n. 7/8
luglio/agosto 2005

 

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Spunti per un discernimento sull'oggi della vita consacrata
di Lorenzo Prezzi, scj

 

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La vita consacrata vive oggi in un campo di tensioni difficilmente padroneggiabile. La totale delegittimazione culturale della dimensione vocazionale della vita (non solo religiosa quindi) si accompagna alla sofferenza di frutti scarsi e di un cammino incerto. In un romanzo dal titolo provocatorio (Bastarda), Christine Grän fa dire alla protagonista: «Io preferisco non essere nessuno e non fare alcuna esperienza del dolore, sono disposta a sopportare qualunque cosa, anche a uccidere, pur di rimanere in vita. Sono pronta a tradire ogni amico e ogni amante sotto la minaccia della tortura. A rinnegare qualsiasi causa, se ne avessi una. Ad abbandonare il mondo alla sua fine, se io posso sopravvivere». E con un anacoluto fulminante illustra «il senso della vita clonato di una generazione che onora il dio ego e non ha nel proprio corpo la scintilla della dedizione di sé» (Neri Pozza, Vicenza 2002, pp. 138 e 171). Una condizione difficile in cui, per contrasto, cresce l’apprezzamento per chi non si adatta. Come diceva il Rabbi di Czorthokow: «Io dico che questa generazione, in cui Dio si occulta a noi, è migliore di quella del deserto. A quella fu concessa la grande rivelazione, poiché, com’è noto, allora una serva vedeva più che in seguito il profeta Ezechiele, e avevano potenti forze spirituali, e il loro maestro era Mosè. Ma ora è il grande occultamento, e le forze sono poche, eppure quando si sente una piccola oncia di rivelazione si è esaltati e lieti. Perciò io dico: questa generazione è migliore di quella del deserto» (M. Buber, I racconti dei Chassidim, Parma 1992, p. 336).

Difficile il contesto culturale, ma non meno problematico quello ecclesiale dove accanto alla riaffermazione piena della vita consacrata si raccoglie la percezione di un suo «inevitabile» tramonto. Ciascuno sente la verità e pertinenza delle parole di Vita consecrata: «L’universale presenza della vita consacrata e il carattere evangelico della sua testimonianza mostrano con tutta evidenza – se ce ne fosse bisogno – che essa non è una realtà isolata e marginale, ma tocca tutta la Chiesa […] la vita consacrata si pone nel cuore stesso della Chiesa come elemento decisivo per la sua missione, giacché “esprime l’intima natura della vocazione cristiana” e la tensione di tutta la Chiesa-sposa verso l’unione col suo sposo. Al sinodo è stato più volte affermato che la vita consacrata non ha svolto soltanto nel passato un ruolo di aiuto e di sostegno per la Chiesa, ma è dono prezioso e necessario anche per il presente e per il futuro del popolo di Dio, perché appartiene intimamente alla sua vita, alla sua santità, alla sua missione» (EVC 6948). Ma basta guardarci attorno e il giudizio può rovesciarsi. «Tutto indica che in Europa occidentale siamo ormai prossimi alla dissoluzione virtuale della vita religiosa così com’è stata finora, e cioè un collettivo con forza e significato sociale ed ecclesiale rilevante»: l’affermazione del sudamericano J.M. Virgil è ampiamente condivisa, seppur con sfumature diverse. Si percepisce che un mutamento profondo è in atto e l’estinzione di una parte significativa della vita religiosa è possibile.

Il campo di tensione culturale ed ecclesiale è ulteriormente turbato dalle modifiche interne al mondo della vita consacrata. Accenno solo a due elementi: la dinamica demografica e la plurietnicità delle comunità.

La vita religiosa femminile in Italia – come è stato ricordato più volte dal camaldolese Giovanni Del Piaz – è stata attraversata nel Novecento da due dinamiche contrapposte di espansione e di riduzione. La prima iniziata negli ultimi decenni dell’Ottocento, e poi continuata fino agli anni ’60, è stata caratterizzata da un rapido sviluppo in termini numerici e di presenze territoriali. Nel 1871 le religiose (incluse le claustrali) erano 29.707, nel 1901 erano 40.250 (+ 35%) e nel 1971 erano 154.790 (delle quali circa il 10% sono monache). Con gli anni ’70 comincia il calo, mascherato un po’ dall’allungarsi della vita media. Con l’esito di una vita religiosa ancora consistente nella sua struttura numerica, ma assai fragile nelle prospettive di durata. Alla generazione più anziana manca, infatti, il ricambio. E ciò determina in tempi rapidi l’impossibilità di mantenere i livelli di presenza raggiunti in precedenza. Dal 1971 al 2001 il calo per la vita consacrata femminile è del 28%: da 154.790 a 111.032. La riduzione vale sia per la vita attiva che per quella monastica, ma con una maggiore resistenza di quest’ultima. Il secondo elemento è la crescente presenza di consorelle straniere nelle comunità italiane. Nel 1983 le religiose italiane all’estero erano 9.690 e quelle straniere in Italia 3.480. Nel 2001 le italiane all’estero erano calate del 24% (7.333), mentre le suore operanti in Italia ma provenienti da altre aree culturali e sociali erano cresciute del 177% (9.651). Ciò è ancora più evidente a livello di novizie. Nel 2001 delle 1.212 novizie presenti in Italia il 69% (842) era costituito da straniere e il 31% (370) da italiane. Ci avviamo a una vita religiosa multietnica, in termini più accelerati di quanto avviene a livello sociale. Il fatto può essere una opportunità, ma esso impone alle comunità la necessità di imparare a dialogare con le diversità culturali. La consorella straniera non porta solo aiuto ma anche un modo particolare di vedere l’esistenza e le dinamiche comunitarie con il quale non è sempre agevole accordarsi.

Il campo di tensioni in cui la vita consacrata vive la costringe a un ripensamento profondo che si può evocare attraverso una triplice polarità: violenza e fortezza, disperazione e speranza, continuità e rifondazione.

1. Violenza e fortezza. Uso il termine violenza in una accezione molto ampia. Chi ha fatto la scelta religiosa conosce la dolcezza e la violenza di un rapporto con Dio che pretende una radicalità assoluta e una disponibilità sempre rinnovata. L’annuncio di Dio e della vita eterna è il proprio che orienta il testimone della fede. È al mondo per dire questa parola: il resto è già noto. «Dal giorno di Giovanni il Battista fino ad ora, il regno dei cieli soffre violenza e i violenti se ne impadroniscono» (Mt 11,12). Ma si esperimenta violenza anche nella vicenda storica e anche all’interno delle comunità. Anche in questo caso vi sono aspetti positivi (la lotta per la giustizia o la fortezza per favorire un cambiamento coerente con il proprio carisma), ma anche i pesi e le negatività censurabili. La forma più comune per evitarsi la fatica della propria storia, per non esercitare la virtù della fortezza è quella delle dimissioni implicite («per la mia congregazione o il mio monastero non c’è più nulla da fare») o delle giustificazioni improprie («la vita consacrata è ormai emigrata verso il terzo mondo, qui non c’è più aria sufficiente»). Sta venendo meno l’identificazione della vita consacrata con lo spazio europeo. La vita consacrata nata alla periferia dell’Europa (Egitto-Siria e Inghilterra-Irlanda) ha conosciuto lo sviluppo storico nel continente. Le filiazioni esterne non sono state in grado nei secoli passati di piantare radici profonde. È una costante storica che sembra in via di smentita. La vita consacrata mette davvero radici anche altrove (Africa, Asia, America Latina). Ma sarebbe improprio delegare il futuro solo ai Paesi del Terzo Mondo senza operare per una persistenza della vita consacrata anche nel quadrante europeo. Ciò che sta succedendo in Europa «ha acquisito una rilevanza teologica e un significato religioso che giustifica l’attenzione del cristianesimo mondiale a questo continente, intravedendo in esso un’approssimazione a quello che può essere il proprio futuro». «Alla creazione di una espressione religiosa radicalmente nuova in coerenza e in risposta creativa alla crisi europea della religione possono contribuire solo coloro che l’abbiano vissuta e compresa da dentro in tutta la sua profondità» (J.M. Virgil).

La capacità di resistenza e l’esercizio della fortezza e della vigilanza sono messi alla prova dalla decadenza degli istituti e dallo sfarinarsi della concezione che faceva della vita consacrata lo “stato di perfezione”. Come diceva M. Buber: «La decadenza di un grande movimento, specialmente di un grande movimento religioso, mi sembra la più dura prova a cui possa essere sottoposto un uomo di fede».

 T. Radcliffe, ex-maestro generale dei domenicani, faceva notare che il rinnovamento è impossibile «se evitiamo di affrontare la morte delle nostre istituzioni. Oggi, nell’Europa occidentale, molte congregazioni, comunità, monasteri e province devono affrontare la morte. Per evitare tale realtà esistono diverse strategie. Possiamo beatificare il fondatore, iniziare costosi programmi edilizi, redigere splendidi documenti su progetti che non saranno mai realizzati... Se non siamo in grado di affrontare la prospettiva della morte, allora cosa abbiamo da dire al Signore della vita? Una volta dovetti visitare un monastero domenicano in Inghilterra insieme a un vecchio frate. Era evidente che il monastero stava per estinguersi, tuttavia una delle suore disse al mio compagno: “Sicuramente, padre, il buon Dio non permetterà che questo monastero muoia!” Ed egli rispose: “Non ha lasciato che morisse suo Figlio?”». E Martinez Diez aggiunge: «La semplice possibilità di morte o di scomparsa suscita nelle congregazioni un terrore panico. La sola presentazione di alcune problematiche in assemblee o capitoli risulta traumatizzante… Spesso manca il coraggio istituzionale o evangelico per prendere queste decisioni (chiudere opere o comunità) e portarle a termine. E, tuttavia, in alcuni casi si dovrebbe morire prima di entrare in accomodamenti e capitolazioni poco evangeliche». Archiviato lo “stato di perfezione” tutte le esperienze che il cristiano vive, illuminate dal Vangelo, sono vie di santità: la professione, la famiglia, l’impegno pubblico, ecc. Lo sono anche i consigli evangelici, ma senza che ad essi venga riconosciuto un alone di particolare qualificazione.

La comunità religiosa non vive in un luogo asettico e non può sottrarsi alle influenze della violenza che attraversa il tessuto vitale dei cittadini. Si percepisce la fatica della reazione alla malavita organizzata in diverse comunità religiose, là dove il fenomeno si presenta (dalla Sicilia alla Calabria, dalla Campania alla Puglia). Più ampiamente le comunità percepiscono e talora esperimentano la crescita del conflitto sociale, la consunzione dell’ethos collettivo, la crisi dello stato sociale, la forma aggressiva della comunicazione mediale, il disprezzo per il povero.

Va riconosciuta la presenza di una indebita violenza anche all’interno della pratica ecclesiale. Qui rimando semplicemente allo studio di p. Camilo Maccise (Regno-doc. n. 1/2004, p. 17). Se non esiste una violenza fisica tuttavia ci sono violenze di tipo morale e psicologico. Ricordo il centralismo («è una forma raffinata di violenza perché concentra il potere di decisione in una burocrazia ecclesiastica che ignora le sfide che affrontano i credenti nei diversi ambiti socio-culturali ed ecclesiali, che è lontana dalla realtà della vita, incapace di ammettere la multiformità»); l’autoritarismo patriarcale (con l’«esclusione delle donne dagli spazi di partecipazione in vari settori e a tutti i livelli, anche nei processi di elaborazione delle decisioni, soprattutto in ciò che le riguarda»); il dogmatismo («senza distinguere fra l’essenziale della fede cristiana e le sue forme di espressione teologica, il dogmatismo porta a imporre una sola prospettiva teologica, quella tradizionalista, elaborata a partire da condizionamenti filosofici e culturali di epoche passate»).

Ma qui interessa soprattutto quella violenza indebita che si esercita o si manifesta dentro la vita della comunità. In primo luogo la violenza legata a un esercizio improprio del potere. «La dimenticanza della complessità delle persone e delle comunità e l’assenza di ascolto e di concertazione rendono in parte inoperante il delicato compito del governo e rischiano di secernere un clima deleterio, portatore di una violenza quasi istituzionalizzata» (L. Crepy). Qualche forma di violenza può nascere anche dal sentimento di frustrazione in chi non trova nella comunità il riconoscimento e lo spazio giudicati essenziali. È violenza negare i gesti aggressivi in nome dei valori evangelici, perché il riconoscimento è il primo, passo di una sana fortezza cristiana. È violenza affermare la fraternità o la sororità senza costruirla giorno dopo giorno. È violenza demonizzare la conflittualità e il contrasto quando rispondono a criteri di giustizia e di rispetto. È violenza pensare che il perdono sia impossibile e che il Vangelo sia impraticabile. «È assai probabile che solo “l’eccesso della fede” possa contenere “l’eccesso della violenza” […]. Solo questa dismisura del credere, qui intesa come confidenza senza calcolo, sfugge alla spirale della violenza, rifiutando l’eccesso e preferendogli l’interpretazione critica e dialogante, rende possibile l’assorbimento della violenza e mantiene aperto lo spazio comunitario ove possono essere proposti, al momento opportuno, il perdono che rompe la concatenazione dei mali e la promessa che dà un nome nuovo all’avvenire» (B-M. Duffé).

Sono espressioni di violenza quegli atteggiamenti che pretendono di essere sottratti alla regola o alle disposizioni comuni, giustificati dalla forza del proprio ruolo o dalla ribellione agli ammonimenti. È violenza la svalutazione dei dati istituzionali e delle decisioni conseguenti. Atteggiamenti che l’attuale difficoltà della vita consacrata rende meno gestibili. «Certe comunità, in particolare quelle segnate dall’invecchiamento, vivono delle vere esperienze di morte: riduzione degli effettivi, fusioni con altre comunità, crescente angoscia per l’avvenire. Conflitti che sarebbero stati affrontati agevolmente nei momenti di crescita si esasperano nelle situazioni di declino. Si tratta di riflettere sui mezzi da mettere in opera per aiutare le comunità ad affrontare – come si fa con certi nuclei familiari – i momenti di “rimessa in questione”, l’elaborazione del lutto, le esperienze di morte» (J. Arénes).

L’attenzione ai dati di violenza e alle richieste di fortezza insiti nella vita consacrata, oggi, non vuole convergere negli strumenti di natura psicologica o di compromesso dimissionario. I valori antropologici delle persone e delle comunità non avrebbero senso fuori della dimensione teologica e spirituale. Non è condivisibile la convinzione che l’acquisizione di un primo livello di umanità sia premessa necessaria per sviluppare poi la dimensione cristiana e religiosa. Nel nostro caso, che il controllo della violenza e l’esercizio della fortezza siano premesse alla comprensione spirituale del proprio vivere. Fede e carisma sarebbero ridotti a semplice sovrastruttura. L’ispirazione e la “forma” con cui attraversare questa stagione non può che riferirsi al Cristo. È necessario essere avvertiti e liberati da «una mentalità fondamentalmente segnata da un dualismo tra umano e divino, una mentalità dunque che non ragiona nei termini di una cristologia vera. Su questo sfondo dualista si percepiscono inoltre paure di dogmatismi, di violenze sull’umano ecc., timori che abitano una mentalità abituata a ragionare in termini di concetti e di forme, ma non di vita spirituale. Un ragionamento spirituale coglie una compenetrazione vivificante della dimensione spirituale con quella psichica e della psichica con quella fisica, evitando in tal modo antagonismi e contrapposizioni di vario tipo. Ma uno sguardo così integro esige una dimensione pneumatologica, cioè la presenza dello Spirito santo nella comprensione dell’uomo e nella sua definizione. Una visione dell’uomo che include lo Spirito santo, farà sì che un intervento medico, terapeutico sia inseparabile dalla dimensione spirituale. Mentre si lavora sulla persona con una scienza ausiliaria, come può essere la psicologia, lo sfondo di tale intervento non potrà essere che spirituale» (M.I. Rupnik).

Per questo, in momenti di gravi tensioni come l’attuale, è bene riandare alle questioni critiche di fondo. Non tanto quindi ad osservazioni come quelle proposte dalla teologia liberale che esauriva la vita consacrata in una dimensione antropologica comune a tutte le religioni, quanto alle radicali affermazioni di Lutero. Per lui i voti pretendono di aggiungere qualcosa alla salvezza operata dal solo Cristo. Sono dunque contro il Vangelo ed è necessario escluderli. «Questo attacco acquisisce tutta la sua forza quando la si misura a partire dalla sua collocazione propria e cioè l’ecclesiologia: cosa potrà fare l’uomo che il Cristo, uomo-Dio, non abbia già portato a compimento? Se non – è necessario rispondere – riprendere nella Chiesa la parte che le compete di dialogo da sposa verso lo Sposo. Se l’amore rende uguali gli amanti, è la visibilità stessa dell’incarnazione del Verbo che è in gioco nella capacità negata (da parte protestante) o affermata (da parte cattolica) per la libertà umana di rendere a Dio grazia per grazia. E uno dei luoghi ove si attesta ancora oggi la manifestazione del Cristo nella carne, sembra davvero essere, oltre al contesto sacramentale prima evocato, il rapporto della vita consacrata con i consigli evangelici»; «essa appare sistematicamente come una sorta di istituzione della vita evangelica (non per il modo del ministero, ma per quello del carisma e del dono)» (N. Hausman).

2. Disperazione e speranza. «La denuncia è franca, allarmata, addirittura allarmistica, come lo sono spesso tutte le diagnosi a proposito della nostra epoca e del suo destino. La filosofia segreta del nostro tempo sarebbe la paura; nel futuro è vista soltanto una minaccia; la vita appare soprattutto a rischio; nell’anima non rimane posto per altra cura che questa, sventare la minaccia. Non sorprende che una filosofia come questa alimenti il cinismo» (G. Angelini). La speranza è un bene fragile. Il suo fuoco è sovente tenue anche nella vita cristiana e nella vita religiosa. Lo aveva intuito Charles Peguy: «La piccola speranza avanza tra le due sorelle grandi (la fede e la carità) e non si nota neanche… E non si fa attenzione, il popolo cristiano non fa attenzione che alle due sorelle grandi». Quasi invisibile, la piccola sorella sembra condotta per mano dalle due più grandi, ma col suo cuore di bimba vede ciò che le altre non vedono. E trascina con la sua gioia fresca e innocente la fede e l’amore nel mattino di Pasqua. Se la speranza è presente nel cuore di ogni uomo e donna, il Crocifisso risorto è il nome della speranza cristiana.

È una stagione che mette alla prova, ma proprio per questo si configura come promettente. Ripensando ai miei molti confratelli morti nel Congo, ricordo la vicenda di un gruppo di suore che all’inizio del ‘900 arrivarono sulle sue sponde e cominciarono a marciare per raggiungere la loro destinazione all’interno. Dopo qualche tempo due o tre morirono e le altre continuarono. Poi ne morirono altre, fra cui la superiora, ma le altre continuarono. Così di seguito. Nessuna di esse arrivò mai alla missione a cui era destinata. E tuttavia, se oggi quella terra fiorisce di vita cristiana (con tutte le incertezze del caso), questo è dovuto anche all’insensata ostinazione di quelle suore. Nella debolezza del nostro tempo la riaffermazione della speranza dentro la vita religiosa è forse la prova più discreta dell’esistenza di Dio.

Alla domanda clamorosa e inespressa di speranza della nostra generazione, la vita consacrata può rispondere mostrando l’attesa del tempo che viene, la dimensione escatologica della vita, l’inappagato non-ancora, la risurrezione della carne e, contestualmente, facendo memoria della vita umile, casta e consegnata, scelta dal Cristo per se stesso e abbracciata da Maria sua madre. «La vita consacrata non rappresenta solamente una sorta di lettura spirituale della Scrittura, ma anche una delle interpretazioni più autentiche, poiché vi si attesta come, così come afferma Ignazio di Loyola alla fine degli Esercizi spirituali, l’amore debba collocarsi più nelle opere che nelle parole. Ciò significa che questa tradizione ecclesiale è capace di ispirare non solo quelli e quelle che vi partecipano, ma ancora gli altri stati di vita che essa continua a confermare» (N. Hausman). Forma impegnativa che avverte lo specifico dell’Amore nel processo chenotico dell’abbassarsi, fino al niente, e – come dice Teresa di Lisieux – «trasformare in fuoco questo niente».

La vita consacrata sa di non avere altro futuro che quello della Chiesa stessa, della Chiesa nella sua forma universale come in quella locale. Il trattato sulla Chiesa è parte della dogmatica, ma anche della teologia spirituale e, conseguentemente, la teologia della vita consacrata è ultimamente una teologia spirituale. Come non si può parlare della Chiesa senza evocare l’amore che l’unisce all’unico Signore, come non si può argomentare sulle note ecclesiali, sulla sua costituzione, sulle sue forme storiche o sui suoi sacramenti senza parlare dei santi e dei martiri, così non si può parlare della vita consacrata senza la dimensione della teologia spirituale. La speranza della vita consacrata, come per la Chiesa, è nella trafittura del cuore di Gesù (Gv 19,31-37).

Segni di speranza e tracce di futuro possono giungere dalla galassia delle nuove e spesso piccole comunità in cui si praticano i consigli evangelici e si adotta la vita comune. Sorgono con molta effervescenza nell’Occidente scristianizzato: sono circa 700 negli Stati Uniti e numerose anche in Francia. Si configurano talora come monasteri, talora come comunità di servizio o come forme espressive di un movimento ecclesiale. Le loro caratteristiche più comuni (G. Rocca) sono da un lato il loro fiorire in Occidente, dall’altro la dimensione contemplativa (ma senza le norme canoniche relative alla clausura). Sono spesso comunità miste (uomini e donne) con temporaneità dei voti e la presenza di sposati. Molte di esse sono legate alla diocesi e agiscono con un forte interesse ecumenico. Le loro opere e servizi coinvolgono tutte le componenti. Fanno spesso riferimento al Pontificio Consiglio dei laici piuttosto che alla Congregazione per la vita Consacrata. Il loro rapporto con l’insieme della vita religiosa è ancora in fieri.

Utili a indicare i segnali di speranza sono anche i religiosi e le religiose giovani. Dovremo forse interrogarci di più non perché i giovani e le giovani non vengono a noi, ma perché vengono e quali sono le loro caratteristiche. Entrano con una immagine abbastanza confusa della vita consacrata e partecipano con la loro generazione un crescente distacco che non è solo generazionale. Una inchiesta fra i giovani del Triveneto mostra per 8 giovani su 10 una resistenza (fatta di stupore, disagio e imbarazzo) davanti all’idea che un amico possa farsi religioso o religiosa. Entrano in ogni caso in età più adulta, come del resto affrontano altre scelte come il matrimonio verso i 30 anni, con alle spalle una lunga esperienza di inserimento nella realtà scolastica, lavorativa e sociale. Sembrano singolarmente disponibili a un percorso mistagogico che dal contesto profano affronti la soglia del sacro e del santo. «In chi oggi si avvicina alla vita religiosa vi sono aspettative “alte” proprio perché lo fa dopo un’esperienza più o meno lunga di attività lavorativa e più o meno positiva di relazioni umane. Ci si aspetta un ambiente qualitativamente “diverso” da quello conosciuto nella quotidianità della vita laicale. In particolare ci si attende una autentica vita fraterna intessuta di relazioni interpersonali sincere, amicali, improntate a vicendevole rispetto e fiducia e si domanda una coerente adesione ai valori evangelici. Con entusiasmo e generosità ci si accosta ad una esperienza dalla quale ci si attende un robusto sostegno a quelle istanze di radicalità evangelica delle quali si ha nostalgia in ragione della consapevolezza della propria debolezza e fragilità. “Se la vita religiosa non è memoria e testimonianza di vita evangelica, da chi altri si potrà andare?”. Non basta lamentarsi del fatto che i giovani si orientino verso altre forme di radicalità evangelica, bisognerebbe farlo anche sulla nostra capacità di comprendere le nuove generazioni, di realizzare con loro un autentico dialogo, di essere per loro adulti che non temono il confronto» (G. Dal Piaz).

La vita religiosa partecipa con tutta la Chiesa la necessità di rendere più visibile la dimensione della speranza cristiana. Ma cosa significa essere testimoni di speranza? Credo anzitutto ritornare alle radici battesimali come dono e promessa. All’origine c’è il dono del battesimo, accolto nella fede e radicato nel mistero pasquale. «Non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? Per mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova» (Rm 6,3-4). La radice battesimale è promessa di conformazione alla storia di Gesù. In secondo luogo, si diventa testimoni di speranza nel cammino adulto della fede, quando si esercita fedeltà e libertà nella sequela: «Anche noi possiamo camminare in una vita nuova» (Rm 6,4). Significa affidarsi al carattere drammatico e agonico della vita. La testimonianza adulta del credente è così collegata al martirio perché sa di doversi rendere totalmente disponibile al dono del Risorto, alla sua presenza che guarisce e consola, alla sua vita spesa per noi. I luoghi dell’alimentazione della nostra testimonianza sono quelli classici: la Parola, il sacramento, il servizio ai poveri, la vita comune.

Commentando il passo della Samaritana al pozzo (Gv 4,1-42), al recente Congresso mondiale sulla vita consacrata (cfr. Regno-att. N. 22/2004, p. 752), sr Dolores Aleixandre ammoniva a liberarsi dai falsi mariti:

- il marito della stupidità disinformata e conformista che ci fa credere che la situazione del mondo non ha rimedio;

- il marito neoliberista e consumista che ci trascina verso un modo ingannevole di essere come il resto del mondo;

- il marito individualista che ci offusca le fonti dell’alterità, ci seduce con la facilità di una vita volgare e distratta;

- il marito pseudo-terapeuta che impone lo psicologismo come spiegazione ultima di ogni cosa, sospetta sempre dei nostri desideri e riduce tutto alla nostra psiche;

- il marito secolarista che ci allontana dall’incontro con il Signore e dall’esperienza mistica;

- il marito spiritualista che ci spinge a nuove sacralizzazioni e spiritualismi senza relazioni con le cose quotidiane;

- il marito idolatra che ci fa rendere culto ai mezzi e agli strumenti, ma non al Padre che ci ama;

- il marito delle mille occupazioni che ci fa esaurire nell’«opera» e nel puro lavoro.

Sempre in quell’occasione, p. J.B. Libanio ha prospettato per il futuro della vita consacrata una interpretazione di tipo sacramentale. «L’espressione dev’essere spiegata. Alle sue spalle c’è l’esperienza della Chiesa nel concilio Vaticano II. Essa si trovava davanti a doloroso dilemma: da una parte la tradizione ecclesiologica tridentina e del Vaticano I che sottolineavano fortemente gli elementi esteriori dell’appartenenza alla Chiesa, dall’altro c’era la tradizione della riforma che insisteva sul polo opposto. Il concilio ha trovato nella categoria “sacramentum” un ponte tra le due tradizioni, superando l’impasse […] Il problema fondamentale di questo modello è farsi delle domande sul senso, il significato, la realtà interiore che le regole, le norme, i segni, i simboli, le pratiche della vita consacrata possiedono. Se non favoriscono nessuna esperienza personale, interiore e spirituale, non hanno ragione di essere. A sua volta se l’interiorità non si esteriorizza in segni e pratiche, nasce il timore che la vita consacrata diventi pura soggettività arbitraria. La struttura sacramentale si converte in criterio di discernimento. La vita consacrata si distanzia dalla pura interiorità, affermando l’incarnazione della grazia e rifuggendo dal legalismo e dall’esteriorità dei riti religiosi senza una corrispondente esperienza interiore».

3. Conservazione o rifondazione. Nei dialoghi con alcuni responsabili della vita religiosa ritorna la constatazione che l’impegno di rifondazione è ormai assai presente e relativamente accettato. Torna spesso nei capitoli provinciali e generali, è ampiamente presente nei documenti, è considerato recepito negli organismi continentali. D’altro lato persistono due domande di fondo: che cos’è esattamente rifondazione? Come si può procedere per ottenerla?

L’una e l’altra questione (che cos’è e come farla) rimandano a come si declinano le ragioni della crisi, alle priorità che vengono riconosciute, al modo con cui le une e le altre vengono organizzate. Semplificando il quadro, posso indicare i quattro motivi a cui si rimanda per comprendere la crisi attuale.

Il primo è quello dell’identità o, più esattamente, della definizione teologica. Si ritiene che la difficoltà di dire con immediatezza e rigorosità l’identità religiosa costituisca il suo limite maggiore. I termini abitualmente usati in merito sono quelli di “stato di perfezione”, “professione dei consigli”, “vita religiosa”, “vita consacrata”, “sequela Christi”. Ciascuna di esse dice una diversa sfumatura ecclesiologica e cristologica.

Il secondo motivo è invece indicato nell’ambito dell’ascesi. La crisi della vita religiosa sarebbe imputabile alla scarsa tenuta delle comunità, all’interpretazione disinvolta e meschina dei voti, alla svalutazione della preghiera comune, al venire meno del rigore di vita. E naturalmente anche alla scarsa percezione di istanza critica di quanto i voti indicano rispetto alla vita normale: il distacco dalle ricchezze, la gestione degli istinti, la disponibilità alla volontà della comunità e dei superiori.

Il terzo motivo è invece di tipo storico. Ci sono dei modelli, e quello congregazionalista è fra essi, destinati inevitabilmente allo scacco storico. Esso è fiorito quando alcuni servizi erano assolutamente centrali per il riscatto dei poveri (scuole, ospedali, lavoro, ecc.). Oggi che tutto ciò è relativamente garantito dallo Stato, la forma religiosa nata per questi compiti e con le strutture finalizzate a questi risultati è inevitabilmente destinata a finire.

Il quarto motivo è invece sull’orizzonte teologale o del senso di Dio oggi. È una crisi di fede e di senso. Manca la sufficiente esperienza di Dio che sostenga un progetto di vita e ne garantisca il frutto. È una crisi di radicamento e di radicalità. Senza l’esperienza del sacro assoluto, senza l’immersione nelle fonti prime dell’essere, della vita e della verità, senza la dimensione mistica della realtà, la vita religiosa si svuota.

In altri termini, ciò che manca è la presenza dello Spirito, soffocata dalle consuetudini, dai perbenismi ecclesiastici, dai piccoli interessi personali, dall’insufficienza della stessa teologia. Davanti all’individualismo della cultura occidentale degli ultimi quattro secoli mancano alla teologia, e alla vita religiosa, coloro che sono in grado di denunciarne l’insufficienza senza dover ricadere nell’antimodernità ottocentesca. In positivo potrei indicare il giudizio contenuto nell’ultimo libro di Giovanni Paolo II sui grandi regimi dittatoriali del secolo trascorso, là dove si indica nel marxismo un “male necessario”. Non si tratta di giudizio storico, né di un giudizio filosofico, né di un giudizio ecclesiastico: è un giudizio teologale e spirituale capace di una denuncia radicale e di una inclusione sorprendente nel mistero salvifico di Dio.

A queste profondità, rifondare significa la ripresa di un percorso genetico e della sua evoluzione. L’atto spirituale di fondazione rimette in una sorta di statu nascenti, nell’indeterminazione in cui la comunità identifica le proprie possibilità. Più che una formula è un travaglio esistenziale il cui protagonista maggiore è lo Spirito. Non si tratta quindi di adattamento esteriore, quanto di un processo pneumatologico e cristologico legato alle provocazioni che la storia e la realtà sociale fanno emergere. Esige intuizione, sforzo, realizzazione, valutazione. Si tratta di riprendere in mano il movimento creativo dell’inizio e lasciarsi condurre dalle attuali condizioni del mondo e della Chiesa, verso un modello che possa tenere per un certo tempo. La radicalità di questa temperie spirituale potrebbe portare a cambiamenti anche profondi nella vita comune, nella pratica dei voti, nella collocazione sulle faglie più esposte della società.

Per dirla con p. José Maria Arnaiz: «La rifondazione riguarda l’attuale orizzonte della vita consacrata e il metodo per rileggerne, rigenerarne e reincarnarne il carisma, sia nella sua dimensione di spiritualità come in quella di missione. Essa riguarda, inoltre, la chiamata alla radicalità, alle cose fondamentali, primordiali, alle radici, alla dimensione teologale, al silenzio contemplativo e al deserto più che alle novità. La fedeltà creativa ci ricorda che il problema che la vita consacrata sta vivendo, nel momento attuale, ha a che vedere con la significatività o visibilità della sua identità e, pertanto, con la reale efficacia della sua missione evangelizzatrice. Riguarda infine la chiamata dello Spirito. La rivitalizzazione è spirito nuovo. È lo Spirito che rifonda un carisma». Il futuro di un istituto non è nella mimica del fondatore, ma in un atto di lettura originale dove l’interprete diventa in qualche maniera fondatore a sua volta. Tutto comincia dalla chiamata (evento, testimone o altro sollecitati dallo Spirito) che sviluppa un desiderio con tutte le illusioni e tentazioni connesse. Dopo scatta la decisione per entrare in una forma di vivere che interessa e intriga. Essa diventa maniera di vivere assieme che trova nella Chiesa un riconoscimento o una verifica. Tutto questo patrimonio si traduce o si riconosce nella regola, in base alla quale si attendono o si sollecitano nuove vocazioni. Il circolo si riapre di nuovo e così in permanenza. Dopo aver frequentato per lungo tempo le frontiere dei bisogni (dei poveri, delle comunità cristiane, ecc.) è essenziale imparare a comunicare ciò che ci fa vivere, le ragioni della nostra speranza.

Tutto ciò ha poco a che vedere con la semplice ripetizione della tradizione più recente, del modello di vita religiosa ottocentesco, anche se esso può richiamare oggi un certo numero di vocazioni in attesa di securizzazione. È piuttosto sollecitato da altri fenomeni ecclesiali come le nuove esperienze monastiche, le comunità legate alla pratica dei movimenti ecclesiali e le cosiddette nuove comunità che vanno popolando lo spazio delle Chiese europee più attaccate dalla secolarizzazione. Così come dai nuovi fenomeni sociali: dall’uso di Internet alla pratica sociale di tipo lobbystico, dalle nuove pratiche pubbliche alla presenza nei centri dei nuovi poteri (da Bruxelles a Pechino).

La percezione diffusa è che un buon tratto della rifondazione sia già percorso. È possibile riconoscere alcuni segnali. Fra questi si possono ricordare il ritorno alle fonti, la riformulazione del carisma e della spiritualità, l’inculturazione, l’accettazione delle diversità. E, come faceva notare p. Kolvenbach, chiunque oggi visiti una comunità religiosa e abbia memoria di quello che erano le comunità negli anni cinquanta non può che sorprendersi dei mutamenti riscontrabili: modi, forme, riferimenti, abitudini sono davvero diverse.

La nuova rilevanza della Parola è fra i segnali maggiori della rifondazione. Come la catechesi quando vuole andare alle sue radici incrocia la liturgia (non casualmente i vescovi francesi hanno riformulato il percorso catechetico a partire dalla veglia pasquale, cfr. Regno-doc. n.7/2003, p. 222), così la vita religiosa quando torna al desiderio della sua forma di vita incrocia la Scrittura. L’ampia pratica della lectio divina personale, comunitaria, offerta al popolo di Dio è un elemento decisivo. Così come la crescente abitudine a saper raccontarci reciprocamente tra fratelli, o tra sorelle, la propria fede o la tonalità fortemente biblica dell’omiletica o della predicazione.

Un secondo elemento è la centralità della vita fraterna. Corresponsabilità, servizio reciproco, austerità dei comportamenti, ospitalità: sono tutti segnali di un buon lavoro spirituale. Non si tratta solo di vivere la propria professione o il proprio servizio ecclesiale come un mandato della comunità, ma di avvertire e far avvertire la comune ricerca spirituale nella missione. Quando ci sentiamo dire nei servizi domenicali che le nostre omelie hanno il sapore del nostro vivere comunitario, o quando gli ospiti riconoscono che nelle nostre case c’è un’aria di famiglia, allora possiamo concludere che la strada intrapresa non è senza risultati. Sensibilità comunitaria vuol dire anche curare i momenti di preghiera comuni, le attività di riflessione e di formazione permanente, la libertà di espressione, i processi decisionali, i momenti di svago, ecc. Consapevoli sempre che l’intesa spirituale non coincide necessariamente con l’intesa psichica.

Un terzo elemento è la cura delle vocazioni. Di tutte le vocazioni ecclesiali, ma certo anche di quelle religiose. La direzione spirituale, l’accoglienza dei gruppi giovanili, la resistenza alla critica sistematica al nuovo, l’intelligenza spirituale delle forme di vita coltivate dai giovani, un progetto condiviso a livello provinciale, ecc.: rappresentano alcuni dei segnali positivi da apprezzare. Più in radice vi è la disponibilità delle comunità ad accompagnare in parte il processo formativo e a farsene carico, all’interno dell’insieme strutturato che fa capo ai superiori maggiori. Ma soprattutto a coinvolgere i giovani, anche postulanti, in quel processo di rinnovamento del carisma in cui essi si avvertono da subito dei rifondatori, pur rispettando la loro età e il limite del loro impegno.

Un quarto elemento è la collaborazione coi laici. Sul piano professionale (scuola, media, attività sociali ecc.) questo è un dato di evidenza. Non potremmo continuare le nostre iniziative senza il loro contributo. Ma il segnale della rifondazione scatta quando vi è in essi una qualche partecipazione al carisma. E soprattutto quando noi avvertiamo la necessità di raccontarlo e di farne parte ai laici che incrociamo nelle nostre giornate. In questo ambito una consapevole attenzione al ruolo femminile e ai suoi servizi ecclesiali costituisce un ulteriore segno positivo. Tutto ciò diventa possibile quando l’inserimento nel territorio e nella Chiesa locale è perseguito e adeguatamente curato.

Un quinto segnale riguarda il sistema di governo sia comunitario che provinciale. Si deve puntare sulle persone, sulle comunità, sui servizi, sulla presenza nel territorio. Non si tratta di definire il processo dall’alto, ma di un discernimento in cui il governo mette a frutto tutte le possibilità del corpo del proprio istituto. Questo sia come valorizzazione dei singoli e delle comunità che accettano di impegnarsi nella rifondazione, sia nel contenimento delle spinte distruttive. La presenza dei progetti apostolici provinciali e comunitari diventa una cartina di tornasole importante.

Vi sono molti altri segni della rifondazione in atto fra cui, in primo luogo, la missio ad gentes e il servizio ai poveri. La conferma della scelta della missione, nonostante la fragilità delle forze e il coraggio di resistere alla colpevolizzazione del povero e all’erosione della solidarietà, sono elementi di valore per indicare il futuro della vita consacrata. Vi sono anche molti altri indicatori che possono risultare efficaci nell’indicazione di una rifondazione in atto: dai processi di inculturazione alle presenze comunitarie interprovinciali e internazionali, dai nuovi servizi ministeriali alla specifica sensibilità delle generazioni nel compito di rifondazione.

La rifondazione non è un gesto di volontarismo. È un processo già in atto. La fedeltà allo Spirito saprà condurre ciascun carisma al proprio frutto.

   

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