n. 3 marzo 2008

 

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L’incanto, il desiderio, la ricerca

A partire dal Cantico dei Cantici

di Elena Bosetti

 

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Dice bene Papa Benedetto XVI: «Quando uno nella sua vita fa l’esperienza di un grande amore, quello è un momento di “redenzione” che dà un senso nuovo alla sua vita (Spe Salvi, 26). È l’amore il senso della vita e il segreto della felicità. Gli innamorati lo sanno per esperienza diretta e chi li osserva se ne accorge immediatamente: il volto è luminoso, gli occhi brillano di gioia. C’è forse qualcosa di più bello? Il tempo sembra sospeso, il quotidiano si trasfigura, è il magico momento dell’incanto: «come sei bello - come sei bella!».

Ma è possibile vivere la vita così? Vivere d’incanto e di poesia? Cosa dice al riguardo la Scrittura? Quali indicazioni emergono a partire dal Cantico dei Cantici? Articolerò la mia riflessione in tre momenti: l’incanto, il desiderio e la ricerca nella notte.

L’incanto

Momento primo è l’incanto. La bellezza è irresistibile attrazione, rapisce gli occhi e il cuore. E Dio è somma Bellezza. Francesco d’Assisi nelle Laudi dell’Altissimo lo ripete estasiato: «Tu sei bellezza».

Per la Bibbia la bellezza del Creatore si riflette in tutto il creato, inseparabilmente dalla sapienza, che presiede l’opera creatrice ed è «più bella del sole» (Sap 7,29). In ogni cosa brilla un riflesso della bellezza sapiente del Creatore. Perciò la natura non è semplicemente ornamen-tale nel Cantico ma consenziente con i due innamorati; essa concorre al loro sogno d’amore. È nella natura che avviene l’in-canto e delle sue splendide immagini si nutre quel poema d’amore che è il Cantico: lei è come «colomba», lui come «un cerbiatto» e «un cucciolo di gazzella» (Ct 2,8-14). I due innamorati pulsano in sintonia con la natura. Il luogo dell’incontro è nel verde, tra i profumi dei giardini d’Oriente, sotto i cedri e le palme, in una campagna prima-verile ancora bagnata di rugiada: «All’alba andiamo alle vigne, vediamo se è germogliata la vite, se sono sbocciati i fiori, se sono fioriti i melograni! Là ti darò le mie carezze!» (Ct 7,13).

Ma come discernere il vero incanto dell’Amore? Anche l’idolo incanta! Anche il male ha una sua forza attraente, anche «Lucifero, figlio dell’aurora» (Is 14,12; cf. Ez 28,17).

In Eden la prima coppia umana rimase affascinata dal frutto proibito, bello a vedersi, «gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza» (Gn 3,6). Ma ecco che dopo averlo mangiato si aprirono i loro occhi e finì l’incanto: «si accorsero di essere nudi» e ne provarono vergogna (Gn 3,7-10).

Dunque, di quale incanto si parla nel Shir hashirim, il Cantico dei Cantici, ovvero il cantico più sublime? In esso, più che la natura ferita dal peccato, si rispecchia la situazione di bellezza originaria. La nudità non è affatto motivo di vergogna, ma di contemplazione e gioia. Il corpo femminile è esaltato in tutte le sue parti, con sguardo ascendente e discendente (Ct 4,1-7; 6,4-9) e similmente quello maschile (Ct 5,9-16). Sono coinvolti tutti i sensi: la bocca che bacia e assapora (il tuo amore è più buono del vino!), l’odorato con la sua funzione istintiva di base nel rapporto intimo e i diversi profumi che soprattutto in Oriente fanno da immancabile contorno, il tatto con abbracci e carezze, l’udito e la vista: «fammi vedere il tuo volto, fammi sentire la tua voce…» (Ct 2,14).

Tutto concorre all’incanto. Basta un ricciolo dei suoi capelli o uno sguardo per stregare l’amato e rapirgli il cuore: «Mi hai rapito il cuore, sorella mia sposa, mi hai rapito il cuore con uno sguardo, con una sola gemma della tua collana» (Ct 4,9).

Se dal piano della realtà passiamo a quello simbolico, dove i due innamorati sono figura rispettivamente di Israele/Chiesa e del Cristo/Dio, cosa dice questo incanto? Come non restare stupiti del fatto che Dio consideri la creatura sua sposa e ne sia così perdutamente innamorato? Eppure è proprio su questo che fa leva il Cantico in sintonia con la voce dei Profeti, primo fra tutti Osea, che ci presenta un Dio amante del suo popolo/sposa, anche se adultera e infedele. Egli non desiste dal conquistarla, l’attira nel deserto e parla al suo cuore (cf Os 2,16-25). Ecco la sorgente dell’Amore, al contempo eros e divina misericordia! Non è anzitutto nostro l’incanto, ma Suo: «Ecco, ti ho disegnato sulle palme delle mie mani…» (Is 49,16).

Il desiderio

Non c’è dubbio, il desiderio - fortemente erotico - è la nota dominante del Cantico. E la cosa più bella è che il desiderio appare qui liberato da ogni sopraffazione e dominio. Diversamente da Genesi 3,16, dove leggiamo: «verso il tuo uomo ti spingerà la tua passione (teshuqah) e lui vorrà dominare su di te», l’innamorata del Cantico sperimenta la gioia della piena reciprocità: «il mio amato (dodì) è per me e io sono per lui» (Ct 2,16; 6,3), e al colmo dell’entusiasmo può dire: «Io sono del mio dodì e verso di me è la sua passione (teshuqah)» (Ct 7,11).

È un vero capovolgimento di situazione: lei sente tutta la forza passionale del suo uomo e ne è pienamente gratificata. Può affermare così non solo di amare, ma di essere amata. E senza dominio, senza sopraffazione alcuna. In purezza e libertà.

Desiderio pieno e vibrante quello del Cantico, e tuttavia elusivo. I due innamorati si cercano, si incontrano, stanno insieme. Ma improvvisamente cala il sipario e si ritrovano distanti. Eloquente al riguardo è la struttura di questo poema che ritengo un dramma in sei atti.1 I primi cinque atti si aprono tutti allo stesso modo, con i due che sono separati: lui è da una parte, lei da un'altra. Non così nell’ultimo atto dove i due avanzano insieme, lei teneramente appoggiata all’amato. È giunto finalmente il tempo di coronare il sogno? È giunto il tempo delle nozze, dell’unione per sempre? Non ancora perché, a sorpresa, l’ultima parola è il congedo. Lei dice al suo tesoro: «Corri, fuggi via!»(Ct 8,14). Così il Cantico comincia con i due che sono separati e finisce che lo sono di nuovo.

È la fine di tutto o ricomincia il gioco? A mio avviso la ragazza invita l’amato a fuggire per poterlo nuovamente attendere… Dalla struttura emerge che giunti alla fine, il ciclo ricomincia. Si produce una sequenza ininterrotta di cercarsi, trovarsi, godere dell’unione ma solo per  breve tempo, per poi perdersi e tornare a cercarsi. Si potrebbe ipotizzare una risposta di questo tipo: cinque atti sono compiuti, mentre il sesto è aperto e rinvia al settimo ancora da scrivere… o meglio, che vai scrivendo nella tua vita.

La ricerca nella notte

La ricerca è dimensione che attraversa l’intero Cantico, ma in due casi avviene di notte, con angoscia e travaglio. Improvvisamente la camera da letto, luogo dell’amore, si trasforma in luogo di terrore. «Lungo le notti», dice lei alludendo alle veglie di una notte interminabile, <<ho cercato colui che il mio cuore ama. L’ho cercato e non l'ho trovato…» (Ct 3,1).

Cosa è successo? Brutto sogno o realtà? Il suo Amore se n’è andato senza avvertirla, oppure non c’è mai stato in quel letto dove lei allunga la mano e trova il vuoto? È la notte e il vuoto profondo di cui fanno esperienza soprattutto i mistici: «Dove ti nascondesti in gemiti lasciandomi, o Diletto?», esclama S. Giovanni della Croce nella prima strofa del suo Cantico spirituale.

Il poeta descrive con grande efficacia l’angoscia della giovane innamorata che cerca senza tregua e non si rassegna: «Aqma, mi alzerò - dice - e farò il giro della città, per le strade e per le piazze cercherò l’amato dell’anima mia» (Ct 3,2). Non diversamente Maria di Magdala, davanti al sepolcro vuoto: «Hanno portato via il mio Signore e non so dove l’hanno posto», dice agli angeli. E al presunto giardiniere: «Se l’hai portato via tu, dimmi dove lo hai posto e io andrò a prenderlo» (Gv 20,13.15).

L’innamorata del Cantico sfida la notte con i suoi pericoli. S’inoltra per le strade vuote e buie della città, cerca ad ogni angolo, chiama il suo amore, ma invano: «l’ho cercato, ma non l’ho trovato» (Ct 3,2). Che delusione!

Ma ecco un bagliore di fiaccole, un rumore di passi e voci maschili: sono le guardie di ronda nella città: «Avete visto l’amore dell’anima mia?», chiede lei speranzosa. Nessuna risposta. Come se neppure avessero udito, le sentinelle continuano imperterrite per la loro strada. Nel secondo notturno le capiterà anche di peggio; sarà presa, umiliata, picchiata: «Mi hanno trovata le sentinelle che facevano la ronda per la città, mi hanno percossa, mi hanno ferita: mi hanno strappato di dosso il mio velo…» (Ct 5,7).

Ma nel secondo notturno c’è un altro elemento che complica la scena e ne acuisce il dramma: lei si sente in colpa per il fatto che non è stata pronta ad aprire la porta quando lui la chiamava. Cosa è successo? Il testo muove da una situazione di dormi-veglia, tipica degli innamorati. Troppo bello questo brano dove lei ripercorre l’accaduto e lo racconta:

Io dormivo, ma il mio cuore era desto.
Voce del mio tesoro che bussa:
«Aprimi, sorella mia, amica mia,
mia colomba, mia perfetta,
perché il mio capo si è riempito di rugiada,
i miei riccioli di gocce della notte».
Ho levato la mia tunica,
come indossarla di nuovo?
Ho lavato i miei piedi
come sporcarli di nuovo?
Il mio tesoro ha allungato la sua mano
attraverso il foro,
 e le mie viscere si sono commosse per lui.
Mi sono alzata, io,
per aprire al mio tesoro
e le mie mani hanno stillato mirra
e le mie dita mirra liquida
sulla maniglia del chiavistello.
Ho aperto, io, al mio tesoro,
ma il mio tesoro si era ritirato,
era partito.
La mia anima era venuta meno quando egli parlava!
L’ho cercato e non l'ho trovato,
l’ho chiamato e non mi ha risposto…
(Ct 5,2-6).

L’amato bussa, ma anzitutto parla: «Aprimi, sorella, amica mia…». Ha i riccioli bagnati di rugiada il suo tesoro, ha addosso l’umidità e il freddo della notte, desidera entrare e riscaldarsi.

Strano: lei che tanto lo ama e desidera, ora fa la ritrosa, è pigrizia o civetteria, voglia di essere desiderata? In ogni caso, quando si accorge che lui tenta di aprirsi la porta da sé, sollevando con la mano il chiavistello, è attraversata da un fremito: si alza e corre ad aprire. Ma ecco, l’amato è sparito, non c’è più. Sulla maniglia della porta è rimasta la mirra, il suo profumo, ma lui se n’è andato. In preda all’angoscia esce allora di casa, nel cuore della notte. Ritorna l’incubo di una ricerca che non approda a risultato: «l’ho cercato e non l’ho trovato, l’ho chiamato e non mi ha risposto» (Ct 5,6).

Umiliata dalle sentinelle che la picchiano e le strappano il velo di dosso, alla giovane innamorata resta un’ultima possibilità: rivolgersi alle amiche, le figlie di Gerusalemme. A loro affida un messaggio: se trovano il suo tesoro dovranno dirgli che lei è «malata d’amore» (Ct 5,8; cf. 2,5). Ha bisogno assoluto di lui, non può farne a meno!

La tradizione giudaica ha interpretato l’accorata richiesta di lui e la resistenza di lei come allusiva della drammatica esperienza dell’esilio. Ma nell’Apocalisse l’immagine dell’amato che bussa alla porta è riferita al Risorto che dice: «Ecco, io sto alla porta e busso. Se uno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (Ap 3,20). L’Amore non fa violenza. Attende, bussa, promette intimità, suggerita dall’immagine del cenare insieme. Ma all’Amore piace anche giocare a nascondino e vuole essere cercato.

Mi sovviene di un racconto dei Chassidim, narrato da Martin Buber: «Il nipote di Rabbi Baruch, il ragazzo Jehiel, giocava un giorno a nascondino con un altro ragazzo. Egli si nascose ben bene e attese che il compagno lo cercasse. Dopo aver atteso a lungo uscì dal nascondiglio; ma l'altro non si vedeva. Jehiel si accorse allora che quello non l'aveva mai cercato. Questo lo fece piangere, piangendo corse nella stanza del nonno e si lamentò del cattivo compagno di gioco. Gli occhi di Rabbi Baruch si riempirono allora di lacrime ed egli disse: Così dice anche Dio: Io mi nascondo, ma nessuno mi vuole cercare».2

Colui che da sempre è alla ricerca dell’uomo, attende a sua volta di essere cercato. Anche nella notte, fino al sorgere di un grido: «Ecco lo sposo, andategli incontro!» (Mt 25,5).

Note

  1. Cf E. Bosetti, Il cantico dei Cantici. «Tu che il mio cuore ama». San Paolo, Milano 22006.
  2. M. Buber, I racconti dei Chassdim, Garzanti, Milano 1985, 140.

Elena Bosetti
Docente alla Pontificia Università Gregoriana
c/o  Figlie della Croce
Via dell’Arancio, 68 – 00186 Roma

 

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