Dio, le sue e le nostre idee sulla vita, sulla malattia, sul dolore, sulla morte e sull’al di là: i contenuti delle valigie che accompagnano il nostro viaggiare.

Nel tentativo di dare senso alla sua sofferenza il malato si trova spesso sommerso in una serie di domande, simbolo di una ricerca ma anche espressioni più o meno aperte di un certo modo di "vivere" il divino e la sua presenza.Vari sono i significati dati alla malattia e al dolore (punizione, prova, sfortuna, destino, elemento della condizione umana, occasione di crescita umana e religiosa, "volontà di Dio", ecc.) e questi significati, presenti nel malato o veicolati da chi lo cura, contagiano le emozioni del malato stesso, si trasformano in vissuti e strutturano l’esperienza stessa del soffrire nelle sue varie dimensioni.

Nella relazione tra il malato e chi lo assiste e lo cura avviene cioè un vero e proprio contagio non solo a livello emotivo e cognitivo ma anche religioso e più ampiamente spirituale.

La malattia si rivela anche l’occasione (non solo per il malato ma anche per noi) di purificare o riscoprire valori dimenticati, non ultimi la salute e la vita. Si trovano spesso nuovi significati per vivere. E si riscopre le relazioni e il sapore della speranza. Nella fiducia (non illusoria ma realistica) nelle risposte dell’altro alle proprie domande ri-nasce un senso di sicurezza su cui si fonda la speranza, la possibilità cioè di proiettarsi in un futuro possibile, fondato non tanto sull’onnipotenza del proprio desiderio ma sulle proprie reali capacità e sull’intervento di qualcun Altro. E questo passa attraverso tutte le vie del nostro comunicare.Nella malattia non si possono eludere le grandi domande. "Ogni giorno - scrive il Santo Padre nel messaggio in preparazione alla giornata mondiale del malato di quest’anno - mi reco idealmente in pellegrinaggio negli ospedali e nei luoghi di cura, dove vivono persone di ogni età e di ogni ceto sociale. Vorrei soprattutto sostare al fianco dei degenti, dei familiari e del personale sanitario. Sono luoghi che costituiscono come dei santuari, nei quali le persone partecipano al mistero pasquale di Cristo. Anche il più distratto è lì portato a porsi domande sulla propria esistenza e sul suo significato, sul perché del male, della sofferenza e della morte (cf GS, 10)". Ma questo riguarda non soltanto il malato ma anche ognuno di noi.

Accanto al malato, troppo spesso, le parole scorrono veloci, quasi dovute. Un gioco di pedine, l’ospedale una scacchiera e le parole come mosse per difendersi. E riaffiorano i ricordi. Che fretta certi giorni: giri veloci perché avevo sempre altro da fare. Mi sembrava fuori luogo la preoccupazione di tanti malati: l’intervento chirurgico? Una cosa da niente. E tutta quell’ansia e quella paura, perché? Il primario era così bravo. Anche i suoi aiuti certo. A quell’altro avevano trovato un tumore? Beh mica tutti sono così! E veloce ad infilare l’ascensore. Impegni. Un’occasione perduta. Come quando reagivo in malo modo alla collera altrui. Impreparazione. Mandato in campo così, senza conoscere il gioco sottile delle emozioni. Ricordo quel malato, un uomo grosso così, arrabbiato; acido e tagliente con tutti quelli che lavoravano in ospedale: "mangiapane-a-tradimento" li chiamava lui. Se ben ricordo non risparmiava neanche me. E io a rispondergli a tono; a difendere tutti, fuorché lui. Ma soprattutto a difendere me. E la soddisfazione di aver vinto la battaglia. Solo che avevo perso lui che mi voleva semplice schermo in cui proiettare la sua angoscia, il suo film. Brutti scherzi dell’inconscio che sfuggivano di mano anche a lui. E la mia aggressività lo lasciava ancora più solo.In realtà lasciavo isolata e sola anche quell’altra, una malata depressa alla quale rispondevo formale con parole di circostanza e gesti dovuti. Sabbie mobili la sua tristezza. Meglio tenersi a distanza. Contatti neutri. Molto pericoloso approfondire la relazione con lei. Meglio lasciarla nel suo brodo. E lei a soffrire di più: la sensazione dentro di non valere neanche l’attenzione di un prete. Ma che vuoi, se badi a tutti! E sgusciavo via.Ricordi...

Ma resta una domanda. Chi sente oggi l’importanza di essere attento ai bisogni del malato, alle sue reazioni psicologiche, al suo vissuto? Chi alla fin fine sente il dovere di "riunire" nel malato i vari frammenti, di cercare con lui una strada accettabile tra fatti, avvenimenti, dati scientifici, insicurezze insorgenti, necessità terapeutiche? Chi l’accompagna lungo l’andare e venire di emozioni e speranze?

La malattia è molto spesso per l’individuo che ne fa esperienza una crisi a tutto campo. Ma proprio in questa crisi si affacciano nuove possibilità e opportunità. Ogni fase o ciclo della vita comincia da fasi di incertezza, di complessità seguite da novità e sorprese: le crisi della vita, le varie situazioni di perdita, che possiamo chiamare piccole morti. Al di là della sofferenza e delle reazioni di scoraggiamento, le piccole morti della vita e i loro periodi di lutto ci offrono l’opportunità di assumere sempre di più le ricchezze che aspettano di essere scoperte dentro al nostro io.

Ogni malattia apre una crisi di comunicazione con l’altro. Il malato, al di là del suo ripiegamento su se stesso, può scoprire che non è solo al mondo, che altri esistono e che le relazioni con questi altri costituiscono il suo stesso essere. Egli prende coscienza che esiste un sentimento di solidarietà con l’ambiente circostante, specialmente con gli altri malati, le loro sofferenze: la virtù della carità. Si accorge dei familiari e dei loro sacrifici. I legami si approfondiscono, si purificano. Il malato apprende l’accoglimento dell’altro. Per questo si esce spesso dall’incontro con il malato confortati.

Compagni discreti

Per il soggetto, la malattia è vissuta come una crisi. Ogni volta che c’è una crisi, nasce la questione che riguarda il senso della speranza, dell’assurdo o della disperazione. Probabilmente non potremo fare molto per mutare le cose, ma può darsi che la crisi si trasformi in occasione di cambiamento. Chi è in crisi è nell’impossibilità di raccontare la propria vita con un minimo di coerenza e di senso compiuto. Tuttavia è proprio quando si racconta la propria vita che questa prende senso emergendo dal narrarsi stesso. È quel che accade nel racconto che fa il malato. Per poter affrontare l’avvenire egli deve ritrovare il senso al proprio passato.La crisi è occasione di cambiamento. Nella malattia cambia spesso il modo di guardare alla vita. Cambia l’orizzonte. La crisi è momento drammatico, di valutazione e di ristrutturazione delle gerarchie di valori ai quali abbiamo creduto.E il compito di colui che sta accanto al malato non è quello di ‘spiegare’, ma di far vedere al proprio interlocutore i punti d’appoggio per valorizzare le proprie risorse interiori capaci di fargli inventare un futuro (e cioè dare un nome alla speranza). Ascoltare chi è in crisi vuol dire, però, "entrare in punta di piedi nella conversazione interiore che egli ci confida temporaneamente, sapendoci ritirare al momento giusto"5. Essere cioè compagni di viaggio discreti.

La malattia è luogo di incontri e di relazioni: piccoli ponti che aprono a Dio.

Un cappellano, parlando del suo cammino di accompagnamento con un malato, Andrea, così scrive: "La relazione a due tra lui sofferente e me che l’accompagno si apre in verità ad una nuova dimensione: una relazione a tre, lui, io ed il Signore... relazione all’inizio brancolante senza dubbio, che poco a poco si precisa, dove ciascuno lavora spiritualmente nella conversazione alla scoperta della verità su se stesso, sull’altro, sull’Altro (con la A maiuscola), finché sorga per Andrea il senso ritrovato. È tempo allora per me di eclissarmi, di lasciare che se la sbroglino tra loro due, dal momento che attraverso quella prova irta di minacce è rinnovato il contatto di Andrea con colui che... per lui e con lui ha già giocato la sua pelle... e non cessa di giocarla". Anche l’accompagnatore "non può che giocare la sua pelle, compromettersi, con il rischio di cambiare anche lui, nel traghettare e fare in modo che la parola del malato incontri la Parola di Dio"6.

Compagni di viaggio, il malato e noi. Ma come a Emmaus, Qualcuno si aggiunge al nostro camminare, condivide le nostre tristezze, si fa nostro compagno di viaggio e ci scalda il cuore.

"Brucia in casa i figli malati": questo il titolo apparso, mentre terminavo il mio ultimo libro, su un quotidiano molto diffuso. E il giornalista scrive: "Una figlia schizofrenica, un oligofrenico, la terza sana ma da alcuni anni fuori casa. Una vita d’inferno, come quella di migliaia di famiglie che convivono con i drammi della malattia psichiatrica. Ha assistito i suoi ragazzi, malati fin dalla nascita, con disperato amore. Da sola. Con il coraggio di una madre che dopo l’abbandono da parte del marito, morto 11 anni fa, ha riunito tutte le forze per loro". Non ce l’ha fatta più, "li ho uccisi io - ha detto sotto choc a un vicino - così hanno finito di soffrire"7. Lasciata sola, troppo sola a prendersi cura dei suoi figli malati.Malattie, quelle mentali, non poche volte dimenticate. Una sofferenza che preferiamo non vedere. Eppure ci sono, accanto a noi, di là dal giardino della nostra casa. C’è un dialogo da riprendere con tante famiglie lasciate sole, una comunicazione da imparare con chi vive in un mondo che sentiamo lontano. Troppo spesso preferiamo illuderci che siano sofferenze e crisi altre-dalle-nostre, lontane da noi e dalle nostre emozioni.

La domanda di chi soffre è soprattutto domanda di relazione.

Abbiamo, quindi, un impegno importante da assumerci: non solo non emarginare una sofferenza che ci disturba ma anche riscoprire la forza sanante delle nostre relazioni e trasformare i nostri ambienti di vita in comunità sananti, che curano, si prendono cura e offrono un "competente" aiuto relazionale e spirituale8.

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