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Nel
1906, or sono cent’anni, in Francia moriva Santa Elisabetta della Trinità. E or
sono cent’anni, nel 1906 appunto, in Germania nasceva Dietrich Bonhoeffer. Due
eventi diversi, nascita e morte: l’uno opposto all’altro; l’uno al confine
dell’altro; arrivo e partenza, nella nudità e comunque festeggiato il primo, e
nell’abbandono di tutto, nella spogliazione totale, l’altro. Due eventi che
racchiudono sempre una vita, un pensiero, una storia.
Due
personaggi, Elisabetta e Dietrich, che, con il loro pensiero e la loro storia
così diversa – anche se breve per ambedue – possiamo anche dire due personaggi
di confessione religiosa diversa, hanno inciso nel pensiero e nella storia universale.
Ambedue le biografie hanno il loro epilogo in periodi storici fortemente
caratteristici.
Santa
Elisabetta, monaca carmelitana, muore in un periodo di difficile transizione per
la Francia, la Chiesa francese e l’Europa tutta. Le azioni anticlericali da
parte del governo si stavano facendo sempre più roventi. Elisabetta, pur
giovane, cosciente e informata, legge gli eventi alla luce dell’intelligenza del
mistero di Dio e vi partecipa ‘attivamente’, pregando e offrendo. Dietrich
Bonhoeffer muore condannato, nel 1945, durante la dominazione nazista, dopo aver
salito «coraggioso e rassegnato – come scrive un suo biografo – la scala del
patibolo».
E ambedue
nella loro ideale contemporaneità con il mondo d’oggi continuano ad avere – o
possono avere ancor più di prima – un forte impatto nella società e nella Chiesa
di oggi. È necessario saper coglierne il messaggio.
Di
Elisabetta, è stato scritto che «con la sua profonda esperienza della
inabitazione trinitaria potrà dare nei prossimi anni un volto e una identità
specifica al dialogo interreligioso». Infatti ella ci rammenta che «il Dio
rivelato in Gesù Cristo è Padre, Figlio e Spirito, è relazione di Persone,
comunione d’amore». E questa convinzione trasformata in realtà storica per
ognuno/a potrà orientare non verso una pace fasulla o creata su idealità vacue,
ma sulla essenzialità della persona che è ‘relazione’ e potrà vivere in pienezza
soltanto se sarà capace di vuotarsi di sé per essere pienamente donna o
pienamente uomo disponibile alla vita con e per l’altro/a.
Elisabetta
contempla intensamente Gesù Crocifisso, nel quale risplende l’amore del Padre;
vive dimenticandosi di sé in quanto dà tutta l’importanza alla Trinità che la
inabita. Nulla, né il dolore più acuto, né la gioia più intensa la scardinano
dal suo centro. Basti ricordare quanto scriveva in una delle sue numerosissime
Lettere: «Si vorrebbe non far altro che rimanere, come Maddalena, questo
bel tipo di contemplativa, ai piedi del Maestro, avidi di comprendere tutto, di
penetrare sempre più a fondo in questo mistero di carità che è venuto a
rivelarci. Non le pare che nell’azione, quando si fa la parte di Marta, l’anima
possa restare sempre tutta adorante, sepolta come la Maddalena nella sua
contemplazione, attaccata a questa sorgente divina come un’assetata?» (L158).
Di Dietrich,
teologo e biblista, che pone la preghiera quotidiana, soprattutto la preghiera
fatta di ascolto della Parola, in scansione con le ore lavorative, così da
tracciarne quasi un progetto quotidiano, è stato scritto che intendeva la
propria vita «non come puro accadere ma come scelta». Non si permette fughe
all’indietro, né fughe in avanti, perché «la vita deve essere veramente e
totalmente se stessa». Scriveva in La vita comune: «Anche la preghiera ha
bisogno di un tempo determinato. Ma le ore della giornata sono dedicate al
lavoro. Solo lì dove ad ognuna di queste attività è dedicato il tempo che le
spetta, si vede chiaramente la connessione fra ambedue. Senza il peso e la
fatica della giornata la preghiera non è preghiera e senza la preghiera il
lavoro non è lavoro… La preghiera del cristiano si estende, oltre il tempo ad
essa assegnato a tutto il lavoro. Abbraccia tutta la giornata; non impedisce il
lavoro, anzi, lo promuove, lo accetta, gli dà serietà ed allegrezza». E si
richiama all’esortazione di Paolo: «Qualunque cosa facciate in parola ed opera,
fate ogni cosa nel nome del Signore».
Elisabetta e
Dietrich: l’uno e l’altra hanno avuto la consapevolezza irrinunciabile della
propria identità, del proprio ruolo nella storia, e nella storia del tempo:
l’una immedesimandosi a fondo nella vocazione carmelitana, l’altro, da fedele
luterano confessante, appassionandosi anche lui sulle tracce del proprio
maestro.
Sul
palcoscenico della storia non ha importanza il ruolo che è affidato, che si è
chiamati a svolgere, o che si sceglie perché risponde alle proprie sensibilità e
competenze, per il quale ci si è preparati anche con studi specialistici. Le
mansioni non costituiscono l’essenziale dell’esistenza umana. Sono “accidenti”
pur necessari in quanto possono favorire la realizzazione della persona, la
concretizzazione delle sue potenzialità; possono offrire uno splendido apporto
alla crescita di ogni comunità, alla felicità cui ogni persona è comunque
chiamata, al perfezionamento e all’abbellimento del creato, all’evolvere della
tecnica, tanto che si rimane comunque sorpresi dalla rapidità del suo processo
evolutivo.
Non importa
neppure la durata del tempo che si impiega a stare sul palcoscenico. Per questo
ogni vita ha un suo valore inalienabile, ed è tale in ogni sua fase, nel grembo
materno o sugli spalti della storia, e in ogni situazione: di sanità o di
malattia, di freschezza e prestanza o di involuzione.
Importa,
questo sì, svolgere bene, in pienezza, in tutti i risvolti, e possibilmente
sempre con ‘professionalità’ il proprio ruolo incastonato in quello altrui.
Perché nessuno è solo. Perché la vita non è un monologo. Le stesse molte
Lettere tanto di Elisabetta, carmelitana francese, come di Dietrich,
luterano tedesco, documentano la viva relazionalità dell’una e dell’altro.
E non è
nemmeno essenziale essere ‘primari’. Può essere sufficiente, a volte, fare la
staffetta, ma essere staffetta di rappacificazione in una umanità ferita,
bellicosa, in una società e comunità o gruppo aggressivo; essere staffetta di
speranza in tempi di paure e di disincanto, di minoranza e di declino; essere
staffetta della promozione altrui in tempi di arrivismi e di protagonismo.
È inoltre
necessario saper spaziare nel contesto ecclesiale e sociale, coglierne le grida
e i lamenti, le gioie e le attese; ampliare gli orizzonti. Scoprire il mondo e
la società e l’umanità dalle varie angolature e con prospettive diverse.
Chiudersi a riccio perché le difficoltà sono molte ha senso? Fuggire perché gli
imprevisti sono troppi, è efficace? La ‘fuga’ non apparteneva né ad Elisabetta
né a Dietrich. Essi ci hanno insegnato a ‘vivere’ e a morire coraggiosamente.
Perché ciò che importa è il ‘come’ si vive. Non interessano né il luogo né il
tempo. Interessa il ‘come’. Ossia lo stile di vita.
La Redazione
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