n. 5
maggio 2003

 

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I simboli e la vita spirituale - III
Il vento e l'azione dello Spirito Santo nel mondo
di Erminio Antonello

 

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Viviamo nel mondo delle cose, dei fatti, dei gesti, che è il mondo del tempo. Il nostro sforzo, incessante e inconsapevole, è un tendere fuori del tempo, all’attimo estatico che realizza la nostra libertà. Accade così che le cose i fatti i gesti – il passare del tempo – ci promettono di questi attimi, li rivestono, li incarnano. Essi divengono simboli della nostra libertà. Ognuno di noi ha una ricchezza di cose fatti e gesti che sono i simboli della sua felicità – essi non valgono per sé, per la loro naturalità, ma c’invitano, ci chiamano: sono simboli. Il tempo arricchisce meravigliosamente questo mondo di segni, in quanto crea un gioco di prospettive che moltiplica il significato supertemporale di questi simboli»7.

Queste osservazioni di Cesare Pavese sono illuminanti per capire il processo creativo di simboli che avviene nell’animo del singolo. Ma questo stesso processo si produce anche a livello di un popolo, anzi di tutti i popoli, e in maniera ancor più esuberante quando soggetto è il mistero di Dio e l’eterno. Nelle cose finite l’uomo si tuffa per cercarvi l’infinito. I simboli sono le parole con cui la religiosità naturale tenta di raccontare qualcosa del mistero fascinoso di Dio e del desiderio di entrare in rapporto con lui.

 

Il vento immagine della potenza di Dio

 Un evento assai quotidiano come il vento, proprio per l’inconoscibilità della sua causa, è stato dagli antichi popoli arricchito di una simbolica sacra. Il suo sussurrare tra gli alberi o il suo mugghiare nel turbine della tempesta ha acceso la fantasia primitiva vedendo in tali fenomeni il respiro della terra, la Grande Madre Terra. Un segno ancora una volta, come la sabbia del deserto e l’acqua, ambivalente: nelle fresche brezze primaverili vi è tutta la calma e la signorìa del Dio-natura; così come nel vortice dei venti forti vi è la sua oscura rabbia e potenza devastatrice.

Nella Sacra Scrittura il termine generico di pneuma, corrispondente al rûah ebraico (vento impetuoso, respiro), pur conservando l’idea di forza elementare della natura e della vita, perde il significato di sostanza vitale cosmica e divina. E passa a designare in prevalenza l’energia che il vento sprigiona, sicché lo spirito/vento è la potenza con la quale Dio agisce. Egli opera nella creazione (Gn 1,2) e nella conservazione della vita umana: «Lo spirito di Dio mi ha creato e il soffio dell’Onnipotente mi dà vita» (Gb 33,4); «Così dice il Signore Dio che crea i cieli e li dispiega, distende la terra con ciò che vi nasce, dà il respiro alla gente che la abita e l’alito a quanti camminano su di essa» (Is 42,5). Si manifesta nell’intelligenza e sapienza dei profeti e degli uomini di Dio, distinguendoli per la prudenza dagli uomini del loro tempo (Mic 3,8; Is 61,1). E quando Dio manda il suo spirito è creata e rinnovata la faccia della terra (Sal 104,30).

 L’impeto del vento è normalmente legato all’apparizione di Dio. Dio si manifesta al profeta sotto forma di un uragano, al cui centro c’è un vortice di fuoco e di luce: «Io guardavo ed ecco un uragano avanzare dal settentrione, una grande nube e un turbinio di fuoco, che splendeva tutto intorno, e in mezzo si scorgeva come un balenare di elettro incandescente. Al centro apparve la figura di quattro esseri animati, dei quali questo era l’aspetto: avevano sembianza umana ...» (Ez 1, 4-5). E’ nella tempesta che Dio manifesta la sua ira contro il malvagio: «Come nuvole cariche di grandine, come turbine rovinoso, come nembo di acque torrenziali e impetuose, getta tutto a terra con violenza» (Is 28, 2).

Ancora sul monte Horeb il Signore passa accanto a Elia sottoforma di vento, ma in questo racconto avviene un cambiamento nel modo di interpretarne la forza. Non l’irruenza è la dimora propria di Dio, ma la sua calma: Dio penetra nell’uomo senza farvi violenza, quasi trascinando delicatamente la sua libertà al vero e al bene. Al punto che può diventare difficile distinguerlo, poiché è immediato, naturalistico, vedere Dio nei grandi fenomeni. Ma Dio non è nel «vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce», né «nel terremoto», né «nel fuoco», ma «nel mormorio di un vento leggero» (1Re 19,11ss).

Dio penetra leggero nell’animo umano: in punta di piedi, poiché la sua potenza è quella della persuasione della libertà con la sua grazia, che sa piegare anche «le dure cervici».

Di questa potenza di Dio che dà vita, facendosi dolcemente strada nell’animo umano per restituirgli la vita, l’immagine più affascinante e nota si trova nel libro di Ezechiele.

  

Da una pianura di ossa inaridite il nascere della vita

 Il profeta narra di cumuli di ossa inaridite dalla morte, distese in una vallata, che sotto lo spirare della vitalità dell’alito di Dio riprendono vita. La visione non è da limitarsi alla prefigurazione della risurrezione dei morti alla fine del mondo: le ossa che Ezechiele vede non sono quelle che riposano nei cimiteri: «Queste ossa sono tutta la gente di Israele. Essi vanno dicendo: la nostra speranza è svanita, e noi siamo perduti!» (Ez 37,11).

Lo spirito umano, quando si degrada, provoca una desolazione dolorosa e lancinante che, al paragone, la morte corporale può assumere persino i contorni di una liberazione. La disperazione, l’assoluta assenza di una qualche speranza, è la decomposizione dell’essere: in tale stato, la possibile attesa umana si colora più di illusione che di reale possibilità di uscita dal male. Da questo male dell’anima, le cui prime avvisaglie sono la non voglia, l’indifferenza, il disimpegno, la mancanza di fervore, la pigrizia e l’ozio, in ultima analisi la tiepidezza (cf Ap 3,15-20); da questo male solo la grazia di Dio con la sua potenza può liberare: «... mentre io profetizzavo, sentii un rumore e vidi un movimento fra le ossa, che si accostavano l’uno all’altro, ciascuno al suo corrispondente. Guardai ed ecco sopra di esse i nervi, la carne cresceva e la pelle le ricopriva, ma non c’era spirito in loro. Profetizza, figlio dell’uomo e annunzia. Dice il Signore Dio: Spirito, vieni dai quattro venti e soffia su questi morti, perché rivivano. Io profetizzai come mi aveva comandato e lo spirito entrò in essi e ritornarono in vita e si alzarono in piedi; erano un esercito grande, sterminato» (Ez 37,7-10).

 Il vento penetra nelle ossa. Quando soffia la tramontana, il vento freddo del nord, taglia la faccia; quando s’alza lo scirocco, il vento del sud, l’atmosfera si surriscalda e tutto si scioglie. Dal vento non ci si può riparare, invade, pervade, trova anche i più piccoli varchi per infiltrarsi ovunque. Così è la potenza di Dio. Quando essa spira, l’uomo è messo in movimento. Il desiderio di vivere, la speranza di futuro, hanno la loro sorgente in Dio, non nell’uomo.

La vita spirituale è tale proprio perché è vita nello Spirito e dallo Spirito. Non dalla buona volontà, né dall’impegno, ma dalla grazia fiorisce il cambiamento del cuore: di cui semmai buona volontà e impegno sono l’effetto. «Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va: così è di chiunque è nato dallo Spirito» (Gv 3,8), diceva Gesù a Nicodemo, alludendo all’impossibilità di poter determinare lo Spirito di Dio. C’è una libertà dello Spirito, accondiscendendo alla quale si nasce spiritualmente liberi. E’ la mobilità propria dello Spirito che non può essere rinchiuso in schemi e formule: a questa mobilità vitale, ogni discepolo del Regno è chiamato a partecipare.

E’ la vita nuova, nella quale si entra come si entra nella vita biologica: ricevendola semplicemente, non producendola. Solo nel prosieguo dell’esistenza si impara a trasformare in gratitudine questo dato; e senza lo Spirito quello stesso dato rischia di degradarsi fino ad essere percepito persino come maledizione: «Perché mi hai dato la vita? Non fossi mai nato!» (cf Ger 20,14; Gb 3,11).

 

Il vento metafora dell’esiguità
      e provvisorietà dell’esistenza umana

 All’ambivalenza dei simboli non sfugge neanche la metafora del vento. Giobbe si lamenta della sua vita supplicando Dio: «Ricordati che un soffio è la mia vita!» (Gb 7,7). Se il vento è così potente nella sua furia, in sé è anche senza corposità: dopo una grande sfuriata, subito s’affloscia. Proprio per questa sua inconsistenza, il vento esprime anche il vuoto e la nullità dell’uomo quando pretenda di sussistere senza l’alito di Dio. Che cos’è una vela senza vento che la rigonfi? Così è l’uomo. La sua fragilità è assai simile al passare del vento: dopo aver sconquassato con furore, si placa come nulla fosse stato si è dileguata: «Come vento la mia grandezza e come nube è passata la mia felicità» (Gb 30,15). Anche l’uomo s’agita e freme, conquista cose preziose, ma tutto si degrada. «Se ne vanno in fumo le ricchezze per un cattivo affare e il figlio che gli è nato non ha nulla nelle mani. Come è uscito nudo dal grembo di sua madre, così se ne andrà di nuovo come era venuto, e dalle sue fatiche non ricaverà nulla da portar con sé. Anche questo è un brutto malanno: che se ne vada proprio come è venuto. Qual vantaggio ricava dall’aver gettato le sue fatiche al vento?» (Qo 5,13-15).

La precarietà della vita è un sentimento prezioso per l’uomo: lo istruisce sul significato del suo vivere in questo mondo. Con troppa leggerezza si passa dalla presunzione del possesso della vita al suo disprezzo: il motivo è che l’uomo sta di fronte alla sua vita nella verità soltanto quando la accoglie vivendola come viandante. Da tempo l’uomo moderno ha abbandonato la bisaccia e il bastone del pellegrino, assumendo la figura del “padrone del mondo”. E così soffre la maledizione legata ad ogni menzogna. L’uomo infatti non può vivere la vita come autopossesso, poiché la vita la riceve continuamente dalla gratuità di Dio. E pertanto se vuole permanere nella verità deve accogliere la sua radicale contingenza, non come condanna cui sfuggire, ma come la condizione da cui imparare a riconoscere il bisogno di quel rapporto che gli dà consistenza. Purtroppo invece «l’uomo è rimasto solo nel gioco della vita – diceva K. Barth – in quanto egli si è fatto soggetto autonomo, riducendo Gesù Cristo a predicato»8.

Gesù non è un “attributo”, qualcosa che si aggiunga, a quello che l’uomo già è. La consistenza dell’uomo è precisamente data dall’essere relazione a Cristo. Da solo l’uomo «si riempie il ventre di vento» (Gb 15,2) e l’empio è disperso «come polvere al vento» (Sal 18,43). Il rapporto con Cristo è originario e originante; e nella relazione con Lui avviene la nascita della “nuova creatura”, una nascita nello Spirito/pneuma, ove l’uomo ritrova finalmente se stesso.

  

Il vento e lo Spirito del Risorto

 La sera del primo giorno di Pasqua Gesù, apparendo ai discepoli, «alitò in loro e disse: ricevete lo Spirito Santo» (Gv 20, 22). Questo soffio dello Spirito immesso nei discepoli rimanda all’alito divino della Genesi: «Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente» (Gn 2,7). E’ «la nascita dall’alto» (Gv 3,7 ss), di cui parlava Gesù con Nicodemo, senza della quale l’uomo resta ancorato a se stesso e alla sua impossibilità a entrare nel Regno.

Il rapporto con Cristo che è la vita nuova dell’uomo non avviene dal basso, ovvero dalla propria ricerca di Cristo. Questa ricerca è introduttoria e predisponente, ma non decisiva. La vitalità di Cristo nel discepolo comincia a formarsi solo nell’azione dello Spirito Santo. E’ lo Spirito di Cristo risorto, lo spirito dell’amore dato nel sacrificio della Croce (Gv 19,39), il tenace vincolo che lega la fragilità dell’uomo al divino, e quindi produce nella sua creaturalità la nuova forma della vita soprannaturale. Senza lo Spirito dell’amore di Dio «riversato nei nostri cuori» (Rm 5,5; At 1,8) la vita eterna non fluirebbe nell’esistenza umana. Senza di Lui, l’uomo resterebbe al di qua di quella barriera che inesorabilmente lo separa da Dio: e la sua vita sarebbe toccata soltanto esternamente, come per la tangente, da Dio, mantenendo quel distacco che segna la malinconica e assoluta separazione di ogni forma di religiosità umana.

Ma nello Spirito l’inaudito accade. Dio, Dio stesso, poiché lo Spirito è Dio, si concede all’uomo in una familiarità inattesa, sciogliendo ogni barriera e divisione (At 2,4). Il battezzato, pur nell’insuperabile differenza di essere, entra nella famiglia di Dio. Vi entra regalmente, da figlio, non come servo, poiché in lui è effuso la spirito di figliolanza, propria del Figlio (Gal 4, 6-7).

 Siamo arrivati al cuore del mistero umano quale ci è stato rivelato. Esso ci giunge attraverso i fragili segni del simbolo. Il vento-Spirito Santo insuffla in noi quel divino di cui il nostro arido cuore ha bisogno per realizzare l’intima dinamica del suo desiderio di vedere Dio e stare con Lui o, in altri termini, di «essere figli suoi». In fondo la vita spirituale, a cui la nostra consacrazione ci rende particolarmente sensibili, si realizza nell’assimilazione di questa coscienza di «essere figli nel Figlio» e di vivere di questa consapevolezza sotto la vivace energia della grazia.

 


7. Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, Torino-Einaudi, 1996, p. 244 (torna al testo).

8. Karl Barth, La teologia protestante del XIX secolo, Jaca Book, Milano 1972, II, p. 51 (torna al testo).

 

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