n. 4
aprile 2003

 

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Comunità profetiche e impegno nella storia
di Emilio Grasso

 

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Il documento Ripartire da Cristo. Un rinnovato impegno della vita consacrata nel terzo millennio richiama i consacrati a una «testimonianza profetica e silenziosa» che sia allo stesso tempo una «eloquente protesta contro un mondo disumano. Essa impegna alla promozione della persona e risveglia una nuova fantasia della carità»1.

Riconoscendo nella persona dei poveri una presenza speciale di Cristo che impone alla Chiesa un’opzione preferenziale per loro (cf RdC 34), il documento ricorda che «la povertà dei popoli è causata dall’ambizione e dall’indifferenza di molti e da strutture di peccato che devono essere eliminate» (RdC 36).

L’invito è a un cambio di modelli di servizio, poiché non è più ritenuta sufficiente l’assistenza e vanno sradicate le cause da cui trae origine il bisogno (cf RdC 36).

Al fine d’una comprensione dei termini della questione, in relazione a scelte operative che si è chiamati a fare, ci sembra opportuno indicare alcune linee di riflessione che permettano di orientare la fantasia della carità, la testimonianza profetica ed il servizio creativo tendente a sradicare le cause da cui trae origine il bisogno.

Nell’agosto 1980, la Congregazione per i religiosi e gli istituti secolari emanò il documento Religiosi e promozione umana.

In esso si operava una distinzione tra politica, intesa in senso ampio e generico, e cioè come organizzazione dinamica di tutta la vita sociale2, e prassi politica, come partecipazione diretta a scelte di parte3. Se la politica apparteneva a tutta la comunità cristiana, e quindi anche ai religiosi, questi ultimi, però, erano messi in guardia dal lasciarsi coinvolgere nella prassi politica4.

Al fine di contribuire a una migliore chiarificazione terminologica, considerato anche un coinvolgimento sempre maggiore dei religiosi nei grandi problemi del mondo e, soprattutto, in forza dell’opzione preferenziale per i poveri, ci sembra opportuno ritornare sul problema.

 

 Il dogma di Calcedonia

 Il dogma del Concilio di Calcedonia (451) ha definito che nel Cristo coesistono la natura umana e quella divina, integre e complete, senza confusione, trasformazione, separazione, divisione.

Nel Tomus ad Flavianum, recepito dal Concilio di Calcedonia, viene chiaramente affermata la comunicazione delle proprietà (communicatio idiomatum) per cui si può dire che «il Figlio d’uomo è disceso dal cielo e il Figlio di Dio è stato crocifisso»5.

Da questa verità dogmatica consegue che le piaghe del popolo oppresso e crocifisso sono piaghe dello stesso Figlio di Dio, anche in forza di quanto chiaramente affermato nella Gaudium et spes e ripreso dalla prima enciclica di Giovanni Paolo II e cioè che «con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo a ogni uomo» (cf GS 22; Rh 13).

Applicando questo principio all’Esortazione apostolica Ecclesia in Africa, Giovanni Paolo II, riprendendo il profeta Isaia, afferma che il nome d’ogni Africano è inciso sulle palme delle mani del Cristo, trafitte dai chiodi della crocifissione6.

La verità dogmatica affermata a Calcedonia comporta come conseguenza che il problema degli oppressi e crocifissi nel mondo è problema di Cristo, quindi la Chiesa non può non proclamare ad alta voce, senza arrossire o stancarsi, che l’emarginazione dell’uomo le appartiene perché appartiene al suo Dio.

 

Questione cristologica e questione politica

Porre da parte della Chiesa il problema dell’emarginazione dei poveri è una questione cristologica. Alla questione va data una risposta che dipende dalla conoscenza scientifica delle situazioni; essa richiede allo stesso tempo un abbordo multidisciplinare che tende verso la ricerca del punto di convergenza tra varie e differenti soluzioni e il libero consenso che si forma di volta in volta attorno a esse.

Se la questione concerne il corpo del Signore e come tale è normativa, la risposta riguarda la politica e come tale è soggetta a un pluralismo di possibilità.

In una famosa lettera pastorale della Quaresima 1947 il Cardinale di Parigi, Emmanuel Suhard, scriveva: «Non si può essere santi e vivere il Vangelo che tutti invocano, senza sforzarsi d’assicurare a tutti gli uomini delle condizioni – d’alloggio, di lavoro, di nutrimento, di riposo, di cultura, ecc... – senza le quali non v’è più vita umana»7.

Ne consegue che l’impegno politico è di capitale importanza. Trattasi, come affermava Giorgio La Pira, un politico italiano di cui è in corso il processo di beatificazione, dell’impegno a costruire «una città nella quale ci sia un posto per tutti: un posto per pregare (la chiesa), un posto per amare (la casa), un posto per lavorare (l’officina), un posto per pensare (la scuola), un posto per guarire (l’ospedale)»8.

Non è, perciò, possibile sottrarsi a determinate forme di impegno politico. Ma in questo impegno, ognuno deve compromettere solo se stesso e non la Chiesa. La Chiesa è testimone dell’assoluto, è comunità profetica che guida la storia, è annuncio di un Regno che già è in mezzo a noi eppure ancora deve venire, è giudizio continuo su d’un mondo che non è il Regno.

Riprendendo l’insegnamento del Concilio, Paolo VI nell’Octogesima adveniens afferma con chiarezza: «Prendere sul serio la politica nei suoi diversi livelli significa affermare il dovere dell’uomo, di ogni uomo, di riconoscere la realtà concreta e il valore della libertà di scelta che gli è offerta per cercare di realizzare insieme il bene della città, della nazione, dell’umanità (OA 46). Nelle situazioni concrete, e tenendo conto delle solidarietà vissute da ciascuno, bisogna riconoscere una legittima varietà di opzioni possibili. Una medesima fede cristiana può condurre a impegni diversi (OA 50; cf GS 43). Pur riconoscendo l’autonomia della realtà politica, i cristiani, sollecitati ad entrare in questo campo di azione, si sforzeranno di raggiungere una coerenza tra le loro opzioni e il Vangelo e di dare, pur in mezzo a un legittimo pluralismo, una testimonianza personale e collettiva della serietà della loro fede mediante un servizio efficiente e disinteressato agli uomini» (OA 46).

Ne consegue che la determinazione dei regimi politici, come quella dei loro dirigenti, deve essere lasciata alla libera volontà dei cittadini (cf GS 74).

La pluralità di partiti all’interno dei quali i cattolici possono scegliere di militare per esercitare il loro diritto-dovere nella costruzione della vita civile del loro Paese, non può essere, però, confusa con un indistinto pluralismo nella scelta dei principi morali e dei valori sostanziali a cui si fa riferimento9.

Analogicamente a quanto detto della costituzione ontologica del Cristo, tra questione cristologica e questione politica non v’è né confusione né trasformazione, ma neanche divisione o separazione.

La missione della Chiesa non agisce direttamente sul piano economico, tecnico, politico; non contribuisce direttamente allo sviluppo, ma consiste essenzialmente nell’offrire ai popoli una evangelizzazione sempre più profonda, risvegliando le coscienze per mezzo del Vangelo. Essa apporta il suo contributo proclamando la verità su Cristo, su se stessa, sull’uomo, applicandola a una situazione concreta (cf RM 58).

«La Chiesa – scrive Giovanni Paolo II nella Centesimus annus – «non ha modelli da proporre. I modelli reali e veramente efficaci possono solo nascere nel quadro delle diverse situazioni storiche, grazie allo sforzo di tutti i responsabili che affrontino i problemi concreti in tutti i loro aspetti sociali, economici, politici e culturali che si intrecciano tra loro. A tale impegno la Chiesa offre, come indispensabile orientamento ideale, la propria dottrina sociale, che – come si è detto – riconosce la positività del mercato e dell’impresa, ma indica, nello stesso tempo, la necessità che questi siano orientati verso il bene comune. Essa riconosce anche la legittimità degli sforzi dei lavoratori per conseguire il pieno rispetto della loro dignità e spazi maggiori di partecipazione nella vita dell’azienda» (CA 43).

La Chiesa ricorda che lo sviluppo d’un popolo dipende innanzi tutto dalla formazione delle coscienze, dal maturare delle mentalità e dei comportamenti. Essa s’impegna per lo sviluppo d’ogni uomo, rivelando che è creato a immagine di Dio ed è da Lui amato, rivelando l’uguaglianza di tutti gli uomini come figli di Dio e il loro dominio sulla creazione che è posta al loro servizio. La ricchezza, gli aiuti materiali e le strutture tecniche non si pongono come ricerca principale (cf RM 58).

 

Povertà di soluzioni e totalità d’amore

 In un processo di nuova evangelizzazione va evidenziato che il Vangelo non è la soluzione ai nostri problemi. L’annunzio si colloca su di un’altra linea d’orizzonte. Dio, è questa la lezione del teologo russo Solov’ëv, salva amando, mentre l’Anticristo salva cercando di fare del bene, cercando di dare la soluzione ai problemi. Il peccato della falsificazione della salvezza consiste nel sostituire la persona che salva nell’amore con le cose che appagano dalla paura della morte. Far sparire la difficoltà è spesso l’illusione di chi crede che la difficoltà, e non la mancanza di amore, sia causa della propria infelicità10.

Nel discorso pronunciato alla IV Giornata Mondiale della Gioventù, Giovanni Paolo II ricordava che il servizio non è un semplice sentimento umanitario e che la comunità dei discepoli di Cristo non è un’agenzia di volontariato e di aiuto sociale. Un servizio di questo tipo si ridurrebbe all’orizzonte dello “spirito di questo mondo”. Si tratta, al contrario, di molto di più. La radicalità, la qualità e il fine di questo servizio s’inquadrano nel mistero della redenzione dell’uomo che non si attua con il criterio del potere, della forza, del denaro, ma chiede ad ogni uomo la totale disponibilità a seguire Cristo11.

Bisogna operare un ritorno al primato delle scelte dell’uomo, al primato della sua libertà sul fatalismo di meccanismi e strutture che determinano la vita. Questa riaffermazione del primato del “regno dello spirito di libertà” sul “regno della necessità e del destino (fatum – anánké)” interessa per differenti motivi tutti i popoli.

Si tratta, infatti, di affermare o riaffermare il primato della persona sulle strutture, sulle leggi, sulla natura, sulla società, sulle tradizioni, sui costumi.

Il concetto di persona – va ricordato – è un contributo al pensiero umano che la fede ha reso possibile ed effettuato12.

Al di fuori della fede in un Dio personale anche l’uomo muore. Su questo terreno il dialogo con le religioni e le culture ha i suoi limiti. L’inculturazione del Vangelo ha bisogno anche di operare provocando rotture e mediante processi creativi culturali.

V’è una incompatibilità della fede con le differenti logiche intramondane che non è facilmente eludibile.

Di fronte alle conseguenze tragiche di emarginazione dei deboli, la Chiesa confessa la sua povertà nell’indicare soluzioni politiche, ma non rinunzia a proclamare la Verità della scelta degli ultimi come lo scandalo su cui ognuno, nella sua libertà e responsabilità, è chiamato a confrontarsi.

Il fatto che la Chiesa si professi povera di soluzioni non vuol dire che rinunzi a indicare l’orizzonte escatologico verso cui è in marcia.

Questo orizzonte è Cristo, éschaton già nel tempo eppur non ancora realizzato. Alla pienezza del suo Atto manca il compimento del nostro.

 

Tensione tra fede e impegno sociale

 Qualsiasi soluzione sarà sempre parziale e provvisoria. Essa va sottoposta alla critica del Vangelo che chiama tutti ad andare sempre oltre.

Nessuna risposta riuscirà mai a rispondere esaustivamente alla questione cristologica. Va liberato sin dall’inizio il campo dall’illusione che la politica generi salvezza.

Proprio perché essa si fonda sulla ricerca d’un punto di consenso tra le varie libertà in gioco e perché la nostra libertà è storicamente una libertà ferita dal peccato, dobbiamo costruire le risposte senza pericolose fughe in avanti ove, non essendo acquisito il consenso sul problema e sulla risposta, si producono nuove e più tragiche forme di oppressione.

La politica è impegno d’incarnazione nel tempo di valori che per sé trascendono sempre ogni possibile realizzazione. È costruzione della città degli uomini, città sempre precaria, sempre caduca, sempre suscettibile di perfezionamento e quindi di critica e di giudizio. È campo nel quale le strade non sempre sono uniche, non sempre chiare, non sempre asfaltate, non sempre sicure. È arte di mediazione e anche di compromessi.

In una lettera alla figlia, Giovanni Giolitti, uno dei maggiori politici italiani dell’inizio del secolo passato, così si esprimeva: «Mettiti in capo questo: che gli uomini sono quello che sono, in tutti i tempi e in tutti i luoghi, con i loro vizi, i loro difetti, le loro passioni, le loro debolezze; e il governo deve essere adatto agli uomini come sono; certo il governo deve mirare a correggere, a migliorare, ma anch’esso è composto di uomini, e l’uomo perfetto non esiste. Un governo è il portatore di secoli di storia e la peggiore di tutte le costituzioni sarebbe quella che venisse studiata in base a principi astratti e non fosse adatta in tutto e per tutto alle condizioni attuali del paese. Il sarto che ha da vestire un gobbo se non tiene conto della gobba non riesce»13.

Dobbiamo porre sempre in evidenza che la dialettica tra giustizia e libertà può trovare di volta in volta accentuazioni o compressioni d’uno degli elementi in gioco. L’equilibrio va sempre ricercato con nuovi tentativi storici e ponderati correttivi. La soppressione d’un elemento riduce la politica a “fede religiosa” che uccide la vita dei “non credenti”.

La politica, infatti, è casa comune di tutti e non può trasformarsi in guerra di religione tra appartenenti a diverse fedi.

Essa si nutre del dubbio e dell’ascolto dell’altro. Essa non demonizza nessuno. Usare categorie religiose nel parlare di fenomeni economici e politici è fuorviante e indica che si vuole evitare lo sforzo e la fatica della ricerca, dello studio, del rischio di scendere tra gli uomini per conquistare il consenso.

In politica non si può intervenire senza preparazione specifica. Senza la conoscenza della storia, dell’economia, della sociologia, di tutto ciò che ci aiuta a comprendere l’uomo e a servirlo nel tempo.

 Una certa azione politica va fatta. Non come Chiesa, ma come uomini che hanno ricevuto il messaggio d’amore e che sanno che debbono servire i fratelli anche nel costruire strutture più umane. Ma, e questa sarà la nostra contraddizione, il nostro drammatico vivere, pur sapendo che dobbiamo farla, sappiamo anche che non sarà la politica a salvarci e a salvare.

Chi ci salva è Cristo e non le nostre opere. Guai se non agiamo e pur guai se crediamo che queste opere ci salvano. E soprattutto guai se ci sottraiamo a questa tensione tra fede e opere, tra preghiera e azione, tra eterno e tempo, tra Chiesa e mondo, tra Regno e Chiesa. Dobbiamo non sottrarci, ma assumere in noi stessi questa tensione e continuamente depositarla là dove tutto è ricapitolato, tutto è sanato, tutto compreso, tutto ricomposto, tutto unito, tutto salvato: nel calice del sangue di Cristo, calice di nuova e definitiva alleanza, sangue che ci purifica, ci rinnova, ci redime, ci affratella, ci riunisce, ci riconcilia, c’immette nella vita stessa di Dio, ci divinizza.

 E qui interviene un’altra distinzione fondamentale, non separazione, sulla quale siamo chiamati a riflettere: «Non spetta ai pastori della Chiesa intervenire direttamente nell’azione politica e nell’organizzazione della vita sociale. Questo compito fa parte della vocazione dei fedeli laici, i quali operano di propria iniziativa insieme con i loro concittadini. L’azione sociale può implicare una pluralità di vie concrete; comunque avrà sempre come fine il bene comune e sarà conforme al messaggio evangelico e all’insegnamento della Chiesa. Compete ai fedeli laici “animare, con impegno cristiano, le realtà temporali, e, in esse, mostrare di essere testimoni e operatori di pace e di giustizia”»14.

Un intervento continuo del clero e dei religiosi, in un campo proprio dei laici, denota una situazione di supplenza che può assumere forme di patologia cronica, autentiche invadenze di sfere di competenze non proprie che, a lungo andare, lasciano il laicato in una situazione di irresponsabilità e d’infantilismo, bisognoso di paternalismi protettivi.

   

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