n. 3 marzo 2008

 

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La perdita di profondità nelle relazioni
Complessità e prospettive attuali

di Anna Bissi

 

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La società attuale vive uno strano rapporto con la realtà dell’amore. Se utilizziamo questo termine in senso ampio, non possiamo non rico-noscere una maggiore sensibilità rispetto al passato. Essa si manifesta, per esempio, attraverso l’impegno nel campo della solidarietà, del volontariato, nell’attenzione per i problemi del terzo mondo, dei disabili: tutti ambiti pressoché ignorati dalle generazioni precedenti. Anche l’attuale moratoria sulla pena di morte è indice di un crescente riconoscimento del valore della persona e di un impegno nella fraternità universale. Tuttavia, se per amore intendiamo in modo più specifico l’affetto profondo che lega una persona ad un’altra, le cui caratteristiche sono l’esclusività e la totalità, non riscontriamo la stessa maturazione di cui siamo invece testimoni nell’ambito universale. I cambiamenti notevoli, che in questi anni si sono manifestati, hanno una qualità diversa e, più che di crescita, si dovrebbe forse parlare d’involuzione.

All’origine di tali trasformazioni nel vivere e concepire l’amore, possiamo collocare il modo diverso di considerare il ruolo del soggetto all’interno della relazione. In quest’ambito abbiamo assistito a una sorta di rivoluzione copernicana: nel passato il soggetto si pensava come un pianeta che ruota intorno al sole, orientato verso alcuni idea-li e valori per cui valeva la pena vivere; ricordiamo, per esempio, la triade “patria, casa e chiesa”, che ha motivato l’agire della maggioranza delle donne del secolo scorso, fino a quella “data spartiacque” costituita dal sessantotto. Attualmente invece l’Io si percepisce come un centro, verso il quale tutto deve convergere. Tutto è pensato in funzione sua, della realizzazione personale e questo non può che ripercuotersi anche sul modo di concepire l’amore.

Conseguenze

La prima, e forse più drammatica, conseguenza di tale cambiamento è la perdita di significato della fedeltà che, a differenza di quanto avveniva in passato, ora non costituisce più un valore. La capacità di mantenere nel tempo un rapporto privilegiato è il naturale effetto del pensare all’amore come a una realtà valida in sé, che supera le esigenze e gli stati d’animo dei partner, una realtà cui si deve aderire perché costituisce un bene oggettivo, per sé e per gli altri, in particolare per i figli, che grazie ad esso trovano stabilità, sicurezza, fiducia. Quando la relazione fra un uomo e una donna viene percepita non in funzione di un ideale oggettivo, ma di un interesse soggettivo, la fedeltà perde di significato: essa ha valore solo e fino a quando il soggetto è coinvolto nella relazione; se quest’ultima però non suscita più interesse, la fedeltà diventa una sorta di “cappio al collo”, un limite, un peso di cui disfarsi, prescindendo dai sentimenti dell’altro – o anche degli altri, se ci sono dei figli coinvolti – poiché ciò che conta veramente è il benessere personale.

Gli effetti di tale modo di concepire l’amore rischiano di essere drammatici: con la perdita del valore della fedeltà, infatti, viene minato alla base un atteggiamento di fondo nei confronti della vita, di cui abbiamo bisogno come dell’aria che respiriamo: la fiducia. Essa presuppone una concezione dell’amore come di una realtà duratura che, proprio perché continua nel tempo, dà garanzie di solidità, sicurezza, stabilità. Se questa viene a mancare, si corre il rischio di non poter più credere a nessuno e di trasformare l’esperienza profonda dell’amore in una serie di relazioni passeggere e frammentarie, capaci di procurare piacere o alleviare la sofferenza per un breve lasso di tempo, finendo però per lasciare la persona ancora più delusa e amareggiata.

Coloro che vedono nel valore della fedeltà una minaccia all’autonomia personale e un limite alla propria indipendenza, oltre a non prendere in considerazione gli effetti deleteri di questa falsa libertà sui figli o sul membro più debole all’interno della coppia, si pongono ingenuamente sempre dalla parte di colui o colei che vuole essere libero di cambiare. Essi dimenticano che la stessa possibilità deve essere accordata anche al partner, il quale un giorno, sentendosi attratto da un’altra persona, potrà decidere di abbandonarli. La tanto vituperata fedeltà, quindi, più che un laccio rappresenta un’àncora di salvezza; essa, infatti, induce a riflettere sull’opportunità di inter-rompere il rapporto, gesto che oggi invece viene messo in atto con stupefacente leggerezza e superficialità. Leggerezza e superficialità che minano le basi dell’amore: perché mai si dovrebbe credere a un altro, quando questi si arroga il diritto di abbandonarmi se non gli piaccio più o se qualcuno l’attrae più di quanto non possa farlo io? Proprio da questo interrogativo nascono il sospetto e la diffidenza, che caratterizzano la nostra società e si estendono oltre i rapporti di coppia, inducendo a guardare gli altri – il vicino di casa, il collega, lo straniero – con sfiducia e paura.

Superficialità nelle relazioni

Il movimento copernicano in cui l’Io viene posto al centro di tutto non ha però, come unica conseguenza, l’aumento della diffidenza all’interno dei rapporti interpersonali. Assistiamo anche a ciò che potremmo definire una perdita di profondità nei legami. La centralità del soggetto, infatti, induce a creare con l’altro rapporti di tipo utilitaristico. È il “per me”, i vantaggi che io posso ottenere dall’altro, il benessere acquisito attraverso la sua presenza, ciò che motiva la relazione. Abituata a cercare la propria gratificazione, la persona sarà sempre più indotta a trovarla in dimensioni superficiali dell’esistenza: il benessere psichico e il piacere sessuale. Il partner rischierà quindi di essere usato come un mezzo, per soddisfare i bisogni personali. Bisogni che si possono collocare a livello psicologico, quali il desiderio di poter mostrare a tutti di avere un partner, acquisendo così stima e credibilità ai propri occhi o a quelli degli altri, o in ambito sessuale. In questo caso la relazione diventa frammentata, parcellizzata: il rapporto, infatti, s’instaura con il corpo dell’altro o anche solo con quella parte che maggiormente attrae. La persona però scompare, ridotta a semplice oggetto d’uso, mentre le sue esigenze, difficoltà, paure, necessità profonde vengono negate, re-legate in un angolo oscuro, dove forse rischieranno di rimanere per tutta la vita.

Si viene così a perdere un’altra caratteristica essenziale dei legami profondi, fonte di gioia per coloro che si amano davvero: l’unicità che nasce dall’esperienza dell’intimità, dal donarsi all’altro “dicendosi”, rivelando i segreti nascosti nelle profondità del cuore e mai consegnati a nessuno. Uno dei grandi limiti del modo attuale di concepire l’amore sta invece nella tendenza a proporre una visione parziale dell’intimità, limitata al puro ambito della fisicità. Quando questa, però, non è accompagnata dall’apertura, dal comunicare ciò che ci “abita dentro”, ingenera sospetto e favorisce la superficialità. “Questa o quella per me pari sono”, cantava il don Giovanni. Quest’atteggiamento nei confronti dell’amore rischia però di diventare abituale nella nostra società: se il rapporto è limitato al contatto superficiale con il corpo dell’altro, da cui cerco di trarre tutto il piacere possibile, l’amore rischia di perdere quella dimensione d’unicità, che permette di dire all’altro “tu sei mio”, non come atteggiamento di possesso, ma come riconoscimento della preziosità ed esclusività della sua persona e della relazione.

Prospettive

Il quadro finora descritto può apparire alquanto pessimistico; esso, tuttavia, trova riscontri nella realtà che ci circonda e spiega l’infelicità di molti giovani – la generazione che dovrebbe vivere con maggior slancio e passione l’età dell’amore – e il loro rifiuto di affrontare la vita, ricorrendo alla fuga nei paradisi della droga e del mondo virtuale, pur di evitare la delusione e la sofferenza nelle relazioni. La presa di coscienza dei limiti di una società non può non interpellare il credente. Nasce, infatti, l’urgenza di una testimonianza diversa a proposito dell’amore.

Il mondo ha bisogno di coppie la cui vita sia in grado di “dire”, non tanto a parole ma soprattutto attraverso l’esperienza, la bellezza di un volersi bene vissuto nella continuità, capace di superare i conflitti e le incomprensioni e di vivere la fedeltà non come dovere, ma come aiuto ad approfondire l’amore. La nostra società ha bisogno di riscoprire la maternità e la pater-nità vissuti come dono, di pensare ai figli come a una grazia e a un mistero, e non come a un diritto, quando sono desiderati, o a un peso di cui disfarsi, qualora non siano stati in precedenza programmati.

Non solo le coppie cristiane, però, hanno una parola da pronunciare a proposito dell’amore e di un impegno a cui essere fedeli. Anche la vita consacrata, infatti, deve lasciarsi interpellare da questa “crisi”. Essa impone una domanda a proposito della capacità dei religiosi di offrire una testimonianza efficace, di saper parlare dell’amore – con la vita e le parole – in un modo diverso, rispetto all’impoverimento che esso attualmente subisce.

La verginità per il Regno, elemento essenziale della vita consacrata, può essere risposta alla crisi dell’amore, cui stiamo assistendo. Essa, infatti, è in funzione di una relazione stabile, fedele, esclusiva con il Dio della vita. Conosce la bellezza di un rapporto unico, basato su una fiducia totale, una fiducia chiamata a crescere nel tempo, a credere all’impossibile, ad affidarsi totalmente. La castità consacrata, inoltre, attinge alle profondità dell’essere, rinuncia alle dimensioni più superficiali del voler bene – l’uso dell’altro, la ricerca del piacere reciproco – per scavare spazi nel mondo interiore e lì intessere legami profondi con l’Amato.

Dobbiamo però domandarci se la realtà che la vita religiosa oggi vive risponde davvero alle esigenze della nostra chiamata. Se la verginità per il Regno può essere una risposta all’attuale crisi dell’amore, essa deve rimanere fedele alle motivazioni profonde per cui è nata nei primi secoli della Chiesa ed è stata scelta da uomini e donne, desiderosi di seguire il Signore con cuore indiviso. Ciò impone la necessità d’interrogarsi sulla qualità della nostra testimonianza.

Il voto di castità rappresenta e conferma davvero una scelta d’amore? Chi ci avvicina, vede in noi delle donne capaci di relazione, donne cresciute nel dono di sé, nell’apertura del cuore? La nostra scelta di Gesù, come unico Sposo, si è perpetuata nel tempo non solo come fedeltà a una decisione iniziale, ma anche come capacità di coltivare nel silenzio, nella preghiera, nella ricerca di momenti e spazi d’interiorità, un rapporto privilegiato con Lui?

Sono questi alcuni interrogativi doverosi per una vita consacrata che corre il rischio d’imborghesirsi e non rimanere fedele alle motivazioni iniziali. Solo se avremo il coraggio di porci tale domande e di conver-tire il cuore di fronte alle nostre infedeltà, potremo diventare quei testimoni dell’amore di cui la società contemporanea ha urgentemente bisogno. 

Anna Bissi
Psicologa e psicoterapeuta
 
Piazza Roma, 35 – 13100 Vercelli

 

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