Una
domanda provocatoria: Che cosa pensi – tu che mi leggi – di quell’antico
detto: “Vita comune: mia massima penitenza?”.
Quanto più m’inoltro nella vita e nella riflessione sulla vita, tanto
più mi pare che tale affermazione sia vera solo su un certo versante:
quello del “dover” stare insieme. L’aspetto penitenziale ha la sua
ragion d’essere, ma non è tutto. Anzi lo vedo come il necessario
azionare qualcosa che apre gli spazi a ciò che è assolutamente
indispensabile allo stare insieme comunitario: l’amore.
Così
la penitenza del sopportare (ma meglio è dire: “accogliere”) quello che
piace a te e forse a me causa un certo disagio, permette che si attivi
una corrente d’amore. Ed essa diventa poi gioia in te e anche in me.
Poiché l’amore è tutto. Esploriamo meglio questa dinamica.
Anzitutto la ricerca personale della pace
Maurice Bellet, acuto pensatore vivente, scrive: «Oggi il pericolo
maggiore è che il nostro delirio produttivista e consumatore, retto
sempre dal denaro, arrivi lentamente a ‘produrre’ esseri umani
disumanizzati, senza radici, senza futuro, senza consistenza»1.
Ti
viene subito in mente, per contrasto, l’affermazione di Isaia: «Se non
crederete, non avrete stabilità» (Is 7,9b).
Ma
che cosa vuol dire “credere” per me, oggi? Una fede che sia solo
adesione intellettiva a una serie di formulazioni dottrinali non tiene
più. È come un muro di cartapesta che, dove irrompe la piena di un
fiume, viene travolto.
“Irrompono”, oggi più che mai, le acque inondanti di una mentalità che
gioca a far credere che la felicità, lo stare bene, il realizzare cose
convenienti e di gran prezzo sia all’insegna di una felicità godereccia,
dove la “privacy” ha la meglio e lo stare insieme è comodo se è
baldoria.
Si
potrebbe obiettare: ma noi consacrate siamo su altri percorsi.
È
vero, ma l’apostolato stesso (oltre che l’uso non sempre disciplinato
dei “mass media”) ci coinvolge nella “pasta” di questo mondo che è
ammorbata da questa mentalità.
Potremmo definirla “mentalità materialista” ma anche della fretta, della
corsa, del sentirsi attanagliati da urgenze su urgenze. Finalizzate a
che cosa? Sostanzialmente alle richieste del sistema globalizzante tutto
a livello di mercato: produrre, far soldi, sperimentare piacere,
consumare.
Proprio da tutto questo “sgocciola”, non avvertito, il lamento
dell’angoscia e l’odore della morte.
È
proprio su questo sfondo che prende il via e si rafforza un
imprescindibile modo di far entrare la fede nella vita e la vita nella
fede.
«Se
non crederete non avrete stabilità» – dice il Primo Testamento. E la
Parola di Gesù aggiunge: «Chi crede ha la vita eterna». Sì, qui e ora
(“ha” è il tempo presente, non futuro); qui e ora chi crede vitalmente
ha il Regno di Dio nel cuore, quel Regno che è la sua Presenza con
«giustizia pace e gioia nello Spirito Santo» (Rm 17,14).
Perché questo dia consistenza alle mie giornate e diventi vigore nel mio
agire, soprattutto sprigioni in me quel respiro di pace di cui ho
assolutamente bisogno, è indispensabile che io, al mattino, non solo
legga la Parola ma, come dicevano i Padri, la “rumini”.
Bisogna assolutamente trovare spazi di quiete contemplativa per questa
“ruminazione”.
Penso
al “ruminare” del bestiame su verdi pascoli soleggiati. C’è silenzio e
sole. La presenza del pastore assicura una custodia di quello spazio
stesso nella pace.
Così
dev’essere nelle nostre giornate. Tutto comincia di lì, tutto dipende
dal “ruminare” sotto lo sguardo di Colui che mi custodisce nell’amore.
La Parola interiorizzata diventa Parola di vita: mette ordine nelle mie
giornate. Impedisce il caos dei pensieri e dei sentimenti. È argine
all’affanno, il micidiale affanno che connota il tipico odierno “gran da
fare” e il “gran correre” in tutte le direzioni.
La
stabilità, ottenuta da questa fede-fiducia nella Parola, diventa
respiro, ritmo. Diventa pace.
Per
una relazionalità positiva
Eccoci al punto. Io posso entrare in una relazionalità guarita da
conflittualità, da blocchi, da paure e difese, solo se la pace di Cristo
Gesù, anzi se “Cristo nostra pace” dimora in me, nel profondo della mia
esistenzialità consegnata a Lui.
Tramite il costante tornare al cuore, facendo memoria della Parola
“ruminata” al mattino, mi carico di energie di pace, di una luminosità
accogliente che mi mette in grado di accogliere l’altra/o nella sua
diversità e di scoprire che proprio questa diversità è ricchezza
anzitutto per me.
Nessuno è un’isola. Nemmeno l’eremita, appostato sulla scogliera. Tanto
meno noi che, in comunità, sperimentiamo il contatto continuo con le
espressioni più diverse di umanità.
C’è
la consorella molto dotata, con un quoziente alto di intelligenza e c’è
la consorella che a mala pena scrive e legge più o meno correttamente.
C’è la consorella vivace, estrosa, creativa che spande buon umore e
tinteggia di serenità il suo dire e c’è la consorella che, anche per
sopravvenuti acciacchi della vecchiaia o per un fondo temperamentale che
certe malattie hanno peggiorato, è piuttosto facile a vedere tutto nero,
e a sottolineare difficoltà a non finire.
C’è
la consorella “tutto-fare” e quella… “niente-fare”. C’è quella a cui
piacciono i tuoi stessi autori, la tua stessa musica e s’appassiona,
come te, al bello. E c’è quella tutta praticità, buon senso e
realizzazioni immediate.
La
comunità è una fucina. Il fuoco è (o dovrebbe essere) l’amore di Dio, ma
quello che in essa viene temprato e modellato è molto “diverso”.
C’è
però qualcosa che accomuna tutte: una sete d’amore (e di felicità
nell’amore!) che nel nostro essere consacrate a Dio, anche dentro
percorsi faticosi o addirittura distorti, mai è spenta, mai è del tutto
soffocata.
Ecco,
è proprio dentro questa sete d’amore e di felicità che il Signore mi
chiama a “giocarmi” con quel movimento semplice, essenziale che è,
anzitutto, il connettermi con Lui come mia Pace. Subito dopo viene il
relazionarmi con l’altra proprio attraverso questa pace.
Se la
mia stabilità e consistenza è il credere al Suo “esserci” e “abitarmi” e
“avvolgermi” e penetrarmi delle sue energie d’amore, il resto viene di
conseguenza. Certo, il “diverso” di chi mi sta accanto, a volte, può
procurarmi ferite, deludenti sorprese o uno sfiancante accanimento
verbale, ma sarà importante memorizzare quella parola di Gesù: «Non
temere, tu continua soltanto a credere» (Mc 5,36).
In
questi momenti di conflittualità quel che conta è proprio rendere ben
salda la comunione interiore con Dio e lasciare che la sua pace (quella
pace più profonda della gioia e del dolore, di cui parla S. Paolo) non
venga messa a repentaglio. Anzi, diventi un’energia che, misteriosamente
dilagante attorno a me, si comunica anche all’altra persona che ha
scatenato il conflitto.
Sì,
“giocarsi” in una relazionalità positiva è anzitutto questo tenersi
salda, ma vitalmente, a Uno che non solo è divina Presenza in me, ma
dinamizza la volontà di bene che è in me e anche (a livelli di
consapevolezza o no) nell’altra persona.
È a
questo punto che nel mio intimo l’amore cresce, la pace mette radici e
anche nell’altra persona con cui entro in relazione, emergono sentimenti
buoni forse sopiti, nuove possibilità di apertura alla comunicazione
pacifica e a quella felicità per cui siamo fatte: sia io che lei.
Scrive Sharon Salzberg: «Quando abbiamo una visione profonda del nostro
mondo interiore e di ciò che ci procura la felicità, camminiamo in
amicizia con noi stessi e con tutti gli esseri. Allora comprendiamo gli
altri intuitivamente anche senza parole e possiamo sentirci vicini alle
altrui esperienze, come se non ci fosse più alcuna barriera a segnare i
confini del nostro interesse. Ci accorgiamo che, quando in noi si agita
la collera, c’è un elemento di dolore non diverso dalla sofferenza che
provano gli altri quando sono adirati; e quando proviamo amore c’è gioia
in noi e arriviamo a comprendere che si tratta della natura stessa
dell’amore e che gli altri esseri, pieni d’amore, sperimentano la stessa
gioia»2.
La
relazionalità dunque, quando è in comunione con le profondità del mio
cuore consapevole del Dio Presente e consapevole di se stesso, diventa
una grande occasione di crescita spirituale.
Certe
modalità di rapportarsi alle altre sorelle dentro dinamiche solo
d’interessi immediati (fossero pure interessi apostolici) non producono
nulla perché “immersi” solo in finalità immediate. Così certe amicizie,
che “incollano” le persone dentro banali piacevolezze, come le mosche su
carta moschicida. Tutto ciò che è superficiale, banale oppure legato a
“doverismi” e a rigide formalità spegne la relazione o la riduce tutt’al
più a una… “massima penitenza”.
I
grandi spazi: crescere in comunione
Senza
interiorità, il nostro relazionarci è una pianta avulsa dalle radici.
Dissecca e muore.
Ma se
l’Amore abita in noi, se a Lui, alla presenza di Dio Amore, il nostro
cuore continuamente si volge con la forza del nostro desiderio
unificante la nostra persona, quali spazi si aprono in noi!
Alla
luce della Sua Parola il nostro “abito” mentale si veste di positività e
il nostro cuore si converte continuamente a quell’amore che è paziente,
non invidia, non è geloso, non si adira, non demolisce con giudizi
negativi, tutto “crede, tutto spera” a proposito di quella
manifestazione unica, irripetibile di umanità che è la persona fatta
come me a “immagine e somiglianza” del Creatore.
Allora io cresco dentro la netta percezione che chi mi sta accanto, come
me, è chiamata a realizzare un progetto un sogno bello di Dio nella sua
vita, insieme a me è sospinta – dal progetto del Padre – su strade di
quella santità che è amore e dunque solarità di gioia: proprio quella
gioia di cui lei e io abbiamo assoluto bisogno.
A
questo punto il “pensare positivo” che entra nei migliori percorsi
terapeutici delle scienze antropologiche attuali, diventa in noi un
abito mentale, uno stile di vita e un modo di rapportarci a tutti gli
esseri, non solo alle sorelle più vicine. Allora ci sentiamo davvero
arricchite dal “diverso” rappresentato da ogni consorella della nostra
comunità. Perché, dentro la costante spinta interiore, l’energia di
Colui che ha detto: «Dal vostro reciproco amore vi riconosceranno come
miei discepoli» (cfr. Gv 13,35) anzitutto avremo uno sguardo di
misericordia su difetti e ombre delle altre. Saremo consapevoli che
anche in noi – spesso non vista da noi! – la “trave” è lì a sollecitare
l’altrui pazienza.
Ma
l’avventura più bella sarà porre attenzione a scoprire, con sguardo
decentrato dal nostro “ego”, il “mistero” delle altre, di ogni “altra”.
Quel
che di questo mistero umano-divino traluce dal mio entrare in relazione
con lei è un trampolino di lancio in più profonde acque di comprensione,
di verità, di bellezza, di gioiosa attesa, d’amore, di comunione.
Le
“alghe” delle differenze non odorano di salsedine, ma della ampiezze di
quel Dio Creatore e Redentore che per grandi spazi ci ha creati: quelli
della gioia qui in terra, della felicità senza fine nel porto
dell’Eternità.
*Figlia
di Maria Ausiliatrice. Animatrice della casa di preghiera e di
accoglienza a Subiaco (RM). [Torna al testo]
1.
M. Bellet, Il pensiero che ascolta, Paoline, Milano
2006, p. 165. [Torna al testo]
2. S.
Salzberg, L’arte rivoluzionaria della gioia, Ubaldini, Roma, p.44.
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