n. 10
ottobre 2001

 

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di Biancarosa Magliano
 

È criterio evangelico

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Al loro ritorno gli apostoli raccontarono a Gesù tutto quello che avevano fatto. Allora egli li prese con sé e si ritirò in una città chiamata Betsàida”. Così, in una descrizione simpatica nella sua semplicità e sinteticità, narra l’evangelista Luca al capitolo 9, versetto10.

Nei versetti precedenti lo stesso narratore racconta che Gesù aveva chiamato a sé i Dodici; con loro aveva camminato per le strade di quel piccolo Paese in cui egli batteva la grande Storia e aveva dato loro potere e autorità di scacciare tutti i demoni e di guarire le malattie e li aveva mandati a predicare il regno di Dio e a guarire i malati; così ripete il vangelo. Ne aveva dettato le condizioni. Li aveva esortati a non prendere nulla per il viaggio: né bastone né pane, né denaro e neppure due tuniche. La grande storia della salvezza, costruita anche con il loro apporto, il loro camminare, il loro parlare, doveva avere un inizio di libertà e di saggezza, di speranze e di certezze diverse, quelle speranze e quelle certezze che vanno oltre i circoscritti e limitanti orizzonti umani: c’è un Padre che pensa agli uccelli del cielo e ai gigli dei campi. Gli uccelli non seminano, non mietono né raccolgono in granai, eppure il Padre li nutre. I gigli non lavorano, non tessono; eppure neanche Salomone veste come uno di loro.

La stessa cosa faranno i settantadue discepoli, secondo il racconto dello stesso evangelista al capitolo 10, versetto 17: “I settantadue discepoli tornarono pieni di gioia, dicendo: “Signore, anche i demoni ci obbediscono, quando invochiamo il tuo nome””. Qui c’è un dettaglio in più. Luca afferma che i discepoli gustavano un certo appagamento, erano giubilanti per gli esiti raggiunti, non in nome proprio, ma di Gesù che li aveva inviati.

Gli spunti per la riflessione sarebbero tanti. La libertà e la semplicità, la vera simplicitas, degli apostoli prima, dei discepoli poi; la capacità d’ascolto, d’accoglienza di Gesù. Egli non li interrompe; acconsente, accondiscende. Si compiace di quanto essi raccontano, gode con loro, e li rassicura spingendoli oltre nella motivazione della loro gioia: questa non si radica in quanto è stato loro concesso di fare, ma perché - dice Gesù - “i vostri nomi sono scritti in cielo”. Gli uni e gli altri - apostoli e discepoli - erano stati inviati da lui; avevano ricevuto un mandato-dono specifico: il carisma dell’annuncio e della guarigione. E qui troviamo l’esposizione familiare che dice la mutua fiducia tra chi manda e chi è inviato prima e tra chi racconta e chi ascolta poi.

La traiettoria, l’itinerario, l’orientamento, la finalità ultima del loro compito erano stati tracciati da Gesù. Egli li aveva scelti e, come fa esattamente anche oggi, li aveva inviati. Al ritorno il loro non è il “reddere rationem” dell’amministratore infedele o dei vignaioli perfidi, egoisti e imbroglioni. E’ la cronaca di quanto erano riusciti a realizzare. Dell’annuncio fatto, dei miracoli compiuti, delle guarigioni che avevano suscitato entusiasmo…

Il racconto, normalmente, non ha il carattere della ufficialità. Ha semplicemente quello dell’informazione. Ma è, esso pure, una categoria biblica e teologica, tanto che gli esegeti parlano di teologia narrante: lo si trova spesso, tanto nel Primo come nel Secondo Testamento. Quando i figli di Giacobbe rientrano dall’Egitto con i sacchi pieni di viveri e il denaro restituito - riferisce il libro della Genesi - relazionarono al padre “tutte le cose che erano loro capitate”.

Dopo che Mosè ebbe ricevuto le tavole della Legge, egli scende dal monte e racconta quanto il Signore gli ha rivelato; cosa egli ha fatto…

Nel prologo del Siracide, il traduttore racconta tutto quanto egli ha fatto “per coloro che all’estero intendano istruirsi conformando i propri costumi per vivere secondo la legge”.

Studiando a fondo il terzo vangelo e gli Atti, i due libri scritti dal narratore Luca, gli esegeti vi trovano l’importanza della verità di salvezza espressa nel racconto.

Paolo valorizza il racconto per difendersi di fronte alle accuse rivoltegli dai giudei e di fronte al re Agrippa narra la propria vicenda. Ricorda a tutti i presenti la sua storia più lontana, fondata su una rettitudine fondamentale; narra l’avventura occorsagli sulla strada verso Damasco. Prima aveva raccontato il tutto di fronte a Felice.

Carico di tenerezza è stato anche il discorso pronunciato agli anziani di Efeso: “Voi sapete come fin dal primo giorno in cui io arrivai nella provincia di Asia mi sono sempre comportato con voi …”.

Tipico esempio oggi del racconto spontaneo e cordiale è Giovanni Paolo II. Nelle udienze del mercoledì o nell’Angelus della domenica, quando queste giornate sono precedute da viaggi, da incontri particolari, egli racconta…

Al ritorno dall’Ucraina in piazza san Pietro racconta: “Il mio pellegrinaggio ha voluto essere un omaggio alla santità in quella terra intrisa di sangue di martiri”. Più avanti: “Ho incoraggiato la Chiesa ucraina a crescere nella comunione e nella collaborazione”. Ancora: “ la solenni celebrazioni eucaristiche è stato come vivere la liturgia a due polmoni”. L’incontro con i giovani: “Ho simbolicamente affidato all’Ucraina ‘giovane’ la Legge divina del Decalogo”.

Nei giorni della morte e dei funerali di Indro Montanelli un giornalista parlando di lui e della sua terra diceva: “ciò che amava di più erano le colline delle Cerbaie e il Padule, che, come raccontava, da ragazzo lo avevano nutrito e gli avevano impresso nell’anima “il carattere agreste”. E più giù: “agli amici Indro raccontava che…”.

Dopo oltre un mese dalla sua morte, un quotidiano nelle pagine letterarie, facendo allusione a un suo libro, titolava l’articolo su di lui: “Per Montanelli raccontare era una festa”.

Ma per farlo una sola è la legge: l’amore. Tutto diventa possibile quando la norma della convivenza è l’amore. Perché esso porta a superare le barriere della sfiducia, del dubbio, dell’ipercriticismo: “agli amici Indro raccontava…”.

E’ logico che, per un “buon” racconto, libero, obiettivo, non falsificato né contraffatto, è necessario porne tutti i presupposti. Tergiversare, adulterare la verità, simulare fatti non è raccontare. E’ non ammettere l’altro come soggetto. Il racconto libero e vero significa e comporta ammettere l’esistenza dell’altro come altro da sé, esistente per sé; non per incettarlo e renderlo schiavo del proprio pensiero, neppure del proprio racconto.

Interessante la specificazione. “Gli apostoli raccontarono tutto quello che avevano fatto”. Un racconto senza maschere, senza maggiorazioni, senza gonfiature né adulterazioni, senza sconti né tagli, senza fini di strumentalizzazione. Cosicché chi ascolta sa di non dover scoprire che vi sono esagerazioni esponenziali, e quindi di dover comunque fare sconti.

Il tutto significa anche essere veri, ma la verità prima che delle parole deve appartenere alla persona. Essa deve essere vera: ossia possedere trasparenza, fiducia, povertà, distacco. La trasparenza porta a rifuggire dalle strategie di quell’apparire che tende a voler salvaguardare l’immagine errata che uno può essersi fatto.

Il racconto vero è espressione di autenticità, ma non di ingenuità o semplicismo. E’ manifestazione dell’essere liberi dal complesso facile di non sentirsi amati.

Arturo Paoli in uno dei suoi libri sostiene che Hegel “riscopriva il senso della vita come partecipazione alla storia”. Ebbene il raccontare ci rende coscienti, e allo stesso tempo dà prova a noi stessi, della nostra partecipazione alla storia della comunità, dell’Istituto, perché tutto, davvero tutto, ha importanza nella vita. Tutto può contribuire a costruire la storia. Perché la storia, quel che si è fatto, costituisce un piccolo tassello alla propria storia.

In questa linea è il racconto-incontro degli apostoli con Gesù. Dopo averli ascoltati Gesù li porta con sé fuori dal tumulto della gente. C’è stata comunicazione e partecipazione. Ora il dialogo deve essere più profondo, deve acquisire una dimensione diversa, su altre coordinate.

Una domanda sorge spontanea: le nostre comunità sono così vigili e libere per cui il racconto corre in semplicità e verità? Al “rientro” o al ritorno come quello degli apostoli e dei discepoli è facile, è possibile un “racconto” libero e vivace, spontaneo e oggettivamente vero? Oppure...

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