n. 11
novembre 2006

 

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PER UNA RELAZIONALITÀ COMUNITARIA
di M. Pia Giudici *

 

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Una domanda provocatoria: Che cosa pensi – tu che mi leggi – di quell’antico detto: “Vita comune: mia massima penitenza?”.

Quanto più m’inoltro nella vita e nella riflessione sulla vita, tanto più mi pare che tale affermazione sia vera solo su un certo versante: quello del “dover” stare insieme. L’aspetto penitenziale ha la sua ragion d’essere, ma non è tutto. Anzi lo vedo come il necessario azionare qualcosa che apre gli spazi a ciò che è assolutamente indispensabile allo stare insieme comunitario: l’amore.

Così la penitenza del sopportare (ma meglio è dire: “accogliere”) quello che piace a te e forse a me causa un certo disagio, permette che si attivi una corrente d’amore. Ed essa diventa poi gioia in te e anche in me. Poiché l’amore è tutto. Esploriamo meglio questa dinamica.

Anzitutto la ricerca personale della pace

Maurice Bellet, acuto pensatore vivente, scrive: «Oggi il pericolo maggiore è che il nostro delirio produttivista e consumatore, retto sempre dal denaro, arrivi lentamente a ‘produrre’ esseri umani disumanizzati, senza radici, senza futuro, senza consistenza»1.

Ti viene subito in mente, per contrasto, l’affermazione di Isaia: «Se non crederete, non avrete stabilità» (Is 7,9b).

Ma che cosa vuol dire “credere” per me, oggi? Una fede che sia solo adesione intellettiva a una serie di formulazioni dottrinali non tiene più. È come un muro di cartapesta che, dove irrompe la piena di un fiume, viene travolto.

“Irrompono”, oggi più che mai, le acque inondanti di una mentalità che gioca a far credere che la felicità, lo stare bene, il realizzare cose convenienti e di gran prezzo sia all’insegna di una felicità godereccia, dove la “privacy” ha la meglio e lo stare insieme è comodo se è baldoria.

Si potrebbe obiettare: ma noi consacrate siamo su altri percorsi.

È vero, ma l’apostolato stesso (oltre che l’uso non sempre disciplinato dei “mass media”) ci coinvolge nella “pasta” di questo mondo che è ammorbata da questa mentalità.

Potremmo definirla “mentalità materialista” ma anche della fretta, della corsa, del sentirsi attanagliati da urgenze su urgenze. Finalizzate a che cosa? Sostanzialmente alle richieste del sistema globalizzante tutto a livello di mercato: produrre, far soldi, sperimentare piacere, consumare.

Proprio da tutto questo “sgocciola”, non avvertito, il lamento dell’angoscia e l’odore della morte.

È proprio su questo sfondo che prende il via e si rafforza un imprescindibile modo di far entrare la fede nella vita e la vita nella fede.

«Se non crederete non avrete stabilità» – dice il Primo Testamento. E la Parola di Gesù aggiunge: «Chi crede ha la vita eterna». Sì, qui e ora (“ha” è il tempo presente, non futuro); qui e ora chi crede vitalmente ha il Regno di Dio nel cuore, quel Regno che è la sua Presenza con «giustizia pace e gioia nello Spirito Santo» (Rm 17,14).

Perché questo dia consistenza alle mie giornate e diventi vigore nel mio agire, soprattutto sprigioni in me quel respiro di pace di cui ho assolutamente bisogno, è indispensabile che io, al mattino, non solo legga la Parola ma, come dicevano i Padri, la “rumini”.

Bisogna assolutamente trovare spazi di quiete contemplativa per questa “ruminazione”.

Penso al “ruminare” del bestiame su verdi pascoli soleggiati. C’è silenzio e sole. La presenza del pastore assicura una custodia di quello spazio stesso nella pace.

Così dev’essere nelle nostre giornate. Tutto comincia di lì, tutto dipende dal “ruminare” sotto lo sguardo di Colui che mi custodisce nell’amore. La Parola interiorizzata diventa Parola di vita: mette ordine nelle mie giornate. Impedisce il caos dei pensieri e dei sentimenti. È argine all’affanno, il micidiale affanno che connota il tipico odierno “gran da fare” e il “gran correre” in tutte le direzioni.

La stabilità, ottenuta da questa fede-fiducia nella Parola, diventa respiro, ritmo. Diventa pace.

Per una relazionalità positiva

Eccoci al punto. Io posso entrare in una relazionalità guarita da conflittualità, da blocchi, da paure e difese, solo se la pace di Cristo Gesù, anzi se “Cristo nostra pace” dimora in me, nel profondo della mia esistenzialità consegnata a Lui.

Tramite il costante tornare al cuore, facendo memoria della Parola “ruminata” al mattino, mi carico di energie di pace, di una luminosità accogliente che mi mette in grado di accogliere l’altra/o nella sua diversità e di scoprire che proprio questa diversità è ricchezza anzitutto per me.

Nessuno è un’isola. Nemmeno l’eremita, appostato sulla scogliera. Tanto meno noi che, in comunità, sperimentiamo il contatto continuo con le espressioni più diverse di umanità.

C’è la consorella molto dotata, con un quoziente alto di intelligenza e c’è la consorella che a mala pena scrive e legge più o meno correttamente. C’è la consorella vivace, estrosa, creativa che spande buon umore e tinteggia di serenità il suo dire e c’è la consorella che, anche per sopravvenuti acciacchi della vecchiaia o per un fondo temperamentale che certe malattie hanno peggiorato, è piuttosto facile a vedere tutto nero, e a sottolineare difficoltà a non finire.

C’è la consorella “tutto-fare” e quella… “niente-fare”. C’è quella a cui piacciono i tuoi stessi autori, la tua stessa musica e s’appassiona, come te, al bello. E c’è quella tutta praticità, buon senso e realizzazioni immediate.

La comunità è una fucina. Il fuoco è (o dovrebbe essere) l’amore di Dio, ma quello che in essa viene temprato e modellato è molto “diverso”.

C’è però qualcosa che accomuna tutte: una sete d’amore (e di felicità nell’amore!) che nel nostro essere consacrate a Dio, anche dentro percorsi faticosi o addirittura distorti, mai è spenta, mai è del tutto soffocata.

Ecco, è proprio dentro questa sete d’amore e di felicità che il Signore mi chiama a “giocarmi” con quel movimento semplice, essenziale che è, anzitutto, il connettermi con Lui come mia Pace. Subito dopo viene il relazionarmi con l’altra proprio attraverso questa pace.

Se la mia stabilità e consistenza è il credere al Suo “esserci” e “abitarmi” e “avvolgermi” e penetrarmi delle sue energie d’amore, il resto viene di conseguenza. Certo, il “diverso” di chi mi sta accanto, a volte, può procurarmi ferite, deludenti sorprese o uno sfiancante accanimento verbale, ma sarà importante memorizzare quella parola di Gesù: «Non temere, tu continua soltanto a credere» (Mc 5,36).

In questi momenti di conflittualità quel che conta è proprio rendere ben salda la comunione interiore con Dio e lasciare che la sua pace (quella pace più profonda della gioia e del dolore, di cui parla S. Paolo) non venga messa a repentaglio. Anzi, diventi un’energia che, misteriosamente dilagante attorno a me, si comunica anche all’altra persona che ha scatenato il conflitto.

Sì, “giocarsi” in una relazionalità positiva è anzitutto questo tenersi salda, ma vitalmente, a Uno che non solo è divina Presenza in me, ma dinamizza la volontà di bene che è in me e anche (a livelli di consapevolezza o no) nell’altra persona.

È a questo punto che nel mio intimo l’amore cresce, la pace mette radici e anche nell’altra persona con cui entro in relazione, emergono sentimenti buoni forse sopiti, nuove possibilità di apertura alla comunicazione pacifica e a quella felicità per cui siamo fatte: sia io che lei.

Scrive Sharon Salzberg: «Quando abbiamo una visione profonda del nostro mondo interiore e di ciò che ci procura la felicità, camminiamo in amicizia con noi stessi e con tutti gli esseri. Allora comprendiamo gli altri intuitivamente anche senza parole e possiamo sentirci vicini alle altrui esperienze, come se non ci fosse più alcuna barriera a segnare i confini del nostro interesse. Ci accorgiamo che, quando in noi si agita la collera, c’è un elemento di dolore non diverso dalla sofferenza che provano gli altri quando sono adirati; e quando proviamo amore c’è gioia in noi e arriviamo a comprendere che si tratta della natura stessa dell’amore e che gli altri esseri, pieni d’amore, sperimentano la stessa gioia»2.

La relazionalità dunque, quando è in comunione con le profondità del mio cuore consapevole del Dio Presente e consapevole di se stesso, diventa una grande occasione di crescita spirituale.

Certe modalità di rapportarsi alle altre sorelle dentro dinamiche solo d’interessi immediati (fossero pure interessi apostolici) non producono nulla perché “immersi” solo in finalità immediate. Così certe amicizie, che “incollano” le persone dentro banali piacevolezze, come le mosche su carta moschicida. Tutto ciò che è superficiale, banale oppure legato a “doverismi” e a rigide formalità spegne la relazione o la riduce tutt’al più a una… “massima penitenza”.

I grandi spazi: crescere in comunione

Senza interiorità, il nostro relazionarci è una pianta avulsa dalle radici. Dissecca e muore.

Ma se l’Amore abita in noi, se a Lui, alla presenza di Dio Amore, il nostro cuore continuamente si volge con la forza del nostro desiderio unificante la nostra persona, quali spazi si aprono in noi!

Alla luce della Sua Parola il nostro “abito” mentale si veste di positività e il nostro cuore si converte continuamente a quell’amore che è paziente, non invidia, non è geloso, non si adira, non demolisce con giudizi negativi, tutto “crede, tutto spera” a proposito di quella manifestazione unica, irripetibile di umanità che è la persona fatta come me a “immagine e somiglianza” del Creatore.

Allora io cresco dentro la netta percezione che chi mi sta accanto, come me, è chiamata a realizzare un progetto un sogno bello di Dio nella sua vita, insieme a me è sospinta – dal progetto del Padre – su strade di quella santità che è amore e dunque solarità di gioia: proprio quella gioia di cui lei e io abbiamo assoluto bisogno.

A questo punto il “pensare positivo” che entra nei migliori percorsi terapeutici delle scienze antropologiche attuali, diventa in noi un abito mentale, uno stile di vita e un modo di rapportarci a tutti gli esseri, non solo alle sorelle più vicine. Allora ci sentiamo davvero arricchite dal “diverso” rappresentato da ogni consorella della nostra comunità. Perché, dentro la costante spinta interiore, l’energia di Colui che ha detto: «Dal vostro reciproco amore vi riconosceranno come miei discepoli» (cfr. Gv 13,35) anzitutto avremo uno sguardo di misericordia su difetti e ombre delle altre. Saremo consapevoli che anche in noi – spesso non vista da noi! – la “trave” è lì a sollecitare l’altrui pazienza.

Ma l’avventura più bella sarà porre attenzione a scoprire, con sguardo decentrato dal nostro “ego”, il “mistero” delle altre, di ogni “altra”.

Quel che di questo mistero umano-divino traluce dal mio entrare in relazione con lei è un trampolino di lancio in più profonde acque di comprensione, di verità, di bellezza, di gioiosa attesa, d’amore, di comunione.

Le “alghe” delle differenze non odorano di salsedine, ma della ampiezze di quel Dio Creatore e Redentore che per grandi spazi ci ha creati: quelli della gioia qui in terra, della felicità senza fine nel porto dell’Eternità.


*Figlia di Maria Ausiliatrice. Animatrice della casa di preghiera e di accoglienza a Subiaco (RM). [Torna al testo]

1.   M. Bellet, Il pensiero che ascolta, Paoline, Milano 2006, p. 165. [Torna al testo]

2.  S. Salzberg, L’arte rivoluzionaria della gioia, Ubaldini, Roma, p.44. [Torna al testo]

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