n. 3 marzo 2008

 

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L'esperienza dell'amore nei santi

di Maria Grazia Bianco

 

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Amore, santità, quotidiano

L'esperienza dell’amore ‘spiazza’ l’essere umano che dell’amore pensa di conoscere tutto o quasi, avendolo studiato da varie angolature. La santità entra in uno dei molteplici aspetti della tematica, l’amore tra esseri disomogenei, creatura e divinità. Potrebbe sembrare un capitolo a sé, di fatto forse lo è, e si radica nel quotidiano.

Quotidie indica ciò che è di ogni giorno e appartiene allo svolgersi di ciò che non ha vistosità di nessun tipo: è quotidiano il formarsi della vita nel grembo di una donna; il portare avanti la vita si snoda per lo più solo nel quotidiano; quotidiano è anche il finire della vita, giovani o anziani che si sia. Nel quotidiano, breve o lungo, si intrecciano e si esprimono santità e amore.

Ne rintraccerò soltanto alcuni segmenti e pochissime esperienze del passato, ma leggibili e parlanti oggi. Utilizzando biografie e analoghi testi letterari, quelli a me più familiari, individuo il cammino di alcuni che, seppure lontani nel tempo, hanno la nostra stessa pasta umana e lasciano emergere, come sintesi del loro esistere, due realtà visibili e comprensibili, estese verso Dio e verso l’altro, amare e quotidie.

Mi ha guidato nella scelta il manifestarsi della santità come semplice espressione di creature consapevoli che la loro natura è amore. Alla santità-amore ho guardato in alcuni aspetti: l’amore è personale, perciò ‘originale’; ha i suoi momenti di nascita e di crescita, i suoi eventi e le sue tappe; mette a confronto identità e nature diverse; rende ogni persona inconfondibile.

Anche se semplice, feriale e quotidiano, perciò vicino e possibile, stupisce perché sappiamo che è possibile e vicino, ma…sembra per persone ‘altre’ e per tempi ‘altri’.

Per chi la santità?

Il problema non è nuovo, lo rileggo attraverso il prologo della Passione di Perpetua e Felicita, che narra gli eventi relativi all’arresto, prigionia ed esecuzione delle giovani cartaginesi e dei loro compagni, il 7 marzo 203 probabilmente. L’ignoto redat-tore del testo riflette sulla tendenza a dare peso e importanza agli eventi passati più che a quelli recenti. Eppure gli uni e gli altri sono dono e opera dello Spirito Santo che, come ieri, anche oggi ha il compito di distribuire i doni da Dio assegnati a ciascuno. L’autore scrive affinché «una fede inferma o mortal-mente malata non giudichi la gloria di Dio privilegio esclusivo degli antichi, quasi si trattasse di un favore speciale accordato ai primi martiri e alle prime visioni. Dio mantiene le sue promesse in ogni tempo, come testimonianza per i non credenti, come grazia per i credenti…». E, nella conclusione: «è giusto leggere queste testimonianze non inferiori alle antiche affinché anche i nuovi atti di virtù testimonino che un unico e sempre medesimo Spirito Santo è tuttora operante, e con esso l’onnipotente Dio Padre e il Figlio suo…». La santità, questa forma di santitamore che dona tutto se stesso, non è realtà del passato ma, essendo opera dello Spirito Santo, è anche di oggi. L’operare di Dio è costante: Dio, per esempio, avrebbe potuto affidare l’annuncio della salvezza ad oratori valenti, invece è stato predicato da pescatori.

Negli anni tra il 156 e il 167 l’anziano Policarpo ottiene che la sua morte avvenga dopo un dialogo di amore (dura 2 ore) con il suo Dio. A chi tenta di persuaderlo che non c’è nulla di male a dire «Cesare Signore» e ad aver riguardo della sua età, Policarpo risponde: «Sono ottantasei anni che servo il Cristo e mai mi ha fatto torto. Come posso bestemmiare il mio re e salvatore?». Viene messo sul rogo e ottiene di essere lasciato come è perché, dice: «Colui che mi dà il fuoco da sopportare mi darà anche la forza di resistere in esso pur senza esservi assicurato dai vostri chiodi».

Perché la santità?

A monte di queste esperienze, c’è la consapevolezza che essere cristiani è essere imitatori di Dio: solo questo è santità, e riguarda tutti, indistintamente.

Gregorio di Nissa così definisce il cristianesimo: «Consiste nell’imitazione della natura divina. Nessuno muova rimproveri a questo mio ragionamento, come se fosse esagerato e superasse gli angusti limiti della nostra natura… La primitiva conformazione dell’uomo imitava la somiglianza a Dio; questo insegna Mosè là dove dice: Dio creò l’uomo, lo creò secondo l’immagine di Dio (Gen 1,27). Essere cristiani consiste nel far ritornare l’uomo alla sua primitiva condizione... Definirsi cristiano è dunque una cosa seria. Chi fa professione di un nome senza uniformare la propria vita a questa regola corre dei rischi. Chi desidera essere chiamato medico o retore o geometra rende credibili questi nomi con i fatti, per evitare che risultino falsi. Allo stesso modo anche noi, se riuscissimo a trovare il vero significato della professione cristiana, non accetteremmo mai di non essere ciò che il nostro nome esprime. Tutti sanno che professarsi cristiani indica essere imitatori di Dio. Natura terre-na e natura divina sono diverse l’una dall’altra e il nostro compito non è quello di paragonarle tra loro, ma di imitare nella nostra vita, per quanto possibile, le buone azioni di Dio: questo chiede il Vangelo. Allontanarci da ogni vizio e purificarci dalle sue sporcizie nelle opere, nelle parole e nel pensiero è l’imitazione vera della perfezione del Dio celeste».

Santità è, semplicemente, essere cristiani, non apparire tali.

Uno scambio d’amore

Lo scambio d’amore che intercorre tra la creatura e Dio, allargandosi ad amare l’altro concreto che vive accanto a noi, sembra fuori del nostro tempo e del nostro linguaggio, forse anche della nostra esperienza? L’amore è capace di accostare nature diverse, creatura e Creatore. Inizia col desiderio che muove («Come il cervo anela alle fonti dell’acqua, così l’anima mia anela a te, Dio»: Sl 41,1; ma siamo assuefatti al linguaggio biblico-religioso e non percepiamo il desiderio dell’acqua in un assetato?). C’è poi una serie d’incontri, che fanno crescere l’amore fino al fidanzamento, fino al matrimonio spirituale (è il linguaggio dei testi). Se si cerca la causa e il movente dell’amore si scopre che esso non è la creatura, invece «era Lui a far divampare nel mio cuore un così alto amore di Dio da non sapere donde provenisse, totalmente soprannaturale e non da me procurato. Mi sentivo morire dal desiderio di vedere Iddio…», dice Teresa di Gesù (1515-1582), la santa di Avila.

Questo Dio, Creatore, Padre, Giudice, Salvatore… ha una caratteristica: Egli è – dice Caterina da Siena (1347-1380) - philocaptus (= preso d’amore) per la creatura che, uscita dalle sue mani, si è allontanata da Lui (ha rotto la strada dell’amicizia che la congiungeva a Lui), e Tu ti sei innamorato di lei.

Se Caterina e Teresa distano 2 secoli l’una dall’altra e sono diverse per nazione, spiritualità, cultura, attività, l’amore le accomuna: innamorate entrambe, entrambe disposte a fare propri gli interessi dell’Amato così da dare tutte le loro energie ai Suoi interessi e alla Sua causa nel tempo in cui vivono. A Lui non possono fare nulla perché di nulla ha bisogno, ma alle creature uscite dalle Sue mani e a ciò che Egli dispone per loro danno tutto quello che hanno e possono fare, tutto quello che sono.

Il cammino dell’amore diversifica le due donne che avevano iniziato con una esperienza uguale: ancora bambine, tentano la ‘fuga’ da casa per andare Teresa verso la terra dei Mori, Caterina nelle grotte degli eremiti. Le attrae la santità e imitano altri. Più tardi imparano a vivere in proprio l’amore ed ognuna avrà la sua fisionomia inconfondibile.

Amore, tormento, gioia, concretezza del dono

Tormento e gioia abitano in Teresa di Gesù e, «per quello che sente, può ben dire di essere stata ferita, ma… da parte sua non ha fatto nulla per attirarsi tanto amore»; prova la ferita che il dardo del Cherubino le configge nel cuore, lasciandola «avvolta in una fornace di amore… Tra l’anima e Dio passa come un soavissimo idillio». Amore e dolore si intrecciano e non può essere altrimenti.

Analoga è l’esperienza di Caterina che in risposta al desiderio di una fede grande vive l’esperienza delle nozze mistiche: le appaiono la Vergine Madre, Giovanni Evangelista, Paolo, san Domenico, Davide con l’arpa. Mentre Davide suona, la Vergine Madre presenta al Figlio la mano di Caterina invitandolo a sposarla a sé nella fede: «L’unigenito di Dio, graziosamente dicendo di sì, mise fuori un anello d’oro, lo lasciò scorrere nell’anulare di Caterina e disse: ecco, io ti sposo a me nella fede; a me tuo Creatore e Salvatore. Conserverai illibata questa fede finché non verrai in cielo a celebrare con me le nozze eterne. Da qui in avanti, agisci virilmente e senza alcuna titubanza in tutto quello che ti sarà messo davanti». La visione disparve, ma l’anello rimase nel dito e Caterina lo vedeva, sebbene gli altri non lo vedessero. Avvenuto lo sposalizio il Signore, a poco a poco, la condusse ad una grande attività, senza toglierle la conversazione di Dio.

Più tardi Caterina riceve le stigmate; ottiene che la ferita non si veda all’esterno e i raggi che partono dal Crocifisso da sanguigni si cambiano in luminosi.

Dalla centralità dell’amore per Dio viene una conseguenza: chi «in verità m’ama, fa utilità al prossimo suo; e non può essere altrimenti, perché l’amore di me e del prossimo è una medesima cosa; tanto quanto l’anima ama me, tanto ama lui, perché l’amore verso di lui esce da me... Non potendo fare utilità a me la dovete fare al prossimo… cercando l’onore mio e la salute dell’anime… Non si ristà mai, l’anima innamorata della mia verità, di fare utilità a tutto il mondo».

Sfide e inviti da raccogliere

Rapportarsi a Dio-Amore è condizione ordinaria e naturale del cristiano, consapevole che Dio lo abita, e l’amore chiede consenso: «Se noi acconsentiamo, Dio depone in noi un piccolo seme e se ne va. Da quel momento, a Dio non resta altro da fare, e a noi nemmeno, se non attendere. Dobbiamo soltanto non rimpiangere il consenso che abbiamo accordato, il sì nuziale. Non è facile come sembra, perché la crescita del seme in noi è dolorosa… il seme, tutto sommato, cresce da solo e viene un giorno in cui l’anima appartiene a Dio, un giorno in cui non soltanto acconsente all’amore, ma ama veramente, effettivamente. Bisogna allora che essa, a sua volta, attraversi l’universo per giungere a Dio. L’anima non ama di un amore creato. Questo suo amore è increato perché essa è pervasa dall’amore di Dio per Dio. L’amore è un orientamento e non uno stato d’animo. Se lo si ignora, si cade nella disperazione al primo contatto con la sventura. Mantenere la propria anima orientata verso Dio mentre un chiodo la trafigge» (S. Weil, Attesa di Dio, Milano 1972).

Si tratta di rinnovare il consenso, quotidie.

Rimando ad alcune parole di Paolo VI pubblicate di recente: «Chi ama non è assente. Chi ama, ricorda, riflette, gode rievo-care e contemplare. Chi ama non si dissipa; distratto, si richiama; stanco, si rianima; afflitto, si consola; bisognoso, confida; tranquillo, s’indugia. Chi ama, geme, invoca, grida; ma non si esibisce, non ostenta il suo sentimento; ne fa un segreto del cuore; vi si rifugia, vi si ristora».

 

Maria Grazia Bianco
Docente presso la LUMSA
Via Traspontina, 21 – 00192 Roma

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