n. 11
novembre 2006

 

Altri articoli disponibili



 

 

trasp.gif (814 byte)

trasp.gif (814 byte)

trasp.gif (814 byte)

trasp.gif (814 byte)

Nel 1906, or sono cent’anni, in Francia moriva Santa Elisabetta della Trinità. E or sono cent’anni, nel 1906 appunto, in Germania nasceva Dietrich Bonhoeffer. Due eventi diversi, nascita e morte: l’uno opposto all’altro; l’uno al confine dell’altro; arrivo e partenza, nella nudità e comunque festeggiato il primo, e nell’abbandono di tutto, nella spogliazione totale, l’altro. Due eventi che racchiudono sempre una vita, un pensiero, una storia.

Due personaggi, Elisabetta e Dietrich, che, con il loro pensiero e la loro storia così diversa – anche se breve per ambedue – possiamo anche dire due personaggi di confessione religiosa diversa, hanno inciso nel pensiero e nella storia universale. Ambedue le biografie hanno il loro epilogo in periodi storici fortemente caratteristici.

Santa Elisabetta, monaca carmelitana, muore in un periodo di difficile transizione per la Francia, la Chiesa francese e l’Europa tutta. Le azioni anticlericali da parte del governo si stavano facendo sempre più roventi. Elisabetta, pur giovane, cosciente e informata, legge gli eventi alla luce dell’intelligenza del mistero di Dio e vi partecipa ‘attivamente’, pregando e offrendo. Dietrich Bonhoeffer muore condannato, nel 1945, durante la dominazione nazista, dopo aver salito «coraggioso e rassegnato – come scrive un suo biografo – la scala del patibolo».

E ambedue nella loro ideale contemporaneità con il mondo d’oggi continuano ad avere – o possono avere ancor più di prima – un forte impatto nella società e nella Chiesa di oggi. È necessario saper coglierne il messaggio.

Di Elisabetta, è stato scritto che «con la sua profonda esperienza della inabitazione trinitaria potrà dare nei prossimi anni un volto e una identità specifica al dialogo interreligioso». Infatti ella ci rammenta che «il Dio rivelato in Gesù Cristo è Padre, Figlio e Spirito, è relazione di Persone, comunione d’amore». E questa convinzione trasformata in realtà storica per ognuno/a potrà orientare non verso una pace fasulla o creata su idealità vacue, ma sulla essenzialità della persona che è ‘relazione’ e potrà vivere in pienezza soltanto se sarà capace di vuotarsi di sé per essere pienamente donna o pienamente uomo disponibile alla vita con e per l’altro/a.

Elisabetta contempla intensamente Gesù Crocifisso, nel quale risplende l’amore del Padre; vive dimenticandosi di sé in quanto dà tutta l’importanza alla Trinità che la inabita. Nulla, né il dolore più acuto, né la gioia più intensa la scardinano dal suo centro. Basti ricordare quanto scriveva in una delle sue numerosissime Lettere: «Si vorrebbe non far altro che rimanere, come Maddalena, questo bel tipo di contemplativa, ai piedi del Maestro, avidi di comprendere tutto, di penetrare sempre più a fondo in questo mistero di carità che è venuto a rivelarci. Non le pare che nell’azione, quando si fa la parte di Marta, l’anima possa restare sempre tutta adorante, sepolta come la Maddalena nella sua contemplazione, attaccata a questa sorgente divina come un’assetata?» (L158).

Di Dietrich, teologo e biblista, che pone la preghiera quotidiana, soprattutto la preghiera fatta di ascolto della Parola, in scansione con le ore lavorative, così da tracciarne quasi un progetto quotidiano, è stato scritto che intendeva la propria vita «non come puro accadere ma come scelta». Non si permette fughe all’indietro, né fughe in avanti, perché «la vita deve essere veramente e totalmente se stessa». Scriveva in La vita comune: «Anche la preghiera ha bisogno di un tempo determinato. Ma le ore della giornata sono dedicate al lavoro. Solo lì dove ad ognuna di queste attività è dedicato il tempo che le spetta, si vede chiaramente la connessione fra ambedue. Senza il peso e la fatica della giornata la preghiera non è preghiera e senza la preghiera il lavoro non è lavoro… La preghiera del cristiano si estende, oltre il tempo ad essa assegnato a tutto il lavoro. Abbraccia tutta la giornata; non impedisce il lavoro, anzi, lo promuove, lo accetta, gli dà serietà ed allegrezza». E si richiama all’esortazione di Paolo: «Qualunque cosa facciate in parola ed opera, fate ogni cosa nel nome del Signore».

Elisabetta e Dietrich: l’uno e l’altra hanno avuto la consapevolezza irrinunciabile della propria identità, del proprio ruolo nella storia, e nella storia del tempo: l’una immedesimandosi a fondo nella vocazione carmelitana, l’altro, da fedele luterano confessante, appassionandosi anche lui sulle tracce del proprio maestro.

Sul palcoscenico della storia non ha importanza il ruolo che è affidato, che si è chiamati a svolgere, o che si sceglie perché risponde alle proprie sensibilità e competenze, per il quale ci si è preparati anche con studi specialistici. Le mansioni non costituiscono l’essenziale dell’esistenza umana. Sono “accidenti” pur necessari in quanto possono favorire la realizzazione della persona, la concretizzazione delle sue potenzialità; possono offrire uno splendido apporto alla crescita di ogni comunità, alla felicità cui ogni persona è comunque chiamata, al perfezionamento e all’abbellimento del creato, all’evolvere della tecnica, tanto che si rimane comunque sorpresi dalla rapidità del suo processo evolutivo.

Non importa neppure la durata del tempo che si impiega a stare sul palcoscenico. Per questo ogni vita ha un suo valore inalienabile, ed è tale in ogni sua fase, nel grembo materno o sugli spalti della storia, e in ogni situazione: di sanità o di malattia, di freschezza e prestanza o di involuzione.

Importa, questo sì, svolgere bene, in pienezza, in tutti i risvolti, e possibilmente sempre con ‘professionalità’ il proprio ruolo incastonato in quello altrui. Perché nessuno è solo. Perché la vita non è un monologo. Le stesse molte Lettere tanto di Elisabetta, carmelitana francese, come di Dietrich, luterano tedesco, documentano la viva relazionalità dell’una e dell’altro.

E non è nemmeno essenziale essere ‘primari’. Può essere sufficiente, a volte, fare la staffetta, ma essere staffetta di rappacificazione in una umanità ferita, bellicosa, in una società e comunità o gruppo aggressivo; essere staffetta di speranza in tempi di paure e di disincanto, di minoranza e di declino; essere staffetta della promozione altrui in tempi di arrivismi e di protagonismo.

È inoltre necessario saper spaziare nel contesto ecclesiale e sociale, coglierne le grida e i lamenti, le gioie e le attese; ampliare gli orizzonti. Scoprire il mondo e la società e l’umanità dalle varie angolature e con prospettive diverse. Chiudersi a riccio perché le difficoltà sono molte ha senso? Fuggire perché gli imprevisti sono troppi, è efficace? La ‘fuga’ non apparteneva né ad Elisabetta né a Dietrich. Essi ci hanno insegnato a ‘vivere’ e a morire coraggiosamente. Perché ciò che importa è il ‘come’ si vive. Non interessano né il luogo né il tempo. Interessa il ‘come’. Ossia lo stile di vita. 

La Redazione